69. Survive

È proprio in quell'istante che l'ombra che è in piedi dall'alto della tua testa, ti schiaccia un braccio con la suola della scarpa e mettendoci tutto il peso del suo corpo. Ed è come una sveglia per te; perché è come se qualcosa si trasformasse nella tua testa. È pensi che non ti lascerai andare perché ... perché – anche se lo hai fatto per molti anni ormai – la donna che ti ha insegnato tutto, non ti hai mai spiegato come mollare. E Lei non vorrebbe vedertelo fare in un momento del genere. Così, mentre quello che ti sta addosso, inizia a scendere con le mani sui tuoi fianchi, decidi – o forse solo il tuo corpo lo fa – che se dovrai morire stanotte, lo farai combattendo; e fino a che ne avrai forza. Proprio come ha fatto la tua mamma.

Afferri la gamba di quello in piedi con il braccio libero, poi ti issi quel tanto che basta da far avanti la tua faccia. Quando puoi, gli mordi il polpaccio con tutto la forza e la rabbia che hai in corpo.

Quello grida e ti colpisce alla testa. Ma tu non molli la presa– malgrado i tuoi occhi si riempiano di scintille luminose – lasciandolo solo quando hai ottenuto quello che vuoi: che lui si allontani liberandoti il braccio. A quel punto, con tutta te stessa, tiri – alla cieca – una gomitata alle tue spalle. Centri qualcosa; e nel giusto modo a giudicare dalla vibrazione, quasi una scossa, che ti risale avambraccio fino alla mano. Il peso sulla tua schiena si sposta abbastanza da permetterti di sgusciare di lato liberandoti. Senti parte del tuo vestito da sera strapparsi, ma non ci fai caso; anzi, tiri di più fino a che la gonna non resta in parte al suolo liberandoti le gambe. Sei ancora carponi quando ti accorgi che il tizio a cui hai morso il polpaccio, si è ripreso abbastanza da provare a colpirti con una ginocchiata violenta. Fai appena in tempo a coprirti il volto e il busto incrociando e braccia davanti a te prima che l'impatto – uno di quelli che mozzano il fiato – non ti manda indietro quasi travolgendoti. Cerchi di risollevarti prima che il corpo dell'uomo che ti ha appena colpito, ti sia di nuovo addosso. Stavolta però sai da quale direzione sta per venire l'attacco e sei in posizione per difenderti e in uno strano stato d'animo davvero particolare; come se sapessi perfettamente cosa fare; ed è come se la decisione di combattere fino alla fine, ti abbiano reso più lucida; estremamente concentrata e calma. E sì, c'è una parte di te, un angolo del tuo cervello o solo una porzione del tuo istinto, che sembra in grado di vedere tutto con estremo distacco; come se capitasse a qualcun altro; come se ogni cosa attorno a te stia come procedendo al rallentatore.

Invece di farti travolgere, accompagni il movimento del corpo del tuo aggressore. Allarghi le gambe, stringendole attorno alla sua vita e, mentre la tua schiena batte con violenza contro il fondo del parco, tieni le mani alte al lato della testa. I colpi iniziano a pioverti addosso con una furia e una goffaggine che non lì aiutano a essere efficaci. Tu intanto aspetti guardando il tuo bersaglio, prendi il tempo dei suoi attacchi e, appena puoi, lo colpisci. Due volte. Di seguito. La prima all'orecchio sinistro e a mano aperta – augurandoti in cuor tuo di aver fatto tutti i danni che speri. Il seconda dritto al pomo d'Adamo, o almeno lì dove speri esserci visto che il passamontagna del tipo gli copre anche il collo. Questo secondo colpo deve essere andato perfettamente a segno, visto che quello si stringe il collo, come se soffocasse, e inizia ad accovacciarsi di lato e a tossire e a sputacchiare. Ti ci vogliono altri due colpi al lato della sua testa per convincerlo a scenderti di dosso. Riesci a rimetterti in piedi – accorgendoti solo ora di aver perso entrambe le scarpe da sera – appena prima che un colpo, da dietro di te, non ti centri al lato della testa facendoti esplodere di nuovo una salva di fuochi d'artificio davanti agli occhi. Provi a difenderti dall'aggressione, ma sei afferrata da dietro e spinta contro un albero prima che tu possa fare qualunque cosa. Un braccio, che ti sembra fatto di puro acciaio tanta è forte la sua presa, ti stringe al collo e qualcuno – evidentemente il secondo aggressore – inizia a spingerti verso un albero poco distante. Provi a combattere, a infilare la mano nella morsa per allentarne la presa o a impuntare i piedi per evitare di essere spinta contro la corteccia dell'albero, ma non ci riesci. Provi allora a colpire alla cieca e a graffiare, ma nemmeno questo funziona. Intanto senti il sangue affluire violentemente alla testa. E ti sembra di esserti trasformata in un palloncino sul punto di scoppiare. Il mondo inizia a farsi bianco e nero. E per un lungo istante sei davvero convinta di essere arrivata alla fine. Proprio in quel momento dal tuo corpo senti come arrivare una scossa di energia disperata. E capisci – ma a un livello molto basse che pensare ti è diventato impossibile ora – che se non ti liberi, per te è la morte. Provi a calpestare il suolo in cerca dei suoi piedi, ma non lì trovi. Provi a graffiargli lo faccia e gli occhi, ma non lì raggiungi. Il mondo inizia a farsi nero e a sfumare. Ed è allora che provi a poggiare un piede sulla corteccia dell'albero che hai di fronte. Senti il palmo del tuo piede sulla ruvida corteccia, e senti il grip per meno di un istante; poi inizi a spingere con tutta te stessa. Ti allontani di forse dieci centimetri mentre è quasi tutto svanito davanti ai tuoi occhi. Intanto, con una mano, cerchi alle tue spalle, in basso, all'altezza di dove credi siano i suoi pantaloni. Senti la tua mano affarrare un punto più molle. E a quel punto stringi. Stringi con tutta te stessa. E stringi i suoi coglioni molli come perché è da ciò che dipende adesso la tua vita. Senti lui emettere uno strano suono sofferente, poi la presa al tuo collo si allenta. A quel punto, ti aggrappi al braccio che ti sta ancora attorno al collo – che la spinta verso l'albero si è fermata di colpo – sollevi entrambe le gambe all'altezza del petto, e ti lasci cadere al suolo. La tua presa è abbastanza solida da farti trascinare dietro il tipo e proiettarlo in avanti. Senti un tonfo violento, poi qualcosa ti schiaccia mentre l'ossigeno riprende a riempirti i polmoni. Ci metti alcuni secondi per riprenderti abbastanza da scrollarti con fastidio quel corpo pesante da dosso e accorgerti di esserti bagnata con qualcosa di vischioso. Solo quando torni carponi e poi, lentamente in piedi riesci ad accorgerti che sei ricoperta di sangue; ,a che, grazie a Dio, non è tuo il sangue ma dell'uomo che ora è ai piedi dell'albero e che hai fatto – con la tua manovra – sbattere violentemente con la testa contro il tronco. Dovresti allontanarti – è questo che ripete sempre la Johnson al suo corso di autodifesa – dovresti chiedere aiuto. Oppure metterti a urlare. Oppure far di tutto che la prima regola dell'autodifesa è quella di mettersi al riparo appena se ne ha la possibilità. Ma non ci riesci. Non ancora. Intanto l'altro uomo, quello che hai colpito al pomo d'Adamo e che fino ad ora è stato a terra cercando di riprendersi, si alza dal suolo e sembra guardarti con uno sguardo omicida. Ma ormai ti sei spinta troppo in là; e fatichi a sentire qualcosa di più di un vago senso di incompiuto. Così decidi che, anche se le regole che ti hanno insegnato sono diverse, stavolta non scapperai; e non chiederai aiuto. Perché questa sera, adesso, lo senti con profonda certezza, sei davvero invincibile. Così inizi ad avanzare verso l'uomo; con le mani alte e in avanti e con una certa postura del busto e un po' bassa sulle gambe. Quello, che per un istante è sembrato sul punto di volerti caricare, come capisse quanto sarebbe una brutta scelta per lui, decide di desistere e inizia ad avanzare tenendo i pugni altri, ma in una postura che tu sai scorretta e che può ricordare tanto quella di un ubbriaco che si prepara a una rissa. Quando siete quasi a contatto, tu abbassi un braccio piegandolo appena; poi aspetti. Lui ti tira un paio di calci – uno vicinissimo al ventre – che tu nemmeno senti e che incassi come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ti colpisce con il sinistro e tu riesci appena a girare la testa per evitare che la faccia ti si deformi. Poi, quando lui si getta in avanti muovendo il destro verso di te, tu reagisci. Gli afferri la mano, ruoti il bacino e il busto, poi lo trascini a terra usando il tuo corpo come peso contro la sua articolazione. Quando sei giù, e dopo che hai percepito con nitidezza un paio di brevi crack, lo molli e ti rimetti, più rapidamente che puoi, in piedi. Quello si mette in ginocchio e fa per allungare di nuovo un braccio verso di te; ma non va come pensa. Perché il braccio gli si piega, in due all'altezza del gomito a formare un angolo retto innaturale, mentre il polso inizia a penzolargli inerte. Il tizio guarda la frattura scomposta che gli hai procurato e... inizia a gridare. Con una nota acutissima della voce. Come una donna isterica. In modo insopportabile. Per fortuna che lo fai smettere. Con una violentissima ginocchiata al mento. Quello si accasci come se dormisse, e tu pensi che dovresti colpirlo ancora; ma non lo fai. Vedi arrivare della gente. E allora pensi che sia proprio finita. Così prendi il cellulare dalla tua borsetta che è volata – chi sa in quale momento – a terra, e chiami il numero delle emergenze. 

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