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Oggi è il gran giorno, quello in cui torno a casa, la mia vera casa, e rivedo papà, Cameron e Ashley. Non so se sono veramente pronta, in questi ultimi cinque giorni ho dormito si e no cinque ore totali e mangiato un panino. Ho preso di nuovo i sonniferi, ma ci vuole un po’ prima che facciano effetto. Tra qualche giorno potrò dormire un paio d’ore in più, con l’unica differenza che questa volta terrò la finestra chiusa.

“Sicura?” mamma indica la macchina. “Se vuoi avviso che non andiamo.” Mi stringe la spalla, sa che per me è difficile anche solo immaginare di dover stare diverse ore in una macchina, ormai.

“Sicura.” Le sorrido, in tasca mi sono messa i soliti tranquillanti, che spero di non dover usare.

Nonostante nella nostra famiglia le auto sportive siano le predilette, mia madre non si separa dalla sua utilitaria, dicendo che la velocità non serve e che l’importante è arrivare a destinazione.
Un tempo anch’io avevo un’auto sportiva, una Camaro SS, un gioiello ai miei occhi. Era la mia bambina, amavo la velocità, amavo guidare, amavo sentirmi libera. Amavo, parecchio tempo fa, mentre ora solo all’idea mi sento male.

“Dici che tua sorella avrà già dato la notizia?” domanda eccitata.

“Non saprei, papà e Cameron, non sono molto propensi a lasciarla andare.” Mimo delle virgolette.

“Lasciarli.” Mi corregge.

Sorrido. “Ha scelto i nomi?”

“Non lo so tesoro.”

Sto per diventare zia, solo l’idea mi fa scaldare il cuore. Per questo ora, sto tornando a casa. Voglio esserci per mia sorella, per i gemelli. Anche se ho paura di stare in macchina, glielo devo, anche lei mi ha aiutata parecchio. Lei aveva convinto papà a lasciarmi partire con mamma, solo io e lei, perché ne lui ne mio fratello potevano abbandonare l’impresa di famiglia. Ashley non era partita perché ormai aveva già una vita fatta e finita, a me però non restava nulla. Mamma ci aveva rimesso nello stare lontana da papà, anche se poco prima del mio risveglio in ospedale si erano lasciati, perché ognuno lanciava le colpe sull’altro.
<<È colpa tua se ha avuto quel maledetto incidente Mark, sei stato tu a regalare a nostra figlia quella maledetta macchina! La stessa macchina che stava per portarcela via!>> queste erano state le accuse di mia madre e le cose non sono migliorate col tempo, ma nonostante tutto, continuo a sperare che prima o poi possano far pace, in fondo non è colpa di nessuno, a parte me.

“Ti sei fatta bella per papà?” le chiedo mentre metto il borsone della roba nel bagagliaio.

“Per quel imprenditore bacato? Assolutamente no.” Sbuffa. “Se un giorno capirà che deve smetterla di mettere le macchine al primo posto ci farò un pensiero.”

Sospiro. “Lui ci lavora con le macchine, lo sai perfettamente, sono la sua passione.”

“Infatti, dovrebbe cambiare.” Controbatte. “Meglio senza tutti i suoi soldi, con la sicurezza di non mandare i figli a morire con regali pericolosi.”

“Mamma.” La richiamo. “non tocchiamo l’argomento per favore.”

“Hai ragione, scusami, non volevo ricordarti una cosa tanto brutta.” Mi abbraccia forte. “Ti voglio bene, bambina mia.”

Da quando ho avuto l’incidente, mamma non fa altro che ripetere quanto mi voglia bene, credo sia il suo modo per avere la certezza che qualsiasi cosa accada io possa tenerlo a mente. Il nostro rapporto è totalmente cambiato dopo l’incidente: prima litigavamo spesso, restavamo anche settimane senza parlarci, non ci abbracciavamo ne ci confidavamo; ora è l’opposto. Lei mi ha dovuta aiutare a farmi il bagno per mesi, prima che riuscissi a tornare autonoma: mi lavava, mi vestiva, alle volte mi faceva dei massaggi alle gambe quando i dolori erano troppo forti. Lo faceva senza mai farsi vedere piangere, col sorriso sulle labbra dalle quali lasciava intravedere i suoi denti bianchissimi. <<Hai la pellaccia dura, questo mi rende tranquilla, ma ti prego, non provare più a dimostrarmelo, okay?>> diceva questo quando le veniva da piangere ed io mi limitavo ad annuire lasciando che mi accarezzasse la testa come suo solito.

Apro lo sportello e le gambe iniziano a tremarmi.
Evelyn, andrà tutto bene. Andrà tutto bene... - mi ripeto mentalmente.

Ci impiego all’incirca dieci minuti solo per riuscire a sedermi, in quanto il mio corpo continuava a rifiutarsi. “Andiamo piano.” supplico, anche se so perfettamente che mia madre a malapena arriva a sfiorare gli ottanta chilometri orari.

“Pianissimo.” sorride. “in fondo, l’ultima multa che ho preso dovrebbe tranquillizzarti.” ridacchia.

Tutto sommato potrebbe essere l’unica persona automunita ad aver preso una multa per aver tenuto una velocità inferiore del limite minimo. “Hai ragione.” sorrido a stento. Nonostante la macchina sia spenta, sento la nausea e l’ansia montare.

“Prendi un bel respiro.” mi accarezza una gamba dolcemente. “Va tutto bene, faremo delle soste ogni mezz’ora. Ora accendo.” gira la chiave e il quadro si accende, lo stereo parte, nel mentre lei abbassa i finestrini.

Mi tappo le orecchie e porto le ginocchia al petto. “Spegni!” urlo e subito dopo sento il motore morire mugolando, come un cane bastonato.

“Evelyn, ora avviso che non andiamo, okay?” sussurra. “Magari ci raggiungono loro.”

Scuoto la testa. “Ashley non può affrontare quattro ore di viaggio con le nausee...” nella testa ho un ronzio continuo che mi manda in down.

Guarda, guarda quella foto. - mi ripeto. - Ecco, questo è ciò che sei per lui.
“Me ne vado.” avviso.
“Dove vai Nanni?”
“A fare un giro, non mi va più di stare in questa stupida festa.” poso il bicchiere di birra nel tavolino davanti a me. “Scusa Cameron, ma ho davvero bisogno di stare sola.”
Uscire da quella villetta è stata un’impresa, tutti quei corpi sudati e ammassati in continuo movimento mi danno la nausea, in più la musica assordante mi ha lasciato un terribile mal di testa. Fuori piove e mi tocca correre verso la mia auto per evitare inutilmente di causarmi un brutto raffreddore domani. “Sono una stupida.” lancio il telefono nei posti dietro, dopo averlo spento. Ho solo bisogno di guidare, staccare il cervello. Mi fa male il cuore, ma non un dolore prettamente fisico, no. Il dolore della delusione di non essere stata amata come io ho amato. “Ti odio...”

Prendo dei profondi respiri, mi fa male la testa. “accendila di nuovo.” tengo gli occhi chiusi, appena gira la chiave riparte anche lo stereo.
<< But is this real life?
Paper hearts turned ash begin to fly
Over our heads I begin
Screaming while the exit signs read
Heaven's waiting  >>
È Circles, dei Pierce The Veil, Cameron la suonava spesso con la chitarra. Cameron? No, forse non lui, forse mi sto sbagliando...

Spengo lo stereo, mi scoppia la testa, poi dopo l’ennesimo cenno, mia madre parte. “Ti spiace se lasciamo spento?” le chiedo, restando rannicchiata.

“Nessun problema.” risponde subito.

La macchina si muove placida, un poco come le onde del mare che fiancheggiamo. Siamo a malapena in viaggio da venti minuti e la nausea sta per avere la meglio. “Possiamo accostare?” tengo la testa attaccata al finestrino spalancato, per avere il viso fresco.

“Tra cinque minuti dovrebbe esserci il primo punto di pausa che ho segnato.” Indica lo schermo del piccolo navigatore. “puoi resistere?” mi dà una piccola carezza sulla guancia, prima di tornare a guidare concentrata.

“Credo… non sono sicura.” Sento un conato e mi tappo la bocca per trattenerlo. Ormai in bocca sento il solito gusto sgradevole che preannuncia quanto le cose stiano per andare male. Sudo freddo, ma cerco di reggere fino al punto stabilito. “manca molto?” sussurro.

“È quella stazioncina di servizio laggiù.” Mi avvisa. “ha l’insegna rossa.”

Ad occhio e croce, per i cinquanta chilometri orari fissi a cui va l’utilitaria, calcolo che altri cinque minuti li dovremo impiegare.
Chiudo gli occhi e mordo la lingua, tenendola ben stretta tra i denti, per trattenere i conati. Conto anche i secondi, indeterminabili minuti passano e la macchina si ferma, sento il motore spegnersi e mia madre tirare il freno a mano. Spalanco lo sportello e faccio appena in tempo a sporgermi, poi i conati hanno la meglio. Mia madre mi tiene i capelli indietro e accarezza la schiena, quel suo movimento lento, sembra placare un poco il malessere.

“Ferma, ora prendo le salviette umide dalla borsa.” sento il suo sportello aprirsi e richiudersi, subito dopo il cofano posteriore aprirsi e il rumore di mia madre che fruga con fretta. “Eccole qua.” mi viene subito vicina, stando attenta a dove mette i piedi, poi mi passa le salviette. “Appena te la senti andiamo in bagno e ti aiuto a sistemarti.” mi tiene i capelli indietro.

Annuisco debolmente, lo stomaco fa male. “Grazie, ma posso farcela anche da sola mamma.” le dico appena riesco a prendere un poco il controllo del mio corpo.

Lei mi sorride ma non dice altro, va a chiudere il cofano, risale in macchina e la sposta un poco più avanti, per ovvi motivi. “Ti reggi tesoro?”

“Si, grazie, mi servirebbe la borsa, cosi mi sistemo prima di ripartire.” scendo dalla macchina e mi accorgo di non aver mai amato così tanto le stazioni di servizio.

Si trattava pur sempre del mio primo checkpoint, il mio primo punto sicuro. Un po’ come quello dei videogiochi: la stanza sicura dove i mostri non ti possono nemmeno sfiorare. Prendo la borsa dal cofano e mi dirigo verso il fast-food, una piccola costruzione in legno visibilmente vecchio e pieno di umidità, dalla forma rettangolare. L'interno è molto più accogliente di quanto potessi aspettarmi: pavimento in parquet chiaro, tavolini in metallo grigio chiaro, sedie del medesimo colore e materiale. Le pareti sono di un giallino pallido, mentre il bancone è di ciliegio, per quanto riguarda all’odore, non sento quel nauseante sentore di fritto e bruciato, che solitamente si sente nelle stazioni di servizio della zona... almeno, l’ultima volta che ci siamo spostate in macchina, è stato quello lo spettacolo.

“Shelly express-food, posso esserle d’aiuto?” il cameriere sorride a trentadue denti.

“Si grazie, un tavolo per due.” indico mia madre poco distante dall’entrata che andava avanti e indietro al telefono. “Potrei usufruire del bagno nel mentre?” cerco di sorridere, ma credo che sia venuta fuori la peggiore delle smorfie, visto che il sorriso del cameriere si spegne poco dopo.

“In fondo a destra trovi i bagni, io vi preparo il tavolo e vi lascio i menù.” dice prendendo un panno dal bancone.

“Grazie.” mi dirigo velocemente al bagno senza aspettare mia madre ed una volta arrivata mi fiondo sul lavandino a rinfrescarmi. Per fortuna non mi ero sporcata, questa era l’unica cosa positiva. Per quanto riguarda i miei capelli, sono pressappoco identici ad una siepe, per quanto sono spettinati. “sono in condizioni pessime...” mormoro, mentre cerco di legarmi i capelli alla bell’e meglio. Sistemo quanto possibile anche il trucco colato sotto gli occhi, che ricorda lontanamente le macchie dei panda. Mi appoggio al muro, provando a respirare profondamente, prima di infilare la mano in tasca e incontrare l’inconfondibile boccetta di plastica rigida. Predo la boccetta e faccio scendere nella mia mano due pasticche di tranquillanti, mandandole giù subito dopo, velocemente.  “Va tutto bene.” provo a convincermi. “Queste dovrebbero bastare per un po’.” mi passo le mani sul viso, mi vedo più pallida del solito e il contrasto tra il mio incarnato e il colore delle mie lentiggini è molto più evidente. Mi dò uno schiaffetto ed esco dal bagno, molto più lucida di come ci sono entrata.

Mia madre è già seduta, sembra arrabbiata. “Tutto bene?” le chiedo appena la raggiungo.

“Chiedilo al tuo meraviglioso padre!” a stento trattiene il nervoso. “Ha comprato altre macchine e avviato un progetto di ampliazione dell’officina!” si lascia ricadere verso lo schienale della sedia, leggermente scomposta.

“Dopo tutto quello che ci hanno fatto le automobili... lui non vuole smetterla. Non vuole capire quanto mi faccia paura l’idea di saperlo in una di quelle auto, di sapere tuo fratello in una di quelle auto... i ragazzi dell’officina che ormai sono di famiglia...” i suoi occhi verdi diventano lucidi, so perfettamente che sta cercando di non piangere.

Solo ora mi accorgo di quanto sia invecchiata in questi anni, di quanto si curi molto meno. I suoi capelli castani, mostrano qualche striatura grigia, la sua fronte si è riempita di rughe d’espressione come anche gli angoli della sua bocca, sotto gli occhi le si sono formate profonde occhiaie che sembrano non volersene andare più. Anche la sua voce è cambiata in questi anni, è molto più rauca, a volte flebile. Il dolore aveva accelerato l’invecchiamento? Anche se fosse, per me restava bella, quella bellezza senza filtri che solo le persone trasparenti possono sprigionare. Non sa mentire, non sa mascherare le proprie impressioni, ragiona milioni di volte prima di fare qualsiasi cosa, ma per la famiglia... per la famiglia sarebbe pronta a fare qualsiasi pazzia, se dovesse servire. Ama totalmente e mai per metà, anche se spesso nega, la sua rabbia è la prova.

Le accarezzo la mano. “Sono qui.” non so come, ma quel giorno mi sono salvata. “Non credere che papà non abbia avuto paura.” aggiungo, anche perché io lo ricordo bene papà, al mio risveglio in ospedale.

Dormiva sulla sedia, accanto al letto, mi stringeva la mano e aveva le guance bagnate, come se si fosse addormentato piangendo.
<<Perdonami bambina mia... perdonami tanto.>> questo aveva detto quando si era accorto che mi ero svegliata, mi aveva stretta al suo petto e pareva non volermi più lasciare. Lui non si era fatto vedere da nessuno, ma la notte, ogni notte da quando fui dimessa, veniva in camera mia a parlare. Lui che faceva di tutto per farmi ridere, mentre mio fratello dormiva stretto a me e non sembrava accorgersi di nulla. Lui che ogni notte mi diceva che quella che aveva ricevuto era stata la chiamata peggiore che avesse mai ricevuto. <<Non ho mai avuto così tanta paura d’una macchina come quando mi hanno detto in che stato riversava la tua. Non ho mai avuto così tanta paura, fino a quando non ho saputo che potevo perdere te e non potevo intervenire in alcun modo.>> piangeva sempre quelle notti, poi finiva per trovare una scusa e andare via. Per cui, si, anche papà aveva provato la stessa paura di mamma. Un uomo così orgoglioso da non ammettere mai nulla, si era mostrato logorato dalla paura, dai dubbi e dal rimorso... Ed io, in fondo, ho sempre saputo e so tutt’ora che è colpa mia.

Le stringo la mano, aspetto qualche minuto, poi sembra capire e abbassa la testa. “Scusa.” Fa scivolare la sua mano via dalla mia stretta, e sospira rumorosamente. “Te la senti di riprendere il viaggio appena finiamo?” sfoglia il menù mentre parla.

Per quanto volessi dire di no, mi limitai ad annuire prendendo a mia volta il menù.

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