Capitolo 14

Tutta la verità




Erano le otto, quando trovai le forze per alzarmi dal letto e trascinarmi in bagno. Mi guardai allo specchio e ripensai alla serata passata. Mi bastò chiudere gli occhi per tornare su quella silenziosa pista da ballo, tra le sue braccia e ricordare quell'odore... il suo odore era una droga. Forte, intenso ed avvolgente. Il desiderio che provavo standogli accanto, la voglia di toccarlo, di baciarlo, e quel vuoto dovuto al non poter soddisfare la mia brama del suo corpo.

E mi sorpresi in un pensiero tutt'altro che lecito: “quante volte mi toccherà ancora immaginare di fare l'amore con lui, piuttosto che farlo davvero?”.
Così, cullata da quel segreto desiderio, lasciai cadere l'abito sul pavimento, entrai in doccia e mi abbandonai a quel getto di acqua bollente, sperando che potesse lavare via quella voglia insoddisfatta che avevo di lui prima di vederlo ancora.
Di lì a poco, sarei andata a consegnargli il mio elaborato per l'esame.

Un'ora dopo, entrai nella sua aula. Lui era seduto alla cattedra, intento già nella correzione di qualche compito giunto lì prima del mio.
«Buongiorno...» lo salutai timidamente.
Lui alzò gli occhi da quel foglio e li posò su di me.
«Buongiorno, Miss Valentine... sembra che lei non abbia chiuso occhio stanotte...».

Sorrisi: «Quando l'ispirazione chiama...» risposi, porgendogli il mio esame.
«Bene, ora però deve promettermi che andrà a dormire» disse, con tono quasi autoritario.
«Va bene» risposi, con un sorriso.

In quel momento, entrò in aula Soleil, anche lei pronta per la consegna.
Per evitare l'imbarazzo, salutai entrambi e lasciai l'aula, diretta in camera mia e pronta a fare un buco nel letto.

Nel giorno della restituzione dei nostri elaborati corretti, non appena arrivai in aula, ricevetti una telefonata di Kate. Mi comunicò, tra lacrime e singhiozzi, che Nathan quella notte aveva fatto un incidente con la sua macchina e l'avevano portato al Memory W. J. Hospital. Per fortuna, non era niente di grave, ma era stato trattenuto in osservazione.

Non appena arrivato, comunicai al professor Ruiz che dovevo andare via per un'emergenza e lasciai la lezione.
Nel tragitto fino all'ospedale pensai che, in fondo, ero contenta di aver avuto una scusa per fuggire. Forse avevo scritto e consegnato quell'elaborato in un momento di poca lucidità, dovuta all'appuntamento casuale migliore della mia vita e al fatto che fossi sveglia da più di ventiquattro ore di fila.

Quel racconto parlava di una studentessa, Josephine, che si innamorava del suo professore di scienze, Mr. Puddles e di lui che, nonostante i ruoli e la differenza di età, ricambiava il suo amore.
Praticamente, descriveva il mio profondo desiderio. Sapevo che, quasi sicuramente, Ruiz, con la sua brillante perspicacia, avrebbe capito i miei timidi sentimenti nei suoi confronti, ma c'era una parte profonda di me che, nonostante la paura della sua reazione e l'imbarazzo, bramava che lui sapesse la verità.

Mentre me ne stavo chiusa in quella metropolitana in attesa di raggiungere la mia fermata, pensai che non avrei vissuto più un giorno speciale come quel quindici dicembre, non sapendo che, di lì a poche ore, mi sarei dovuta ricredere.

Quando fui di rientro al college, incontrai Soleil. Mi disse che Ruiz mi stava cercando per darmi il mio compito.
«È in biblioteca, l'ho visto lì dieci minuti fa» aveva aggiunto.

Così, mi diressi in biblioteca, pronta alla mia dipartita. Aveva detto a Soleil di avvisarmi, quando avrebbe potuto mandarmi un messaggio. Questo significava solo una cosa: voleva mettere distanza tra noi, dopo aver letto il mio racconto. Ero rovinata.

«Mi cercava, professor Ruiz?» chiesi, percorrendo il corridoio della biblioteca.
«Sì... stamattina sei andata via e non hai visto il voto del tuo compito...» disse, porgendomi il mio scritto.
«A+? Mi ha dato una A+?» commentai incredula prendendo il mio compito tra le mani. «Perché?» gli domandai.
«È un compito eccellente Eveline, non so perché tu faccia così tanta fatica a crederci...» disse guardandomi dritta negli occhi.

«È che io mi sono iscritta a questo corso solo per curiosità, voglio dire... non avrei mai immaginato di ottenere questi risultati. Penso sia tutto merito suo, professor Ruiz...»
«Il compito è tuo, Miss Valentine» rispose strizzandomi l'occhio.
Riuscivo a sentire la mia tensione nello stargli così vicina... dovevo andare via dalla biblioteca all'istante.
«Bene, allora io vado...» dissi, restituendogli il foglio.

«Eveline...» mi fermò ed io tornai indietro verso di lui, come ipnotizzata.
Si appoggiò alla cattedra e iniziò a leggere: «“Josephine” il professor Puddles mi fermò all'improvviso. Si avvicinò a me, mi fece una carezza con il dorso della mano e disse: “Non credere che io non senta ciò che senti, che io non sia attratto da te quanto tu lo sei da me...” mi guardò fissa negli occhi e mi baciò nel buio della sala illuminata solo da una flebile candela».
Era quel passo del mio racconto...

Eravamo soli nella biblioteca, in sottofondo si avvertiva soltanto il rumore della pioggia che si infrangeva sui vetri. Restai in silenzio.

Si avvicinò lentamente a me, passo dopo passo, con quel modo di camminare, accarezzando il pavimento con le suole sottili delle scarpe, che aveva solo lui.
Mi guardò negli occhi, mi sfiorò la guancia con il dorso della mano e poi sussurrò: «Sai, è davvero bello che, almeno nel tuo racconto, il professor Puddles possa baciare Josephine...».
Pensavo che non avrebbe mai detto una cosa simile...

Alzai lo sguardo: «Lei non lo farebbe al posto di Puddles?» gli chiesi in un impeto di coraggio.
Poi abbassai gli occhi, imbarazzata... lui era seducente da togliere il fiato.
Li alzai nuovamente su di lui, il mio cuore andava a mille. Mi prese il viso tra le mani e le nostre labbra, destinate dal primo momento ad incontrarsi, finalmente si toccarono.
«Sì, Eve... e lo rifarei ancora» disse, dandomi un altro travolgente bacio.

Quando riaprii gli occhi, non potei fare altro che sorridere. Aveva ancora una mano persa nei miei capelli e l'altra sul mio fianco.
Prese un respiro e disse: «Ci ho pensato per tutta la notte...»
«A che cosa?»
«A che sapore avessero le tue labbra...»
«E che sapore hanno?».
Lui ci pensò su per un attimo: «Sanno di caramello».
Scoppiai a ridere. Doveva essere per via delle Toffee-twix, le caramelle che non facevo altro che masticare quando ero nervosa.

«Devo andare, adesso...» aggiunse poi.
Avrei voluto fermarlo, ma non ci riuscii e così lo lasciai andare via.
Prese la sua borsa e lo vidi percorrere il corridoio fino alla porta. Scivolai sulla sedia e mi toccai le labbra con la punta delle dita, chiedendomi che cosa avessi fatto in una vita precedente per meritarmi una cosa meravigliosa del genere.

E pensai che, finalmente, aveva iniziato a darmi del tu. “Eveline...”, il mio nome non era mai stato bello come lo sentii pronunciare quel giorno.

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