Capitolo 6

Carol

Sono passati quattro giorni.

Quattro giorni da quando mi trovo in questo ospedale.

Quattro giorni in cui mi sento come un uccello in gabbia incapace di muoversi, imprigionata nel mio stesso corpo, nella mia stessa anima.

Quattro giorni da quando ho scoperto di quel fatidico incidente, dove una macchina mi ha travolto mentre tornavo a casa da una passeggiata.

Sì, finalmente ho saputo cosa mi è successo, me l'ha raccontato il dottore che è venuto a visitarmi dopo che i miei se ne sono andati.

Ho dovuto minacciarlo dicendogli che se non me l'avesse detto io avrei potuto rompere, con tutta la forza che avevo, i macchinari, che mi monitorano ventiquattro ore su ventiquattro.
E visto che quei macchinari costano molto, ha deciso di dirmelo avvisandomi del fatto che avrei potuto subire uno shock, ma non badai, ero forte abbastanza per sentire la notizia che mi aspettava.

Allora continuò dicendomi che avevo subìto un incidente, una macchina mi aveva travolto, non mi ricordavo niente di tutto ciò, perché avevo avuto una commozione cerebrale, la quale mi aveva causato delle lacune sulla memoria, ma col passare del tempo avrei potuto ricordare.
Inoltre quell'incidente mi aveva lasciato una lesione nel midollo, ecco perché non riuscivo a muovere le gambe, avrei avuto bisogno di fare fisioterapia, per potermi riprendere, ma la guarigione non era accertata.

Loro non potevano saperlo, nessuno avrebbe potuto saperlo.

Credo la maggior parte delle persone a questa notizia potrebbe iniziare a piangere, chiedersi perché la vita sia così crudele e a convincersi che quello che stanno vivendo non sia reale e dirsi che è solo un brutto sogno da cui presto si sveglieranno.

Io invece ero come una pietra, non lasciavo trapelare nessuna emozione, ero fredda, era come se il mio cuore non potesse più provare nessuna emozione, era come se si fosse spento, spento completamente.

In quel momento era come se non mi trovassi in quella stanza, era come se fossi sospesa nell'aria in un posto sperduto, anzi inesistente, un luogo dove non c'è né lo spazio né il tempo, e la voce del dottore continuava a rimbombare nella mia mente senza sosta.

Avendo visto la mia reazione, il dottore si allontanò lasciandomi da sola in quello stato, in quel mondo quasi surreale.

Sono passati quattro giorni da quando non vedo i miei genitori, o meglio, loro vorrebbero venire a trovarmi, ma sono io che non voglio.

Tramite un'infermiera ho ricevuto il mio cellulare il quale squilla incessantemente, ma io non rispondo, non voglio vedere né parlare con nessuno, voglio semplicemente stare da sola.

Purtroppo comunque essendo in ospedale mi tocca parlare per forza con qualcuno: infermieri, dottori e vari lavoratori dell'ospedale.

Cerco di parlare il meno possibile, dicendogli quello che vogliono sentirsi dire, per esempio alla domanda «come si sente ragazzina?» io gli rispondo «bene», oppure «meglio di ieri», sfoggiando uno dei miei sorrisi più falsi,
quei sorrisi che si usano per nascondere il dolore, quel sorriso che riesce a mascherarti dandoti una corazza forte e indistruttibile.

Ma queste domande vengono fatte solo per avere la coscienza pulita, solo per nascondere il menefreghismo che si nasconde nelle loro anime. Potrebbe darsi che mi sbagli, che magari siano davvero intenzionati a sapere il mio stato d'animo, ma con questo? Cosa importerebbe?
La situazione di certo non cambia.

Passo le mie giornate ad osservare il paesaggio fuori dalla finestra, dove il cielo è sereno e nient'altro che pochi alberi.
Stesso cielo, stessi alberi, nulla di nuovo.
Ed in quel momento il tempo sembra fermarsi e mi sembra di vivere lo stesso giorno, ininterrottamente.
Neanche una lacrima è scivolata sulle mie guance, non provo assolutamente niente, nessuna rabbia e nessun dolore.
Non penso a nessuno, non mi importa di niente, ci sono solo io, il mio corpo ferito, il bianco dell'ospedale e di tanto in tanto, sento una vocina nell'animo che dice: «Posso provarci».

Spazio autrice
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