Capitolo 18
Havana Club
Arrivai all'Havana Club mezz'ora prima dell'apertura al pubblico, come concordato con Romeo il giorno precedente. Avevo legato i miei lunghi capelli castani in due trecce ordinate, che mi ricadevano fino sotto il petto. Indossavo una semplice canotta bianca e dei jeans scuri, tenuta da lavoro che mi era stata caldamente suggerita.
«Con questo, sei perfetta» aveva detto poi Romeo, posandomi un cappellino di paglia sulla testa, per completare il look.
Lo aiutai a spostare i tavoli per liberare l'intera superficie del locale, in modo da poter ospitare i ballerini. Romeo era il classico ragazzo per cui le donne di ogni genere ed età sarebbero impazzite. Lavorava sempre con il sorriso sulle labbra, canticchiava musica cubana e di tanto in tanto sorseggiava un Cuba Libre. Non aveva nessun tratto somatico che lo rendesse particolarmente bello, ma il suo modo di essere e di fare sprigionavano un certo fascino naturale.
Prese l'ultimo dei tavolini di legno e se lo portò sulla testa, rivelando i suoi forti bicipiti al limite con la manica corta della camicia hawaiana.
«Qui abbiamo finito» disse, nel momento esatto in cui la porta del locale si aprì.
Mi voltai e vidi un uomo sulla sessantina camminare a passo spedito verso di noi.
«Ohi, eccoti» lo salutò Romeo. «Ti presento Eveline, la nostra nuova barista».
L'uomo mi tese la mano, accennando un sorriso sotto i suoi lunghi baffi bianchi.
«Oscar White, sono il proprietario» disse, in tono autoritario. «Siamo pronti per aprire?» chiese poi a Romeo.
Lui annuì con la testa e l'uomo sparì dietro una porta di legno massello in fondo alla sala.
«Sei pronta?» mi chiese Romeo. «Diamo inizio alle danze» disse e spalancò la porta d'ingresso, facendo riversare nel locale la lunga fila di persone che attendevano di entrare.
Dopo la prima ora, ero decisamente più rilassata. Ero riuscita a non sbagliare nessuna ordinazione, a servire in rapida successione i clienti e mi ero abituata a quella musica assordante dai ritmi allucinogeni di maracas e clave.
Mentre finivo di versare un vodka lemon, allungai la mano in avanti per recuperare lo scontrino del cliente successivo.
«Cosa prende?» chiesi senza spostare gli occhi dal bicchiere che stavo riempiendo.
«Un Americano e un Daiquiri.»
Quella risposta mi fece alzare lo sguardo in una frazione di secondo.
«Professor Ruiz...» le parole mi uscirono di bocca.
Accanto a lui, avvinghiata al suo braccio, come un cucciolo di koala, c'era l'immancabile Elisabeth.
Ci scambiammo solo un sorriso tirato, io e lei, come facevamo ogni volta che ci ritrovavamo faccia a faccia. Lei non aveva mai digerito la mia sostituzione in Moulin Rouge ed io, chiaramente, non sopportavo che fosse la donna dell'uomo che desideravo.
Versai i due cocktail alla velocità della luce e lottai strenuamente contro la voglia di girarmi di spalle e sputare in quello di Elisabeth.
«Ecco a voi» dissi, con un sorriso falso e allungai loro i cocktail.
Li vidi allontanarsi tra la gente immersa nelle danze, poi li persi di vista e tornai al mio lavoro.
Ad un tratto delle note familiari di violino rapirono totalmente la mia attenzione e alzai lo sguardo verso la pista.
Rimasi immobile, con una bottiglia di vodka a mezz'aria in una mano.
Lo vidi di fronte a me, le fece una carezza e la abbracciò, iniziando a muoversi con lei a tempo di musica su quelle note che, una notte ormai lontana, erano state nostre.
Guardarlo dal di fuori mi fece ghiacciare il sangue nelle vene: il modo di guardarla, il modo di toccarla, di ballare con lei... era tutto esattamente identico a ciò che aveva fatto con me.
Avrei dovuto distogliere lo sguardo e tornare al mio lavoro per evitare di ferirmi, ma l'unica cosa che riuscii a fare fu continuare ad osservarli in ogni minimo dettaglio, come ipnotizzata. Fu in quel piccolissimo istante che, per la prima volta, pensai che forse non avevo capito niente di Francisco Ruiz.
L'avevo sempre visto nei panni dell'insegnate in gamba e comprensivo, dell'uomo combattuto ma onesto e, forse, mi ero sbagliata di grosso.
Il suo essere il mio insegnante non lo rendeva migliore di un qualsiasi altro uomo che fosse interessato solo a portarsi a letto una ragazza giovane, anzi, probabilmente, aggravava solo il problema.
All'improvviso si materializzarono due dita, schioccarmi davanti agli occhi.
«I balli dopo, ora si lavora, forza!» urlò Romeo, cercando di sovrastare la musica.
Mi rimisi subito al lavoro, cercando con tutta me stessa di tenere gli occhi bassi e la pista fuori dalla mia visuale.
Era l'unico modo per sopravvivere a quell'inferno cubano.
«Eveline... un Americano, per favore».
Ruiz era di nuovo al mio cospetto. Almeno era solo, però.
Preparai in silenzio e con gli occhi bassi il suo cocktail, poi glielo porsi.
Nel consegnarmi lo scontrino, prese la mia mano, tirandomi a sé, come se volesse dirmi qualcosa. Poi la lasciò e indicò il pezzetto bianco che mi ritrovai nella mano.
Lo aprii, lo girai e lessi: «Esci».
Avrei tanto voluto ingurgitare tutto in un colpo uno dei cocktail che avevo davanti e dimenticare quella assurda serata che imperversava, ma chiaramente non mi era possibile.
«Posso andare a fumare una sigaretta?» chiesi a Romeo.
«Cinque minuti» rispose, facendomi segno di andare.
Presi il giaccone e uscii in tutta fretta.
Tirai fuori una sigaretta dalla tasca e la accesi. Il fumo si perse nell'aria e sentii di avere le orecchie ovattate per il frastuono della musica.
Mi guardai intorno, ma di Ruiz neanche l'ombra. Provai a camminare lungo il marciapiede, quando ad un tratto mi raggiunse un fischio.
Mi voltai di scatto e vidi lui, dietro l'angolo, in una zona cieca, appoggiato al muro, stretto nel suo cappotto nero.
Quando gli fui abbastanza vicina: «Eveline, devi lasciare questo lavoro» disse secco.
Aggrottai la fronte: «Come scusa?»
«Chi ti ha detto di Oscar?» incalzò.
«Oscar? Il proprietario? Cosa devo sapere?» continuai.
Non avevo idea di che cosa pensava che sapessi, ma io di fatto non sapevo niente.
«Lascia perdere. Devi lasciare questo lavoro Eve, per favore» ripeté.
Poi girò l'angolo lasciandomi lì, sola e piena di domande.
La serata volse al termine e anche gli ultimi ospiti lasciarono il locale. Mi sentivo come se un camion mi fosse passato sopra: frastornata, stanca e dolorante.
E, dopo aver servito tutti quei drinks, le mie papille gustative ne desideravano ardentemente uno.
Mi appoggiai con i gomiti sul bancone e piegai la testa in avanti, massaggiandomi il collo.
«Faccio io» disse Romeo, spostando le mie mani. «Sono bravo con i massaggi».
Lo lasciai fare più per necessità che per piacere.
«Hai presente quel cocktail che volevi offrirmi ieri? Potrei averlo oggi?» azzardai.
Lui sorrise e lasciò il mio collo.
«Cosa bevi?»
«Margarita».
Soddisfò la mia richiesta, mentre uscii da dietro al bancone e presi posto ad uno sgabello. Lui mi raggiunse e mi fece compagnia con il suo ennesimo Cuba Libre.
«Come mai tu puoi bere sul lavoro?» gli chiesi, per provocarlo un po'.
«I vantaggi di essere il proprietario...» rispose con un ghigno irritante.
Scoppiai a ridere: «Certo, peccato che io abbia conosciuto il vero proprietario.»
«Oscar è mio padre, Eve! Quindi, posso bere e... anche ballare...» disse.
Mi tolse il bicchiere dalla mano, lo posò sul bancone, poi mi prese la mano e mi condusse al centro della pista.
In sottofondo c'erano delle timide note di bachata, quel brano l'avevo già sentito prima, era Burbujas de Amor di Juan Luis Guerra.
Strinse con una mano la mia e poi mi posò delicatamente l'altra dietro la schiena. Iniziò a dondolare lentamente sul dolce ritmo di quel pezzo.
In quel momento, fu la prima volta in cui guardai davvero Romeo. Era illuminato dai fari colorati che si rincorrevano per la pista e mi fissava con quel suo sguardo dolce e penetrante.
Standogli così vicina percepii un odore di sandalo, tabacco e dopobarba. E quell'odore mi piaceva, diamine se mi piaceva. Più il mio corpo restava vicino al suo, più iniziavo a sentire un'attrazione magnetica, inspiegabile.
Chiusi gli occhi e mi lasciai guidare dalle sue mani e dal suo comando esperto. Doveva essere un ballerino piuttosto allenato.
Quando la musica si fermò, restammo ancora per un attimo stretti l'uno all'altra, poi mi posò un bacio sulla guancia e si staccò da me.
«Ma sei bravissimo! Balli in modo eccezionale...»
«Quando non sono qui al bar, insegno» disse. «Romeo White, el re de la bachata!».
Solo in quel momento, capii... barba rossa, ballo nel sangue, White.
No, non poteva essere vero...
E, invece, sì. Sì, che lo era.
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