Capitolo 17
Anno nuovo, vecchi guai
L'inizio delle lezioni portò con sé un'interminabile serie di sfortunati eventi, l'uno avvinghiato all'altro come anelli di una catena di un metallo inossidabile.
Nathan lasciò Kate, confessandole di provare ancora sentimenti per un'altra persona, Kate diede la colpa della rottura a me, perché sosteneva che quella persona per cui era stata lasciata fossi io e il professor Ruiz fece un retrofront inspiegabile.
Durante la prima lezione di scrittura creativa, dopo il rientro al college, mi sentii come catapultata in una realtà parallela in cui tra me e il professor Ruiz non c'era mai stato assolutamente nulla.
Non mi degnò di uno sguardo, neanche di sfuggita. Tenne la sua lezione senza muoversi dalla cattedra e con gli occhi persi nel vuoto, come se fosse il professore più svogliato dell'universo. C'era qualcosa che non andava, questo mi era chiaro, ma non sapevo cosa. E volevo scoprirlo ad ogni costo.
Ero convinta che quella notte insieme nella sua auto, a Bateson, non sarebbe stata l'ultima. Non ricordavo neanche l'ultimo bacio che ci eravamo dati, come quando non ci fai caso perché sai che ce ne saranno altri. E, invece, sembrava che i miei pensieri avessero deragliato del tutto.
Mi chiesi mille volte come avessi potuto sbagliare così, ma le risposte sarebbero arrivate solo molto, molto più tardi.
In quel momento, i guai all'orizzonte erano ben altri.
Temporeggiai pazientemente per una settimana, nell'attesa di un minimo segnale da parte di Ruiz. Del resto, aspettarmi un suo messaggio era una cosa più che lecita, considerando che mi aveva già scritto altre volte, ma il tempo passava senza che il mio telefono si illuminasse con il suo nome sul display.
Così, decisi di chiedergli un incontro subito dopo la sua lezione.
Mentre gli altri raccoglievano i loro libri ed appunti, io mi avvicinai alla cattedra, in attesa che tutti andassero via dall'aula e che finalmente potessi avere il mio piccolo colloquio con Ruiz, in cui chiedergli di vederci al di fuori delle mura del college.
Notai Soleil alzare più volte gli occhi nella mia direzione ed ebbi la sensazione che mi stesse osservando e che stesse temporeggiando anche lei. Davanti ai miei ripetuti sguardi nella sua direzione, lei tirò leggermente le labbra in un sorriso - che sembrava più una smorfia - e andò via.
«Buongiorno...» dissi, mentre il professor Ruiz era intento a leggere un compito che aveva appena ricevuto da un ragazzo.
Alzò gli occhi solo per un attimo.
«Ciao, tutto bene?» mi chiese accennando un sorriso tirato ma con un tono glaciale.
«Sì... e t...tu?».
Tentennai nel pronunciare quei monosillabi, mi sembrava così strano dargli del tu nella sua aula, mentre era seduto alla cattedra, ma lui non sembrò badarci affatto.
«Periodo un po' pesante, pieno di lavoro. Anzi, devo andare, ho un appuntamento a breve» rispose frettolosamente, guardando l'orologio.
Rimasi per un attimo in silenzio, come colpita da uno tsunami di confusione.
«Buona giornata, Eveline» aggiunse poi, agguantando la sua borsa da lavoro e lasciando l'aula.
La mia proposta mi si bloccò in gola, come quando cerchi di urlare nei sogni e non esce neanche un filo di voce.
Mi appoggiai alla cattedra, con le braccia penzoloni e la testa bassa in direzione del pavimento. Non riuscivo a spiegarmi che cosa lo avesse portato così lontano da me. Erano passati appena dieci giorni da quei baci, eppure, mi sembrò che fosse passata un'eternità.
Mi tornò in mente quella famosa frase di Calvino: "Se infelice è l'innamorato che invoca baci di cui non sa il sapore, mille volte più infelice è chi questo sapore gustò appena e poi gli fu negato".
Lasciai l'aula di Ruiz con l'amaro in bocca ma consapevole di avere un margine d'azione molto limitato: avevo provato a parlargli e non era andata come speravo, sarebbe stato il mio professore fino alla fine del corso e, in fondo, era anche già impegnato.
Razionalmente, l'unica opzione possibile era togliermelo dalla testa. Ma come?
Negli anni, avevo capito che una delle strategie che usavo spesso per distrarmi da drammi emotivi di vario genere era dedicarmi a qualcosa di pratico. Avevo bisogno di trovare un passatempo, un hobby, qualcosa da inserire nel tempo libero che non dedicavo allo studio.
Mi diressi alla grande bacheca degli annunci del college. Uno tra tutti colse all'istante la mia attenzione.
Un volantino con una bandiera cubana, affisso al legno con una punes colorata che recitava: "Havana Club cerca barista per turni serali nel weekend, anche senza esperienza. Se interessati, chiamare al numero 555-793".
Presi il telefono dalla tasca e: «Pronto? Salve, chiamo per il lavoro da barista, è ancora disponibile?».
Grazie a Google Maps scoprii ben presto che il locale si trovava a dieci minuti dal college. Aveva aperto da poco più di un mesetto e per questo non ne avevo mai sentito parlare. Il ragazzo al telefono mi disse in tono cordiale di passare dall'Havana Club quella sera stessa, in modo da conoscerci e darmi tutte le informazioni utili per l'inizio del lavoro.
Entrai nell'aula di Economia politica con il cuore più leggero: una nuova avventura avrebbe catturato la mia attenzione, aiutandomi a superare quel momento e quello sarebbe stato già abbastanza.
L'insegna intermittente mi guardava come se volesse chiedermi: "Allora che fai? Non entri?". Una musica caraibica raggiunse i miei timpani, riportandomi per un attimo ai caldi balli con Ruiz. Dalla porta a vetri, riuscii a scorgere lateralmente un ragazzo dietro al grande bancone, intento ad oscillare la testa a ritmo di musica, mentre asciugava dei bicchieri.
Il suo sguardo si alzò e si fermò su di me. Così, decisi di farmi coraggio ed entrai.
«Ciao!» mi salutò con un sorriso. «Stiamo chiudendo, ragazza.»
«In realtà, io sono qui per il posto da barista...»
«Ah, tu devi essere Eveline! Io sono Romeo, piacere di conoscerti! Accomodati, ti offro qualcosa» disse, indicandomi lo sgabello dinanzi a lui.
Presi posto, ma allungai la mano in avanti e rifiutai gentilmente: «Grazie, sono a posto».
«Una barista che rifiuta un cocktail, mi piaci. Assunta».
Spalancai gli occhi. Rimasi per qualche secondo in silenzio ad osservarlo. Indossava un cappellino scuro con la visiera rivolta verso la nuca, aveva un viso simpatico e allegro, forse per via della sua corta barba rossa. Sorrise, rivelando una dentatura piccola e ordinata.
«Cosa ti prende? Sei di poche parole?»
«N...no. È che... senti, come sarebbe che sono assunta?»
«Inizi domani. Cosa sai fare?»
«Versare le bibite?».
Lui scoppiò in una risata rumorosa e si avvicinò a me, incastrando i suoi occhi nei miei. Le sottili ciglia folte gli contornavano gli occhi di un colore che, a primo impatto, mi sembrò essere nocciola.
«Devo insegnarti tutto, eh, ragazzina?» disse, posando davanti a me tre bicchieri e delle bottiglie di alcolici.
Quella sera, Romeo mi insegnò a preparare il Negroni, il Daiquiri, l'Americano e la Caipirinha in meno di quaranta minuti.
«Direi che almeno adesso hai una buona base di nozioni, può andar bene per domani sera.»
«Cosa c'è domani sera?» chiesi.
«Nei weekend, togliamo i tavoli e ci lasciamo trascinare dai caldi ritmi delle danze caraibiche. Tu sai ballare, Eveline?».
Mi misi le mani sul viso.
Ed io che avevo fatto tutto per dimenticare Ruiz...
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