4. Quattordici giovani eroi

Dieci. Dieci era il numero totale di giovani estratti per partecipare all'Operazione di Spedizioni. Cinque maschi e cinque femmine. Una metà aveva meno di dieci anni, l'altra era tra i dieci e i quindici.

La signora Knight aveva visto zampillare tra l'acqua stagnante della Fontana dei Desideri quei dieci nomi privi di senso, molto tempo prima che le lettere fossero spedite. Da lontano il suo occhio vigile osservò quei dieci estranei, mantenendo per sé quei segretissimi dati e leggendo più e più volte con attenzione le cartelle di ognuno di loro. C'erano bambini ricchi e poveri squattrinati; provenienti dalle migliori famiglie delle Barriere o figli di gente poco raccomandabile; qualcuno di loro, forse, sarebbe stato un ottimo combattente - per la guerra che giungeva da sud -, altri invece avevano ancora troppe cose da imparare.

La signora Knight aveva osservato e annotato dettagli su ognuno di loro. Con spesse rughe d'espressione sul suo viso delicato e gli occhi piccoli d'invidia, aveva fatto le ore piccole per capire cosa non fosse andato per il verso giusto. Era stata una selezione casuale, com'era stato promesso al popolo, opera di un algoritmo particolare e complesso che nessuno conosceva e Megan non era contenta del progetto su cui aveva scommesso l'intera vita. Non ancora, e non lo sarebbe stata finché non avesse letto il nome di sua figlia tra i giovani eletti per partecipare all'Operazione di Spedizione e così i dieci nomi erano diventati quattordici.

Quattordici lettere erano state spedite e, finalmente, l'ADM aveva reso pubblico l'elenco dei quattordici partecipanti.

Tra gli scettici si mormorava che fossero troppi, quattordici giovani e forti erano tanti per una minoranza come quella che viveva nelle Barriere, sarebbero stati utili più in guerra che sperduti chissà dove. Ne bastavano tre, o quattro, secondo loro. «Quattro carogne senza futuro e se funziona ce ne andiamo tutti da quest'isola maledetta.» Altri credevano fossero pochi, che uno o due in più li avrebbero potuti scegliere, ma l'ADM l'aveva già fatto... erano già andati contro le regole e quattro improbabili nomi si trovavano scritti indistinguibili tra gli altri sulla bacheca degli annunci, posta sull'unica via asfaltata di tutte le Barriere:

"Riguardo il progetto Operazione di Spedizione, l'ADM comunica l'avvenuto compimento della fase uno: Selezione, ed è felice di annunciare ufficialmente i partecipanti:

1. Allen Timothy

2. Bousser Marcus

3. Estiral Sasha

4. Fox Morgane

5. Grey Woody

6. Hood Margery

7. Kelly Andrew

8. Knight Alice

9. Prince Elia

10. Rogers Lisa

11. Sky Hanna

12. Sky Paula

13. Treaty Brian

14. Tulip Amos

Auguriamo buona fortuna ai nostri eroi, che lasceranno l'Isola Gold il giorno 12 del mese corrente.

Associazione per i Diritti Magici"

Era improbabile che qualcuno si accorgesse del complotto. Quattordici nomi erano tanti e nessuno avrebbe mai potuto accusare la signora Knight di un bel niente... sua figlia era lì per caso, diceva.

Quel giorno era il sette novembre e l'incontro con i riceventi delle lettere sarebbe cominciato a breve, infatti una calca di giovanotti già aveva iniziato a occupare il Giardino dell'Ever, in attesa che gli venisse indicato il percorso.

In un angolo c'era Timothy Allen, il sorriso più bello delle Barriere, che si guardava attorno con le mani nelle tasche degli shorts. Sasha Estiral, accanto a lui, attirava l'attenzione per la sua carnagione bronzea - rarità assoluta per l'Isola Gold, i cui abitanti erano tutti pallidi come lenzuoli - da parte di un paio ciarlone. Erano le gemelle Sky, Hanna e Paula, - identiche in ogni particolare, se non per un piccolo neo sulla guancia di Paula e per i suoi capelli, molto più corti di quelli della sorella - se ne stavano in un angolo sole solette e ridacchiavano, lanciando sguardi alle spalle dei due ragazzi più grandi. Più in là, il piccolo Brian Treaty, con quei vaporosi capelli biondo-dorati, si tirava su gli occhiali che gli cadevano sul naso coperto di lentiggini e giocava a battimani con Margery Hood, che, nonostante avesse un anno in meno, sembrava più grande di lui. Marcus Bousser si nascondeva dietro una folta e ispida chioma di capelli neri carbone, mentre varcava il cancelletto del giardino insieme alla sua cuginetta Lisa Rogers, che non gli assomigliava neanche un po' e, con cinque anni di differenza aveva un portamento e un'eleganza estranei al più grande; infatti, Lisa sembrava una piccola donna, con un vitino stretto, lunghi capelli castano ramato e un caratterino tutto pepe che la rendeva imparagonabile ai suoi coetanei.

Quella era solamente una parte dei giovani partecipanti alle Operazioni di Spedizione, all'appello mancavano ancora Woody Grey, un simpatico bambolotto di nove anni dagli occhi color mare e Andrew Kelly, che giungeva in prepotente ritardo, accompagnato dall'impettita e pignola signora Kelly. La donna era un tormento per l'ADM: si era lamentata dell'Operazione, commentando che il suo piccolo Drew dovesse rimanere con lei e non in qualche angolo del globo a fare chissà che cosa. «Meglio lì, che qui a combattere la guerra» aveva risposto la signora Knight a quelle continue lagne pietose. «Mi dispiace, ma non possiamo farci nulla. Sia fiera del suo bambino... sarà un eroe.» Non esisteva nulla di persuasivo come la parola eroe detta dalla presidentessa in persona e, dopo che la signora Kelly aveva boccheggiato e annuito a quell'esclamazione, Megan Knight aveva iniziato a usarla spesso. Nessuno si era più lamentato. L'Operazione aveva ottenuto così il suo successo, facendo sbocciare l'invidia in coloro che non potevano vantarsi di aver ricevuto la fantomatica lettera.

Alice, come tutti i partecipanti, si stava recando all'incontro del sette novembre, con Amos al seguito, e aveva in viso il riflesso dell'ambizione. Il suo compagno, al contrario, portava in faccia quel suo solito muso lungo e intristito, dovuto a chissà quale noioso e malinconico pensiero.

Mentre camminavano per le viottole delle Barriere uno accanto all'altra, la ragazza gli chiese: «Ti piacciono i Gold Music? Io li adoro», e poi: «Cosa pensi della cioccolata di Johanna? Per me è più buona quella che fanno all'Ambercaffè», ma Amos non aveva idea di chi fossero i Gold Music e non era mai entrato in nessuna caffetteria, tranne quella di Johanna. Quando Alice capì che non ci fosse assolutamente nulla in comune fra loro due, lasciò che il silenzio li avvolgesse e che l'unico rumore ad accompagnarli fosse quello dei loro passi che calpestavano i gradini, mentre si dirigevano al Giardino dell'Ever.

Salirono le cento scale che il separavano dall'incontro e, con il fiato corto e una mano sul petto, Alice strabuzzò gli occhi quando vide le fronde degli alberi canterini del giardino, spuntare da lontano. La meta non era più tanto lontana. Affrettò il passo e si catapultò in direzione degli abeti. La ragazza aprì il cancelletto e si rivolse ad Amos - che per sua fortuna aveva mantenuto il passo -, per dire: «Qui. Ci sei. Già stato, ricordi?», con voce spezzata dalla fatica e il respiro corto.

Lui annuì, con il viso rosso per lo sforzo. «Sono entrato da lì.» Piegato in due per riprendere fiato, indicò con l'indice le inferiate che facevano capolino dal lato opposto del giardino, «Era il mio primo giorno» pronunciò per concludere Amos.

Alice gli sorrise, contenta che ricordasse quel dettaglio. Lei non sarebbe mai riuscita a dimenticare l'evento che era stato vedere Amos raggiungere le Barriere. Aveva sentito tante storie sul mago cresciuto dalle fate, ma mai si sarebbe aspettata di trovarselo davanti.

«Ringraziamo gli eroi che porteranno lontano la magia, finché ci sarà la magia, quest'isola non morirà» trillò un'inaspettata vocetta stridula e penetrante. Era uno dei tre abeti canterini, che con tono misto tra il serio e lo spiritoso si rivolgeva ai quattordici riceventi delle lettere.

Amos fece un salto e con le mani si strinse il petto per lo spavento. Alice aveva appena ripreso fiato e già gli era morto un respiro in gola, per un riso spontaneo causato da quel volto bianco come un lenzuolo.

«Sono sempre gli abeti, tranquillo.» Gli fece un occhiolino e notò le guance di Amos colorarsi di porpora. «Mi ero dimenticato di loro» disse con tono freddo, tentando una risata che morì con il suo imbarazzo.

Il lunedì mattina nel Giardino dell'Ever le chiacchiere non erano mai state tinte di quei toni infantili, di solito ci si trovavano i funzionari dell'ADM o i folletti impegnati nelle loro mansioni, ma quel giorno il prato era calpestato dalle risa dei bambini, dalle loro voci giocose e dalle chiacchiere impertinenti di qualche ragazzetto.

Ad Alice nacque un sorriso imbambolato sul viso, alla vista di Timothy Allen, che aveva uno sguardo smeraldino in cui lei perse ogni speranza di non cedere al suo modo fare convinto, e sussultò quando un terremoto, con una chioma capelli biondo-dorati, le saltò addosso, disturbandola da quel sogno a occhi aperti. «Alice, la mia amica Alice!» urlò Brian Treaty, incastrando le sue piccole dita nei boccoli della ragazza, per essere certo che non lo lasciasse andare. Alice ricordava bene quando sua madre aveva curato il piccolino dal morso di un serpenaio e, visto che la signora Treaty lavorava dall'alba fino alla sera tardi, lei gli era stata accanto nei momenti più difficili della guarigione.

«Tutti i partecipanti all'Operazione delle Spedizione vicino alla fontana dei Desideri.» Un altro degli alberi canterini parlò con un tono cupo, spalancando la sua bocca larga di corteccia.

La ragazza sorrise a Brian, il cui peso era del tutto poggiato sulle sue braccia, e gli disse: «Hai sentito?» Lui annuì, facendo ondeggiare la sua chioma biondina, e iniziò ad allentare la presa su Alice, che lo trattenne per sistemargli gli occhiali sul naso.

Lei osservò il bambino prendere la rincorsa e urtare le gemelle Sky, che lo fulminarono con i loro grandi occhi scuri, mentre si dirigeva a tutta carica verso la fontana.

Alice si voltò verso Amos, il cui sguardo si era posato in direzione dell'alto cancello da cui era giunto una settimana prima. Lei avrebbe tanto voluto chiedergli che cosa stesse pensando, con quegli occhi segnati dalla malinconia, in cui intravedeva un'ombra di dolore, ma non fece in tempo che l'abete trillò più forte: «I partecipanti all'Operazione di Spedizione vicino alla fontana dei desideri».

«Beh... penso che dovremmo andare.» Alice afferrò il ragazzo per un braccio e lo tirò di peso, facendolo quasi inciampare. Un piacevole vento tiepido, che profumava di mare, giungeva da est e si beò della frescura che le penetrava dall'abitino, mentre un passo dietro l'altro si dirigeva al punto in cui dieci dei quattordici partecipanti già attendevano di iniziare.

Alice si trascinò Amos nell'erba verde del giardino, calpestando quel manto fresco, fino a raggiungere la fontana dei Desideri. La sorgente di quell'acqua stagnante era un vero spettacolo, nonostante le sue acque fossero torbide, su di essa era posta la bellissima statua di una sirena imbambolata, con lo sguardo assente. I suoi occhi erano fatti di piccola e cerulea pietra d'Ambra, che sembrava voler punire tutti coloro che la guardavano troppo intensamente. Era uno sguardo di fuoco e ghiaccio, due occhi che non appartenevano a nessuno e allo stesso tempo parevano lo sguardo dell'universo.

Alice salutò le gemelle Sky, quando ci passò accanto, oscillando la mano a destra e a sinistra. Una di loro si spostò una chioma dei suoi lunghi capelli neri e le fece un cenno, mentre l'altra le mostrò un sorriso di labbra sottili. «Loro chi sono?» chiese Amos incuriosito, urtando per la distrazione Andrew Kelly, il che gli fece guadagnare uno sguardo torvo dalla madre, che era lì come un palo a osservare l'incontro. Sia Alice che Amos ignorarono l'accaduto, passando oltre e ritrovandosi accanto al silenzioso Marcus, che veniva tormentato da sua cugina Lisa.

A quel punto rispose con voce piccola alla domanda posta da Amos: «Hanna e Paula Sky. Te le presenterei, ma non sono molto socievoli.» Era così, più o meno; Hanna e Paula giravano sempre assieme, parlavano all'unisono e si completavano le frasi a vicenda. Era come se i loro cervelli fossero in perfetta simbiosi... Una volta Paula era scivolata per le scale, slogandosi una caviglia, e Hanna aveva avvertito il suo dolore; entrambe avevano iniziato a piangere e lamentarsi, finché qualcuno non sentì le grida e andò in soccorso. Il povero sfortunato aiutante impiegò quindici minuti per capire chi tra le due gemelle necessitasse delle vere cure.

Dalla fontana all'ingresso del giardino erano circa settanta passi, ma Alice non fece difficoltà a notare la chioma rossiccia di Morgane Fox, quando fece capolino dal cancelletto. Senza curarsi di nulla e ignorando Amos, che sarebbe rimasto solo in mezzo alla piccola folla di bambini e adolescenti, raggiunse con passo felpato l'amica.

Morgane era affaticata e i suoi occhi parevano quelli di un cane bastonato. Alice quasi faticò a riconoscere la gioia bambina in quel viso macchiato di rosso.

«Morgane, da quanto tempo» disse, quando le fu abbastanza vicina da poter sentire la sua risposta.

«Scusami, Alice, sono stata impegnata» giustificò lei, cercando di tirare un sorriso. Alice notò nel suo sguardo l'ombra di un pianto e ciò la fece gelare; Morgane era un sorriso perenne. Non la vedeva dall'anniversario dell'Associazione per i Diritti Magici, ma dubitava che il suo volto sempre allegro si fosse spento in quel quadrimestre movimentato.

«Mostrati più forte, smettila di avere paura.» Cercò di rassicurarla Alice, con uno sguardo di buona compassione.

«Ma come? È l'inizio della fine» controbatté l'altra, allargando le braccia in segno di esasperazione.

Alice fece silenzio. Gli sguardi comunicavano meglio delle parole e il gelo delle loro voci calò come un sipario. Si leggeva la malinconia nell'animo candido di Morgane, il suo corpo tremava come una foglia caduta e le sue guance rosse riflettevano i pensieri che in pochi avrebbero compreso.

La quiete tesa venne interrotta da un rumore metallico, quello di una delle porte dei container, gli uffici provvisori del giardino, che veniva chiusa con fin troppa forza. Un ometto dallo sguardo assente, con un taccuino in mano e dei folti baffi grigi, raggiunse la fontana a passo lesto. Sembrava essere appena uscito dalle miniere dei Nani proletari; alto poco più di un cespuglio di more, paffuto e stempiato. Alice trascinò Morgane nel punto in cui aveva lasciato Amos e non fu sorpresa di ritrovarlo ancora lì, a dondolarsi sul posto.

C'erano tredici bambini su quattordici, stretti uno accanto all'altro con lo sguardo spaurito e intimorito. Qualcuno sorrideva a malapena, gli altri si stringevano le braccia attorno al petto per scacciare i brutti pensieri e la signora Kelly, con sguardo di falco, osservava da poco lontano la scena, per esser certa che a suo figlio non fosse torto un capello.

Una volta davanti alla fontana l'ometto passò a setaccio i volti dei ragazzi e si schiarì la voce. «Buongiorno, benvenuti al nostro primo e speriamo ultimo incontro. Io sono Benjamin, Benjamin Pinkupp, uno dei quattro fondatori dell'ADM e per oggi sono il vostro maestro.» Un ampio sorriso coprì in parte le rughe sul volto dell'uomo e, senza attendere alcuna risposta, continuò a parlare con quel tono fermo e sicuro. «Iniziamo dalle basi... Sapete già cosa avverrà al termine di questa settimana?»

Il silenzio regnò sovrano nel giardino. I ragazzini si guardarono l'un l'altro, temendo la risposta. Ammetterlo ad alta voce l'avrebbe reso reale e, nonostante fosse bello immaginare un futuro da eroe, il presente era quello che li separava dalla vita di tutti i giorni e dalle loro famiglie. Il signor Pinkupp non riprese parola e attese per cinque o forse sei minuti che parvero eterni. Il tempo sembrava aver perso il suo filo logico, finché non fu il paffutello Woody Grey, posto tra Hanna Sky e Margery Hood, a prendere parola: «Ce ne andremo, signore.» Pinkupp annuì compiaciuto.

Alice notò Amos, accanto a lei, irrigidirsi a quelle parole e curiosò lo sguardo sui volti degli altri fortunati riceventi delle lettere: il loro, come quello di Morgane e di Amos, non sembrava affatto il viso di qualcuno che si sentisse anche solo vagamente un eroe.

«Va bene, va bene» proseguì il signor Pinkupp, già stanco. Si poggiò di spalle alla sirena, per accomodare meglio il fondoschiena sul bordo della fontana, e guardò i suoi studenti. Tossicchiando in un pugno, l'istruttore si schiarì la voce e domandò: «Mi è stato detto che siete abbastanza bravi con la magia, posso vedere?» Nel suo tono c'era sola e pura curiosità.

I bambini si guardarono tra di loro, i più piccoli dipingevano l'ansia di un esame, ma nessuno dissentì.

«Va bene, facciamo un test, un gioco... Ognuno di voi deve portare qui una sedia con la magia, chi non ci riuscirà starà per tutto il tempo in piedi» disse l'uomo, indugiando con lo sguardo sugli studenti e nascondendo una risata divertita. «Le sedie sono lì» indicò un punto lontano, oltre il cancelletto del giardino, nel bel mezzo della scalinata o ancor più giù, forse. A occhio nudo era impossibile scorgere la catasta di sedie, figuriamoci tentare di spostarne una con la magia. Alice sentì in sottofondo qualcuno borbottare: «Sembra una presa in giro» e lei concordò, senza esprimersi a voce.

Alcuni iniziarono a mobilitarsi nell'impresa impossibile e si posizionarono con le mani dirette a est e lo sguardo concentrato a osservare quell'infinito paesaggio di scale e sedie lontane. Alice, determinata a non essere seconda a nessuno, molleggiò le braccia per sciogliersi, non che fosse utile a qualcosa, e fece un respiro profondo. Si concentrò per focalizzare nella sua mente l'immagine di una sedia posta in chissà quale angolo delle Barriere e allungò il braccio destro per quell'inventata direzione.

La magia costava fatica, soprattutto quando si superavano i limiti conosciuti dal praticante e Alice in quel momento sentiva il suo stomaco contorcersi e le tempie esplodergli. Non rinunciò all'esercizio per il dolore, anzi fu spinta a metterci ancora più impegno e, mentre sentiva la sua stessa magia risucchiarla dall'interno, sentì il fuoco divamparle dal petto e l'adrenalina scorrerle nelle vene. Gioì con gli occhi ed emise un flebile: «», quando notò che una tra le quattro sedie sollevate dai giovani, che fluttuavano come palloncini, seguisse proprio i suoi gesti attenti e regolari. Fece attenzione a non urtare gli abeti canterini, che avrebbero sicuramente suonato qualche maldicenza su di lei se avesse toccato le loro fronde, e fece assestare la sedia davanti a sé con un lieve tonfo sordo.

Si accomodò soddisfatta, accavallando le gambe come una signorina educata, nonostante dentro stesse facendo i salti di gioia, mai in vita sua era stata tanto contenta di stare seduta. Notò che Timothy e Marcus si erano già messi a proprio agio da un po', ma non se ne curò. Voltò lo sguardo verso Amos, che era bagnato di sudore e rosso in viso, e poi verso Morgane, che, con un paio di goccioline sulla fronte, era appena riuscita a issare una delle sedie e aveva un sorriso incurvato in un ghigno soddisfatto.

Hanna e Paula Sky avevano fatto l'esercizio in perfetta sincronia e fecero un gridolino eccitato quando si accomodarono in contemporanea sulle loro sedie. «Brave» gli disse addirittura il signor Pinkupp.

Sasha Estiral rinunciò dopo un po' con uno sbuffo, proprio nel momento in cui Morgane riuscì ad aggiudicarsi un posto. Lisa e Woody erano, tra i piccoletti, i primi a essersi seduti. Alice si voltò di nuovo a osservare Amos, che era l'unico tra i ragazzi - oltre Sasha - a non esser ancora riuscito a far issare una delle lontanissime sedie. Attese incrociando le dita, sussurrando: «ce la puoi fare», all'infinito. Lo osservò stremato e con il viso grondante di sudore, finché il professore non parlò con tono squillante: «Tempo scaduto! Complimenti per chi si è aggiudicato una sedia, gli altri arriveranno all'ora di pranzo con il mal di caviglie, credo.» Pinkupp ridacchiò e passò a setaccio i cinque allievi che non si erano seduti.

Alice alzò lo sguardo verso Amos e mimò con le labbra un mi dispiace, di cui lui, rosso di vergogna, non si accorse. Nel mentre la signora Kelly si era avvicinata al gruppetto, portando con sé una sedia che cedette al piccolo Andrew. Il signor Pinkupp provò a dissentire, alzando il dito indice prima di parlare, ma lei lo fulminò con lo sguardo e si voltò, augurando: «Buona lezione.»

Pinkupp abbassò in dito, con lo sguardo ebete e confuso, e tornò a rivolgersi agli studenti, scuotendo la testa per rimuovere l'accaduto. «Voglio introdurvi un concetto importante: la famiglia»

Quando il maestro iniziò a parlare il silenzio regnò come re assoluto del Giardino dell'Ever. L'attenzione era alle stelle, sia per grandi che per i più piccini, tutti incuriositi e un po' onorati da quel che gli avrebbe detto l'anziano fondatore Pinkupp. «La famiglia...» ripeté, «qualcuno di voi sa dirmi che cos'è?»

La manina della piccola Lisa Rogers scattò verso l'alto per prima, seguita da Woody e Brian. Pinkupp indugiò con l'indice su di lei e l'assecondò: «Dimmi, signorina».

«La famiglia sono il mio papà e la mia mamma che mi vogliono tanto bene» parlò lei, con voce piccola e infantile, facendo sorridere un po' tutti.

«Brava!» Batté le mani il maestro, incoraggiando la bambina. Poi spiegò al resto dei presenti: «La famiglia è un legame e voi tutti sarete ben presto legati dall'Operazione di Spedizione, quindi sarete una famiglia». Qualcuno si accigliò, altri si lanciarono sguardi affini o di sfida. C'erano persone contente a quell'idea e altre che avrebbero preferito buttarsi da una scogliera. Alice era nel mezzo, c'erano persone a cui voleva bene, conoscenti che ignorava e alcuni tra quei giovanotti invece non li sopportava affatto... tutto si sarebbe aspettata tranne che un pensiero del genere le sfiorasse la mente.

«Io vorrei che imparaste a conoscervi... ben presto sarete lontani da mamma e papà e chi vi guarderà le spalle? Voi, la vostra famiglia. Guardatevi attorno, cosa vedete?»

Alice voltò lo sguardo a destra, dove c'era Amos che stava in piedi a dondolarsi sul posto, e poi a sinistra, verso Morgane, che seduta su quella sedia, pronta per scoppiare in lacrime, le sembrava un'estranea in confronto a com'era prima. Tutt'intorno c'erano i suoi compagni o, come l'aveva chiamati Pinkupp, la sua famiglia. Avevano tutti quello sguardo scettico e confuso che lei stessa non riusciva a nascondere dietro a un sorriso intraprendente.

«La nostra famiglia?» azzardò a rispondere Timothy, con una piccola risata che rendeva la sua osservazione sciocca. «Persone?» tentò Hanna Sky. «Niente» disse secca Morgane.

Sasha Estiral alzò la mano subito dopo, ma Pinkupp non ci fece caso e indugiò con l'indice su Morgane. «Signorina, spieghi ai suoi compagni... Perché non vede niente?» chiese, con un tono incuriosito.

Morgane sgranò gli occhi, le sue guance di lentiggini si tinsero di rosso fuoco e lei si alzò timida dal suo posto per farsi sentire meglio da tutti. «Io vedo delle bugie che vengono scambiate per promesse, signore. Vedo che qui il mondo andrà veloce, quando noi saremo andati via, accadranno tante cose e io non ci sarò e non saprò mai più nulla. Perché dovrei guardarmi attorno, se tanto tra poco di questo mondo che ho intorno non ci sarà più niente?» La ragazza si sedette di nuovo, tra i silenzi dei suoi compagni.

Qualcuno si girò a guardarla, la stessa Alice la osservò poggiarsi al suo posto e scivolare sulla sedia, mentre crollava in un pianto di singhiozzi. Per qualche attimo Morgane parve il sole e ben dodici pianeti erano lì, con gli sguardi impietositi, a guardarla.

Alice si chiese perché lei non si sentisse in quel modo, perché l'idea di partecipare a un progetto simile non la divorasse dall'interno... ma la voce del signor Pinkupp la fece tornare con corpo e anima alla lezione.

«Signorina Estiral, voleva dire qualcosa?» chiese il maestro, per rompere quel fastidioso silenzio di tomba.

«No, signor Pinkupp. Non importa.»

E la lezione continuò nel silenzio della classe. Il maestro Pinkupp aveva ripreso parola e non fece più alcuna domanda ai suoi allievi. Continuava a ribadire quanto fosse importante conoscersi, contare l'uno sull'altro e imparare a essere la famiglia di cui avrebbero avuto bisogno. Alice ascoltò per un po', poi non ascoltò più. Si perse nell'immagine di Morgane, che faceva scendere lacrime sulle sue guance, come se non ci fosse nulla di più naturale al mondo di quel pianto flebile di singhiozzi strozzati.

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