4.

Era passata quasi una settimana, l'ultima ramanzina da parte di Charles aveva funzionato, in parte. Difatti Erik riusciva, faticosamente, a contenere i propri commenti inappropriati e a moderare il linguaggio. Era come se la minaccia di Xavier avesse avuto il potere di trasformare il cattivo ragazzo dei quartieri malfamati in un pacato ed educato cittadino.
Ogni tanto anche il carattere forte di Erik cedeva, e quando ne aveva fin sopra i capelli si lasciava scappare qualche frase direttamente uscita dalle prigioni messicane, che scioccava Charles a tal punto da farlo rimanere in silenzio e cercare di ignorarlo.
Erik faceva un sorriso soddisfatto e divertito, gli ammiccava e poi gli domandava scusa.
L'accordo di Charles che riguardava la loro moderata amicizia, però, non stava andando bene come quello dell'educazione; più i piccoli gesti quotidiani venivano ripetuti e più quelle battute stupide e quei sorrisi divertiti diventavano più sinceri e dolci, come se qualcosa di inconscio facesse evolvere il loro rapporto.
Erano passati dal cenare a mal appena insieme, al passare la serata in salotto a chiacchierare; certo, Charles evitava i discorsi che riguardavano la letteratura o qualsiasi altra materia noiosa a parer di Erik, ma quest'ultimo faceva di tutto per trovare un discorso che mettesse a proprio agio entrambi.
Da poco tutti e due avevano scoperto qualcosa di nuovo l'uno dell'altro, ad esempio, Erik aveva confessato a Charles -dopo diversi tentativi- che una cosa che apprezzava fare era suonare, in particolare la chitarra elettrica. Ne aveva una, da ragazzo, l'aveva presa in prestito da un suo amico, che aveva dimenticato del pegno ceduto, probabilmente troppo dipendente e confuso dalle droghe per ricordare di riprendersi lo strumento, così Erik aveva imparato a suonare imitando i tutorial che vedeva di rado su internet.
Charles avrebbe voluto confessare a sua volta qualcosa di nuovo, ma purtroppo non aveva nulla di interessante da raccontare, la sua vita dopotutto non era stata movimentava o cose del genere.
Poi Erik fece la fatidica domanda che mise Xavier con le spalle al muro: «A cosa ti servono quei farmaci che prendi tutti i giorni?»
Fuori era sera, la moquette era morbida e calda, e le lampade in stile molto classico illuminavano il salotto accogliente. Charles si bagnò le labbra ed abbassò gli occhi; per lui non era mai stato semplice raccontare il proprio stato di salute agli altri, era qualcosa che non aveva mai superato fino in fondo. Nessuno psicologo avrebbe davvero capito cosa scattava dentro di lui quando si vedeva costretto a spiegare la sua malattia, quella stessa che lo aveva reso schiavo di quelle medicine che uccidevano le voci nella sua testa, quella stessa malattia che lo aveva fatto recludere in un manicomio per anni.
Ma notando l'ostilità di Erik nell'attendere la sua risposta, Charles si riempì i polmoni d'aria e si raccomandò di parlare. In fondo, per quanto potesse essere scorbutico Erik, si vedeva dai suoi occhi che non sarebbe mai stato capace di ferire qualcuno.
Era egocentrico, fuorilegge, irritabile e distaccato, ma non era di certo una di quelle persone capaci di giudicare.
«Soffro di schizofrenia da quando ero bambino. Quelle pillole mi aiutano a stare bene, tutto qui, nulla di grave.»
«Sul serio? È quella malattia dove si sentono le voci in testa?!» domandò il maggiore sbalordito.
Charles sorrise timidamente ed annuì, con gli occhi bassi. Non si era divulgato con una spiegazione medica e dettagliata, cosa che non sarebbe mai accaduta con Erik, ma aveva avuto il minimo coraggio di pronunciare il nome della sua malattia, e per lui quello era un passo molto importante.
Quella sera, invece, Erik era molto giù di morale. Per tutto il giorno non aveva fatto altro che stare in silenzio, con lo sguardo perso e le occhiaie scure che si facevano molto più pronunciate. Non aveva mangiato quasi nulla della cena, e si era subito diretto nella sua camera.
Era strano, tutto quel silenzio dopo parecchi giorni di totale vocio e risate. Quel silenzio, solitamente, avrebbe fatto piacere a Charles, che si sarebbe benissimo potuto immergere nella lettura con la più totale concentrazione. Ma era diverso, perché se prima aveva fatto di tutto per mettere a tacere le voci nella sua testa, adesso che era in silenzio percepiva e il vuoto, l'unica voce che voleva sentire era quella di Erik.
Passò circa un quarto d'ora prima che Charles prendesse coraggio e andasse a dare un'occhiata al coinquilino, fuggito via come se avesse avuto qualcosa da nascondere.
Si fermò difronte la sua porta pochi istanti prima di bussare timidamente con le nocche, emettendo un debole rumore contro il legno.
«Erik, stai bene?»
«Lasciami in pace!» dalla stanza la sua voce era alta, persuasa dall'ira.
Xavier poggiò una mano sulla maniglia, istintivamente. Fece un pacato gesto di abbassarla, domandano prima, preoccupato e con voce timida:
«Fammi entrare, posso aiutarti.»
«No! Nessuno può aiutarmi!»
Era la prima volta in tutta la sua vita che Charles andava contro qualcosa. Da sempre aveva imparato a seguire alla lettera ogni richiesta ed ordine della gente che gli stava intorno e del mondo, sopportando qualsiasi tipo di situazine, che gli piacesse o meno. Ma la voce di Erik era qualcosa che la sua mente non poteva controllare, o meglio, non voleva. Urlava di rimanere da solo, ma quella voce era impregnata di disperazione, del bisogno insaziabile di avere qualcuno accanto.
Charles aprì la porta, in silenzio e con la schiena dritta; la stanza era illuminata dalla lampada accanto al letto, ma Erik si nascondeva nella penombra come se volesse fuggire dalla visuale del mondo. Si mise in piedi in maniera agitata, lasciando l'angolo del muro in cui si era rannicchiato, e dirigendosi verso Xavier.
«Porca puttana ti ho detto di lasciami da solo!» agitò le mani mugugnando con la voce alta. Le vene del suo collo erano visibili grazie al rossore della sua pelle ed il suo viso era lucido di lacrime.
«Erik ti prego dimmi cos'hai.» Charles aggrottò le sopracciglia con dolcezza e amarezza, porgendogli una mano.
«Cosa cazzo vuoi sapere?! Che sto piangendo come una checca isterica perchè non mi faccio da quasi un mese?! Andare in crisi difronte ad uno sconosciuto perché mi sono reso conto ancora una volta di quanto ogni cosa che io faccia sia fottutamente sbagliata?!»
«Io non sono uno sconosciuto.» Charles fece scomparire la sua amarezza, mostrandosi più autoritario e sincero.
Erik regolò il suo respiro irregolare dal pianto, fece scendere le ultime lacrime che gli appannavano la vista, e rimase in silenzio, a guardare il minore poco distante da lui. Scosse la testa, stanco e disperato, con la voce coatta e gli occhi bassi;
«Sono un coglione, tutto quello che faccio é sbagliato.»
Charles gli si avvicinò, un po' intimorito dalla situazione, trovò però il coraggio di prendergli il polso con dolcezza.
«No, non è vero. Erik non sei solo.» lo condusse con calma verso il letto, sedendosi fra le coperte ben ordinate seguito a ruota dal maggiore, che continuava a tenere la testa bassa, come se fosse mortificato.
«In te c'è molto di più di quanto immagini, l'ho visto.» Xavier si avvicinò di più alla sua traiettoria, gli strinse la mano e mostrò un sorriso straziato, come se riuscisse a percepire le emozioni di Erik in prima persona. Il maggiore aveva ormai smesso di piangere, ma i suoi occhi chiari erano terribilmente arrossati e stanchi. Le parole di Charles erano belle, erano uniche, perché in tutta la sua vita nessuno gli aveva mai detto una cosa del genere. Lentamente, si lasciò scivolare sul materasso, puntando lo sguardo verso il soffitto. La mano di Erik spinse Charles a fare lo stesso, senza parole o gesti, con una semplice carezza fra le dita.
I due si ritrovarono distesi uno accanto all'altro, con le mani giunte in una preghiera muta di speranza.
«Charles, raccontami della tua malattia.» era una richiesta insolita, una richiesta che non rispettava molto il contesto che stavano vivendo in quel momento.
«Tu hai letto quel mucchio di stronzate sul mio fascicolo, sai la mia patetica storia, adesso dimmi qualcosa di te.»
Charles rimase sorpreso da quelle parole, molto più sorpreso di vedere Erik piangere in quel modo. Serrò le labbra e poi, trovò difficile anche riuscire a respirare.
«Sentivo delle voci, sempre. Essere classificato come malato mentale non è bello, affatto. I miei genitori mi hanno rinchiuso in una clinica privata per gente come me, e per quanto fingessi che la cosa mi andasse bene, in verità lo odiavo, ogni cosa. Odiavo la mia vita, odiavo tutto, e spesso mi sono domandato perché ostinarmi a sopravvivere, perché non morire e basta?»
La stretta di Erik si fece più forte, e Charles rivolse il capo direttamente sul suo viso, visto di profilo, un profilo unico e perfetto.
Erik iniziò ad urlare, a squarcia gola, come se avesse appena visto qualcosa di terribilmente spaventoso.
Charles lo fissò stranito, sul punto di chiederli la motivazione di tale sfogo. Poi lo capì, come se potesse leggere nella sua mente. Ricambiò la tenacia della stretta di mano, e iniziò ad urlare assieme al maggiore.
Quando non ebbero più fiato nei polmoni, si fermarono, rossi in viso e con un sorriso amaro sulle labbra.
Erik poggiò la guancia sul materasso per guardare meglio Charles negli occhi. I due si fissarono per una frazione di secondo, ubriachi di se stessi e con l'anima più leggera.
«Finalmente abbiamo qualcosa in comune. Entrambi siamo attratti dall'autodistruzione.» Erik mostrò il suo solito sorriso sarcastico, facendo notare a Charles che insieme sarebbero stati capaci di far saltare in aria il mondo.

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