2. Figlio dell'oro

Triste e senza futuro si prospettava la vita a detta di un ragazzino di dodici anni che non aveva mai conosciuto la propria famiglia. Amos Tulip viveva alla giornata, godendosi momenti che non appartenevano alla sua natura e si cullava nelle consolazioni delle sue balie. Le quali tentavano di persuaderlo del fatto che quella vita non lo rendesse poi tanto sconsolato e che sull'Isola Gold ci stesse qualcuno, almeno una persona, in grado di capire come si sentisse. Lui non ci credeva, Amos era convinto che al di fuori del suo bozzolo di paure e insicurezze ci fosse un mondo troppo grande per la sua piccola e debole vita. Non era un bambino coraggioso.

«Potresti andare lontano, sai? Ora sei abbastanza grande per lasciare il Boschetto» gli aveva detto una fata, notando il suo sguardo smarrito.

«Lontano dove? Io sto bene qui» aveva risposto lui, godendosi la luce del giorno e i canti dei passeri. Lui non conosceva altri luoghi, se non il Boschetto, che potesse chiamare casa e, nonostante fosse diverso dalle fate che ci vivevano, non aveva alcun motivo di raggiungere gli altri maghi alle Barriere.

Amos era stato trovato da neonato, fra i rovi e le foglie di un piccolo cespuglio di bacche rosse e letali. Sua madre non si era neanche degnata di abbandonarlo in un luogo sicuro, ma lì, fra il nulla e la morte; con il rischio che uno dei rametti gli cavasse un occhio e che, mentre boccheggiava fra i pianti, una di quelle bacche micidiali gli cadesse in bocca.

Fasciato in una coperta stropicciata e sporca di terra, senza un nome o una famiglia d'origine, il fanciullo mugolava versetti flebili, strozzati dal richiamo della morte. Fu una Fata del Nord a trovarlo, un'anziana che chissà come riuscì a sentire i suoi mugolii. La vecchietta, ormai, non sfruttava più la magia dell'isola per renderla rigogliosa e amabile, e, come una vera e propria pensionata, si trastullava nella foresta, attendendo il momento in cui avrebbe lasciato quella vita.

L'anziana lo prese, lo portò via con sé, nella piccola abitazione che condivideva con la nipotina, una giovane dai capelli dello stesso colore del cielo in primavera. Gli diede un nome, uno vero e genuino, che secondo la signora gli avrebbe permesso di avere una vita effettiva. Era un nome dal significato forte, che iniziava con la stessa lettera della parola amore e in grado di ricordargli che lui era un dono portato dal cielo: Amos.

Lo sfamò e gli stirò gli abiti finché le sue forze glielo permisero, finché non cedette la sua vita alla morte e abbandonò la terra che aveva visto brillare grazie alle sue stesse mani.

Il bambinetto aveva sì e no sette anni, quando vide la prima e unica persona disposta a dargli amore crollare sul pavimento. Crunch! Una tazza da tè, fatta con fragile porcellana, andò in frantumi e della camomilla si rovesciò sulle mattonelle in terracotta. Il piccolo percepì la scena farsi buia proprio davanti i suoi occhietti azzurri. Una morsa gli strinse il petto e aumentava di intensità a ogni passo che muoveva verso l'anziana abbattuta. Amos non aveva idea che quella sensazione fosse dolore.

Non pianse e non rise, non disse niente per più di qualche giorno. Ogni volta che i suoi occhi si chiudevano per cedere al sonno, lui viveva quella scena e lo sguardo fisso, perso nel buio eterno, dell'anziana lo perseguitava in ogni sogno, bello o brutto che fosse. Sotto il suo sguardo innocente, il mondo si era fatto un po' più buio quel giorno, nonostante continuasse a muoversi frenetico: le Fate del Nord continuavano a svolgere le loro mansioni nei confronti della terra, i Nani proletari attraversavano il villaggio diretti alle miniere tutte le mattine, il giorno si succedeva con la notte e viceversa.

Amos si era perso in un oceano di silenzi e sospiri, finché non realizzò che la terra pretendeva la vita per rimanere bella e rigogliosa come lui la conosceva e, qualche mese dopo, dove un tempo c'era una buca coperta di sudicio terriccio, un bocciolo stava spuntando nel terreno freddo. «È nonna Kat, torna dal mondo dei morti per rivolgerci un saluto», aveva detto sorridendo l'ormai cresciuta nipote dell'anziana.

Amos non ne era tanto convinto, ma il buon umore della ragazza lo spinse a tirar fuori un mezzo sorriso, mentre si chiedeva se per davvero la signora Katiuscia fosse lì, a osservarli durante le monotone giornate che fino a qualche tempo prima condivideva con loro.

***

Gli anni passavano, i sogni crescevano e con essi anche le ispirazioni; ma il fanciullo era bloccato. Avrebbe potuto lasciare le fate in qualunque momento, ma il suo bisogno d'amore era troppo forte per andare incontro a una vita di incertezze. Amos si era chiuso in quella gabbia, dove nulla avrebbe mai potuto ferirlo.

Le luci pallide e pure che perpetravano dalle fronde degli alberi, le collinette tinte di fiori dai colori spettacolari e le piccole capanne fatte di paglia e legno, rendevano il panorama magico e irreale. Quello era il villaggio delle Fate del Nord, a loro piaceva chiamarlo il Boschetto, ma agli occhi di Amos era un villaggio come un altro, se non anche l'unico che avesse mai visto. Era un luogo umile, semplice. Una sola fila di capannelle si ergeva da un lato di una stradicciola incavata nella terra; niente cemento per quella via che collegava le Barriere con Sacram, il più alto dei tre monti di Gold Island. Alle fate piaceva realizzare le loro opere con i soli elementi che era in grado di fornirgli la terra, a parer loro solo così l'isola Gold avrebbe brillato in eterno.

Amos non era certo di comprendere cosa significasse; viveva da tanti anni con le fate ed erano le uniche creature con cui si fosse mai confrontato, ma il loro modo di fare magia era diverso da quello che conosceva lui. La magia di Amos era più emotiva, dolorosa a volte e non aveva nulla a che vedere con la grazia e l'eleganza di quel che facevano le fate.

Più volte aveva tentato di apprendere i loro trucchi, di aiutarle a far crescere fiori e frutti, ma nonostante la buona volontà i risultati non erano stati dei migliori; alla fine rinunciò e iniziò a passare le sue giornate sotto l'ombra degli alberi, osservando le maestre all'opera.

Una figura femminile, alta e slanciata, coperta solo da un panno di cotone bianco, che le fasciava il corpo dal seno alle ginocchia, camminava per il prato, muovendo le lunghe gambe sottili una davanti all'altra con una leggerezza e un'eleganza che solo una fata poteva avere.

La giovane rivolse un sorriso genuino alle farfalle rosee e azzurrine che si poggiavano sulle sue scapole sporgenti. Una coroncina le legava ordinatamente una chioma di capelli cerulei, impedendo che questi le cadessero davanti agli occhi e le sue braccia fine, nel mentre, sfioravano i rami degli alberi che si tingevano di verdi foglie primaverili. I suoi piedi nudi bruciavano la terra arida, lasciando a ogni passo sorgere una nuova margherita più forte e bella di quella passata. La fata continuava a passeggiare nel campo fiorito, in direzione del giovanotto, con la solita espressione beata e un sorriso che si faceva sempre più debole, a ogni passo che faceva verso di lui.

Amos alzò lo sguardo. Si era accucciato di fronte a una vecchia quercia malata, che pioveva sulla sua testa foglie secche e rametti piccoli quanto stuzzicadenti. Nonostante l'aria calda del mattino, il terreno sotto di lui era freddo e umido, tanto da bagnargli i calzoncini di fanghiglia marrone. Il ragazzino, però, non se ne curò, finse niente e si sdraiò sulla terra, osservando con quei piccoli occhietti azzurri il cielo che faceva capolino fra le fronde della quercia.

«È arrivata la tua lettera, figlio dell'oro, vuoi leggerla?» domandò la fata, poggiando una busta di carta sul grembo di Amos e rannicchiandosi accanto a lui, sul terreno umido.

Il ragazzino si drizzò sulla schiena, incrociando le gambe per stare più comodo, e strinse forte la lettera fra le dita piccole di due mani ancora troppo infantili. Osservò il sigillo argenteo, con su raffigurato un piccolo albero e lo sfiorò con delicatezza. Gli uscì spontaneo un sospiro profondo. Aveva passato una vita a credere che lui fosse l'essere più triste dell'intera isola, ma per la prima volta iniziava a rendersi conto che oltre la pace del Boschetto c'era qualcosa di peggio del non conoscere la propria storia: una guerra.

La fata gli sorrise comprensiva. «Vuoi una mano?» domandò, mentre gli carezzava la schiena con le mani di seta.

Amos negò con la testa, abbassò il capo, mentre i palmi della fata lo coccolavano e lui fingeva di non aver alcun bisogno di quell'affetto.

Ruppe il sigillo e tirò fuori la lettera.

Gentile Sig. Tulip,

l'A.D.M. è felice di comunicarle che è stato scelto per prendere parte al progetto: Operazione di Spedizione. L'attendiamo il giorno 7 novembre nei pressi del giardino dell'Ever (su per la grande scalinata) per un incontro volto alla preparazione. La spedizione avverrà al termine di quella stessa settimana. Non sarà necessario munirsi di particolari attrezzature, ma le è caldamente consigliato di portare con sé i propri beni personali. Per motivi di sicurezza non sarà possibile visionare la spedizione, da membri esterni all'associazione.

L'attendiamo con ansia.

Cordiali saluti,
Sig. Abram Fox,
segretario dell'Associazione per i Diritti Magici.

Amos sospirò, mentre la fata gli sorrideva più per compassione che per altro, e spalmò le mani a terra, sporcandosi la pelle e le unghie di terriccio. «Amaranta, devo partire» disse, con un tono annoiato fra gli sbuffi.

«Eh sì, piccolo figlio dell'oro, non lo sapevi?» domandò la fata. La sua espressione era pacata come al solito, ma nel tono c'era qualcosa di insolito. Forse era dispiaciuta?

Amos annuì. Una parte di sé sapeva benissimo che prima o poi sarebbe arrivato qualcosa a strapparlo dal suo nido, ma aveva sperato che una vita a fra le Fate del Nord bastasse per considerarlo troppo impreparato per essere un mago.

Eppure, in quel momento si sentiva strano. Non provava paura, né si sentiva coraggioso, era solo sconvolto dall'idea di dover abbandonare il Boschetto e le sue amiche fate, che per tutto quel tempo avevano badato a lui e gli avevano insegnato a comportarsi come un giovane uomo.

Il popolo delle Barriere non si era mai preoccupato del giovane Amos Tulip, ospite da sempre a casa delle fate, e adesso lui avrebbe dovuto lasciare la sua famiglia per degli estranei. A lui, quello, sembrava uno sciocco scherzo di cattivo gusto.

«Beh, hai un paio di giorni prima di dover andar via... Sarai ospite della signora Knight, anche sua figlia partirà con te. La presidentessa ci tiene che ti senta a tuo agio, crede che sia d'aiuto farti ambientare prima della partenza.»

«Non è un po' come abbandonare due mondi anziché uno solo?» rifletté Amos ad alta voce.

Amaranta sospirò, senza riuscire a contestare o a rispondergli consolatoria. E cosa avrebbe mai potuto dire? A lei non era mai successo di dover abbandonare casa sua, alle Fate del Nord era semplice la vita, senza distrazioni; erano lavoratrici, come i Nani proletari, che scavavano nelle miniere alla ricerca di ori e bronzi, ma senza sporcarsi i vestiti. Loro dovevano solo agire come la loro natura gli aveva ordinato e gli riusciva in modo splendido, con colori sbarazzini e profumi primaverili.

La giovane fata gli carezzò la fronte, sorridendo come un genitore a un figlio, e si spogliò del misero panno che le fasciava il corpo, lasciandolo cadere ai suoi piedi. Al di sotto di quell'involucro si celava un corpo delicato e slanciato, che pareva la piuma più sottile e brillante di una Fenice, una fascia d'argento le copriva i seni e uno slip l'intimità, ma Amos non rimase colpito dal corpo sottile e femminile della creatura, che per lui era come una sorella, ma dalle ali brillantine che sporgevano dalle scapole, mille colori le spuntavano da dietro la schiena, gli stessi bianchi e azzurrini che la fata aveva donato ai fiori, adesso le coprivano il corpo fino al coccige.

La giovane sorrise, emettendo una flebile risata, che assomigliava a un gridolino imbarazzato, e poi si librò nell'aria, facendo un cenno con la mano ad Amos.

Il bambino ricambiò il gesto e la osservò andare via, libera dalle vesti e dal peso della terra, oscillava da un lato all'altro, leggera come una foglia. Il sole scaldava lo sguardo malinconico di Amos e lo costrinse a socchiudere gli occhi, mentre osservava Amaranta sparire nel cielo. I capelli azzurrini della fata si confondevano con il manto sereno in cui ondeggiava, delicata e bellissima. Amos fece un respiro profondo e pensò: magari potessi volar via anch'io.

I pensieri del giovanotto in quel momento divennero ombre, non si era mai trovato in una situazione che gli facesse provare tanta paura. Amos scosse la testa e strinse delle erbacce fra le dita, ispirando profondamente. non riusciva a pensare in modo lucido e sentiva il suo cervello scalpitare veloce. Per qualche istante desiderò che l'ADM si fosse sbagliata e che qualcun altro al posto suo avrebbe partecipato alla spedizione, qualcuno più meritevole, non un ignoto ragazzino che viveva con le fate. Trovò in quel pensiero il modo di rilassarsi e cercare altrove una consolazione, sarebbe sempre potuto fuggire...

Amos affondò il palmo destro nella superficie di terra marrone e poi anche il sinistro, scavando senza troppa molestia o brama il terreno sotto di sé; voltò il suo sguardo, rivolgendo la propria attenzione all'albero e desiderò silenzio.

Il Boschetto non era un luogo rumoroso, ma in quel momento lui voleva l'assoluta pace, senza i canti degli uccellini o il continuo frinire delle cicale. Aveva bisogno di chiudersi in sé stesso, di rintanarsi nella sua mente e buttare via la chiave per assicurarsi che nessuno disturbasse il suo pensiero, ma prima doveva continuare con la sua caccia.

Con le mani, infatti, cercava una radice, un contatto con quel che c'era di più profondo della grande e vecchia quercia che aveva di fronte. Le sue unghie erano nere e sanguinanti a causa dei sassolini incontrati nel cammino e le mani gli tremavano per lo sforzo, ma, solcando il terreno a tentoni, riuscì finalmente a trovare una sporgenza molle e fina, che proveniva dall'albero.

A quel punto Amos chiuse gli occhi e per qualche istante si sentì davvero in pace con sé stesso, libero di muoversi all'interno della sua testa, con i piedi che rumoreggiavano nel nulla a ogni passo eseguito nei meandri della propria mente e la grande e vecchia quercia davanti a lui a proteggerlo da ogni genere di presenza ostile.

«Cosa devo fare?» domandò con un tono piccolo e sussurrato. Le labbra schiuse a malapena e gli occhi ancora chiusi, attenti a visualizzare sé stesso che si muoveva nel buio e nell'oscurità che c'era nella sua mente.

Non sono pronta a darti tale risposta, giovane figlio dell'oro, ma se vuoi posso illustrarti le conseguenze delle tue scelte, rispose una voce tuonante. Sapeva benissimo che fosse tutto all'interno della sua testa, che nessuno lì intorno potesse udire quel tono ottuso e che lo stesso non potesse fargli alcun male, ma strinse più forte la radice per farsi coraggio.

«Sì, ti prego, mostrami il futuro» implorò il bambino, alterando un po' la voce.

Il buio nella sua mente si colorò di tinte come ci fossero dei pennelli, sfumature rosse e carbone sopraffaranno il nulla da cui era circondato. Lui, con lo sguardo, seguì la scena che gli si palesò davanti.

Un grande e grosso faro era in fiamme, uomini e donne urlavano, i bambini piangevano e i folletti fuggivano a gambe levate nella direzione opposta. Una giovane non troppo matura, con un caschetto di capelli neri si lanciava in direzione del fuoco, sovrastando i terrorizzati e dipingendosi come una vera eroina. Il fumo, però, sovrastava la visuale alla mente di Amos, che, nonostante ciò, cercava comunque di andare in contro al destino della donna con lo sguardo, ma le fiamme erano troppo imponenti. Il caldo lo sentiva sulla sua pelle, lo scottò appena, distraendolo, e come se nulla fosse si ritrovò di nuovo nella sua mente buia, soffocato dalla tosse causata dalla fuliggine.

Attese nell'ombra una seconda scena o che la precedente tornasse. Voleva vedere le sue opzioni, voleva capire se ci fosse una scelta migliore del partire verso l'ignoto, ma non accadde nulla e la scena che gli era appena stata mostrata significava ancor meno che niente per lui.

«Che cosa vuol dire?» domandò, dando parola ai suoi pensieri. Senza neanche rendersene conto stava urlando e la voce di un ragazzino spaventato risuonò nel Boschetto, svegliando i gufi appisolati.

È il futuro, non deve per forza avere un significato. Non importa quale scelta tu prenderai, in ogni caso ci saranno fuoco e fiamme altissime. La gente morirà pregando di non soffrire, codardi e coraggiosi. Non importa quale scelta tu prenda, l'Isola Gold patirà per la guerra. Il suono della voce nella sua testa gli fece male alle tempie e lo costrinse a digrignare i denti e stringere più forti le radici. Dai suoi capelli bruni, colò un rigolo di sudore che gli bagnò la fronte e gli scese sul mento.

Amos sentiva sugli avambracci lo sforzo che si costringeva a sopportare, come se stesse reggendo un palazzo durante un crollo e non una sottile e umida radice. Provò a trattenere la presa, mentre il dolore gli martellava nella testa e si sentiva strano, come se una forza lo spingesse al di fuori della sua mente, quella stessa mente che Amos credeva fosse una parte di sé.

Ormai senza forze lasciò andare le radici, talmente le stringeva con forza che di rimando finì schiena a terra. Sperò di calmare così quel frastuono, ma la testa continuava a fargli un male atroce e, con le mani fra i capelli, cercò di fermare quel continuo martellare. Senza rendersene conto stava gridando e chiunque intorno a lui avrebbe potuto notarlo sdraiato a terra, tra gli spasmi e le urla, che si contorceva come se avesse toccato dell'ortica.

Quando iniziò a riprendersi da quella fatica, fece un respiro profondo e si massaggiò le tempie, constatando che la sua testa fosse ancora attaccata al corpo e che tutte quelle sensazioni che l'avevano scosso fossero solo nella sua mente.

Amos tremò come una foglia, pensando al destino che attendeva la sua isola magica. Lui non era entusiasta all'idea di raggiungere le Barriere e di conoscere quel genere di maghi, ma si accorse che non valeva tanto una vita in fuga su un'isola che sarebbe presto diventata l'inferno in terra.

***

A distanza di una settimana dal giorno in cui ricevette la lettera, accompagnato da un solo bagaglio non troppo pesante, Amos iniziò il suo cammino verso le Barriere.

«Segui la strada scavata nella terra fino alla sua fine, tutta dritta, senza mai voltarti. Se manterrai un buon ritmo e non ti distrarrai nel percorso, arriverai in un paio d'ore.» Gli aveva detto Amaranta poco prima di salutarlo.

«Grazie. Ci rivedremo!» Aveva risposto lui, con un tono deciso, più adulto e consapevole di quanto realmente fosse.

«Se sarà possibile. Adesso, però, devi pensare a te, figlio dell'oro. Buon viaggio.»

Non era stato un addio strappalacrime, Amos era troppo riflessivo e composto per piangere davanti a chiunque, ma il pensiero di non vederla più gli aveva fatto male. Lasciare il Boschetto, voltarsi indietro e osservare Amaranta che, piena di vita, ancora lo salutava con la mano, tirando un sorriso che agli occhi del ragazzino risultò solo che triste; tutto ciò gli fece provare la stessa sensazione che aveva sentito quando l'anziana fata Katiusha si era abbandonata nel braccio della morte.

Seguendo la strada scavata nella terra, camminando senza sosta come gli era stato consigliato, Amos raggiunse un alto cancello di metallo, chiuso a chiave. Sopra di esso un cartello riportava un'incisione che pareva molto più antica delle Barriere: «Giardino dell'Ever».

Amos non si era reso conto di essere stanco fino a quel momento, in cui si fermò a leggere l'indicazione e a riprendere fiato. Gli facevano male le gambe e i piedi gli scottavano a tal punto da immaginare di poterci cucinare sopra qualcosa. Avrebbe tanto voluto sedersi e bere un bicchiere d'acqua, ma gli bastò uno sguardo al cancello per convincersi a compiere gli ultimi sforzi.

Si avvicinò di soppiatto, cercando di scorgere qualcuno all'interno che gli dicesse cosa avrebbe dovuto fare per entrare, ma i cancelli, come ad avere una propria memoria, si spalancarono davanti al suo sguardo stupito.

Amos sobbalzò, stringendosi una mano al petto, e si guardò intorno. Il giardino era immenso, con erba di un verde arlecchino, che sembrava fare da specchio al cielo, e una recinzione di ferro che stonava con la natura dei grossi abeti, pavoni del parco, più giù c'erano quelle che a lui parvero piccole abitazioni di metallo, ma di cui non sapeva dire altro. Era tutto così strano per quegli occhi cresciuti nella pace e nella monotonia del Boschetto. Trasse un respiro profondo e varcò i cancelli un po' confuso.

«Entra! Entra, giovanotto.» Qualcuno parlò. Amos si girò verso una possibile fonte, ma non fu in grado di dire chi avesse emesso quella voce, ovattata e cupa, da contrabasso.

«La signora Knight ti aspetta nel suo ufficio.» Un'altra voce, stavolta stridula e alterata. Il ragazzino si strinse nei suoi abiti e continuò a volgere il proprio sguardo in lungo e in largo per il giardino alla ricerca dell'emittente, ma, oltre un'incantevole fontana su cui si ergeva una sirena, le case in metallo e gli arbusti, lui non vedeva proprio nulla.

Un terzo oratore ridacchiò. Questa volta Amos si spaventò e non riuscì a proseguire il suo tratto, ormai breve, verso le piccole abitazioni. Passò al setaccio ogni angolo del giardino, finché non notò il volto di una ragazzina dai lunghi riccioli biondi spuntare da una fessura della porta delle casette di metallo, forse l'ufficio di cui aveva sentito.

Amos aggrottò la fronte, lei spalancò l'uscio e si mostrò per intero; lì per lì Amos pensò fosse stata lei a imitare quei suoni, ma secondo lui era impossibile che chiunque tra i dieci e i quindici anni riuscisse a imitare quel suono roco, sentito all'inizio, in modo tanto perfetto. il grazioso viso della ragazza, che iniziava a mostrare i primi segni dell'adolescenza non fecero altro che confermare la sua teoria. Fece qualche passo in avanti, verso di lei, ma non trovò il coraggio di parlare.

«Sono solo gli abeti, a loro piace prendere in giro gli stranieri» disse la ragazza, quando ormai Amos le era a meno di un metro di distanza.

Non le rispose, ma voltò lo sguardo verso gli alberi. A lui parvero normali arbusti vecchi di cento anni, ma era evidente che si stessero ancora prendendo gioco di lui. Alzò le spalle un'altra volta, mentre la ragazzina rideva di nuovo. Amos si sentì più estraneo di quanto fosse in realtà.

«La mia mamma è dentro, è ansiosa di vederti.» Detto questo, la ragazzina, che sembrava proprio la figlia della signora Knight, spalancò la porta del piccolo ufficio e balzò in avanti. Sorrise ad Amos, facendogli un cenno di saluto e, agitando le braccia, issò un lieve vento di foglie verdastre e rametti che l'accompagnarono fin dove lui riuscì a vedere.

Un lieve stupore e una risata furono le uniche cose che Amos riuscì a rivolgerle, era troppo confuso ed emozionato. La figlia della signora Knight era come lui, non nascondeva ali fantastiche sotto un velo, né utilizzava la sua magia per far crescere i fiori; la sua magia aveva uno scopo diverso che, probabile, neanche lei conoscesse e non sembrava preoccuparsene troppo.

Amos si sentì al posto giusto per la prima volta in vita sua e iniziò a credere di aver intrapreso il percorso corretto. Non aveva idea di quanti ostacoli avrebbe riscontrato tra i maghi delle Barriere, ma in quel momento si sentì più eccitato, che triste.

Mentre tremolava emozionato nei suoi abiti sfilacciati, varcò la porta che la giovane Knight aveva spalancato per lui e non riuscì a far a meno di pensare: anche mia mamma deve aver camminato su questo stesso terreno, varcato il cancello con su scritto Giardino dell'Ever e percorso la strada scavata nella terra, prima di lasciarmi...

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