~𝑅𝑖𝑐𝑐𝑎𝑟𝑑𝑜.~



Ricordo bene cosa successe il giorno dopo.

Lo sguardo bagnato, fulminante e omicida della comitiva delle amiche di Margot non mi si è mai levato dalla testa.

Uno sguardo che trasudava una rabbia sorda, una rabbia che sai già non riuscirai ad estirpare nemmeno con tutta la buona volontà del mondo.

Non mi alzai dal letto neanche un secondo quella mattina con la scusa che non dovevo lavorare.

Arrivai a metà pomeriggio, forse più vicino alla sera, e sentii un certo vociare nel corridoio e poi il rumore della porta della mia camera sbattere contro il muro con forza.

Scattai sul chi va là, e successe l'inimmaginabile.

«Grandissimo figlio di puttana!» Mi urlò Anna, mentre Daniela la tratteneva e la pregava di lasciar fare a lei e Sofia, dato il bambino che portava con sé.

«Io voglio spaccargli la faccia a questo bastardo.» ripeteva, con voce rotta, senza interruzioni, incapace di tenere il tono, passando dal rauco allo stridulo.

Forse fu anche più cruda di così, quello sinceramente non lo ricordo.

Le lacrime bagnavano gli occhi di tutte e tre, occhi punti di un rosso sangue, chissà da quanto stavano piangendo.

«Che cazzo ci fate in casa mia?»
Un sonoro schiaffo da parte di Sofia schioccò sulla mia guancia.

«Impara a chiudere la porta a chiave ebete. Sei abituato a chiudere fuori le persone!» mi urlò mentre la guardavo sconcertato. «Sei contento adesso? Eh? Dimmi Riccardo, sei contento? Ma guardati. Guarda quanto fai schifo, quanto non vali un cazzo! Guardati! Un verme schifoso che non vale un emerito cazzo! Lei non se lo meritava! Invece tu lo meriti, meriti di vivere con questo peso per il resto della tua vita di merda!»

Disarmata e senza fiato mi urlava contro, e ancora non ero conscio di quale fosse il motivo di quella reazione che in quel momento mi sembrava esagerata, da fuori di testa.

«Mi spiegate cosa cazzo vi passa per la testa a voi tre squinternate?» iniziai ad alzare la voce e di non poco.

Un piccolo diario di color indaco, con sopra disegnati petali di rosa neri mi arrivò dritto nel petto, tirato da Anna, mentre le altre non accennavano a smettere di piangere.

«L'hai uccisa. Tu, maledetto uomo di merda l'hai uccisa!»

Non era vero. Non poteva essere vero.

Raccolsi quel diario e lessi "Margot" sopra, con quella solita calligrafia precisa e ordinata che aveva lei.

Sentii persino il profumo suo abituale che mi coccolava, per quanto strano mi suonasse dirlo, ogni giorno con i suoi capelli che mi mancano ancora oggi da morire.

I miei occhi erano assenti e spaesati, non riuscivo a connettere.

Uccisa? Chi? Margot? Metaforicamente parlando, no?

Queste furono le cose che mi passarono per la testa.

«Ma che… che dici?»

«Che dico? Che dico Riccardo?! Ma guardami nella faccia, verme! Margot è morta! È morta porca puttana e tu, tu sei il responsabile. Tu fai schifo, tu, tu meritavi di morire. Tu, non lei!».

Non era possibile.

«Dai Daniela smettila con 'ste cazzate, ti diverti?»
Prese un vaso di ceramica accanto a lei e me lo scagliò contro, cercai di pararmi il viso ma mi prese in pieno, tagliandomi la fronte.

Un urlo di disperazione da parte di Anna, mentre posava la sua testa sulla spalla di Sofia e Daniela, che furibonda cercava di tirarmi altre cose addosso, mi fece capire che era vero.

Ma era impossibile. Margot, non c'era più.

Sentii un buco appena sopra lo stomaco, che mi mangiava l’aria. Per la prima volta una lacrima scese dal mio viso.

Mi sedetti sul letto col diario in mano e gli occhi che non riuscivano a trovare un’emozione.

Era morta. Era veramente morta.

«Non hai idea di niente, non hai idea di cosa ha passato questa ragazza. Sei stato la sua rovina, sei un coglione montato che crede di poter essere chissà quanto superiore ma in realtà è il nulla. Sei il nulla, un essere insignificante, sei immondizia, sei ripugnante. Mi fai schifo» continuò Sofia, infierendo su quel me privo di senso.

Ebbi la sensazione di stare rimpicciolendo, davanti alle loro parole così disperate.

«Sei entrato nella vita di Margot e l'hai resa un inferno, perché? Perché avevi da scopare a destra e a sinistra tu, e non avevi le palle di lasciarla perché ti faceva comodo. Ti faceva comodo avere qualcuno che ci fosse sempre, qualsiasi cosa tu facessi, la davi per scontata e guarda come l'hai ridotta. L'hai distrutta dentro! A tal punto da farle pensare tutti i giorni di togliersi la vita!» mi accusò ancora Anna, rigandomi dentro «Leggilo, leggi quel cazzo di diario e fatti schifo! Guarda quanto puoi fare schifo e vergognati di esistere, perché devi solo vergognarti.»

«Sai cosa fa ancora più schifo? Che non si è tolta la vita, perché è morta mentre stava venendo da te.»

Era stato veramente come lo avevano detto loro: il tardo pomeriggio, dopo che avevo detto a mia madre che non volevo parlare con Margot, lei aveva deciso di venire a trovarmi.

Era l’ennesima occasione in cui mi dimostrava il suo attaccamento anche di fronte al mio atteggiamento.

E, ciò che è più brutto, non più tardi di mezz’ora dopo che l’avevo chiamata per giurarle e spergiurarle che sarei cambiato, che avrei affrontato quello che avevo dentro.

L’avevo obbligata ad uscire di casa agitata, in apprensione, in una Cervia che giorno dopo giorno andava riempiendosi sempre di più di turisti e di vetture.

Era bastata una distrazione, una fatalità, una caduta che non doveva avvenire così.

E Margot era andata via per sempre.

Solo la sera le ragazze erano state informate, si erano precipitate all’ospedale, ma solo per constatare che fosse effittivamente vero quello che era stato loro detto.

Margot era morta.

Nel pomeriggio successivo, quando Daniela aveva fatto visita ai genitori a casa, la madre l’aveva portata nella sua stanza, ne aveva parlato come se fosse una bambina, e le aveva donato il diario, in uno strano, e forse irrazionale, desiderio di spargere il più possibile il ricordo della figlia tramite i suoi oggetti.

Daniela si era ritrovata con le altre due, in una sorta di veglia funebre, leggendo il diario di Margot: i suoi pensieri, ma soprattutto le sue sofferenze, causate da me.

Era stato per loro automatico piombare a casa mia, e tirarmelo addosso.

Un gesto di pura rabbia.

Una rabbia che aveva superato la disperazione per aver perso un’amica così cara, o forse proprio alimentata da quella disperazione.

«Sei l'unico, unico, unico responsabile di quello che è successo. Della sua sofferenza e della sua morte, capito?! Capito?! Unico! Hai ben capito?!» urlò ancora Anna prima di abbandonare la stanza, portata via a braccia dalle altre due.

Era paonazza mentre gridava nei miei confronti.

Non vidi mai nessuno più stravolta di lei nel gridare, e quelle grida erano rivolte a me e a quello che avevo fatto.

Quando tornò il silenzio, c’era mia madre sullo stipite.

«Cosa c’è di vero in quello che hanno detto?» mi chiese.

«Non lo so» risposi, ma scoppiai a piangere.

Mia madre venne ad abbracciarmi, ma non riuscivo a fermarmi.

Piansi come non ricordavo di aver mai fatto, e quando riuscii a fermarmi decisi di aprire il diario e leggerlo.

Forse non avevo mai letto fino alla fine un “libro” in vita mia, ma quello diventò la mia ragione di vita, e non feci altro che leggere, leggere, leggere, facendomi la forza di sopportare i mille pugnali che mi trafiggevano ad ogni riga che passavo e che trasudava il suo dolore, il suo smarrimento, la sua impotenza, la sua solitudine.

Il tutto per causa mia.

Fu terribile, tanto terribile che quella lettera, usata a mo’ di segnalibro, con su scritto "Per Ricky, casomai" non ho ancora avuto il coraggio di leggerla.

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