C'era una volta una bella principessa

Sigzai (Dazai x Sigma)
One shot

TW!
(Scene violente, autolesionismo, depressione, suicidio, sangue, descrizioni di sesso esplicite)


🩹°.•🧣°.•☕


Era sempre stato sangue per me. Mi irritava i sensi, mi sguazzava nelle vene come un'anguilla. Lo vedevo passeggiare accanto all'altro, lo vedevo prendere la sua mano, il cappotto lungo, il cappello che gli stava malissimo. Avrei voluto strapparglielo dalla testa, arruffargli i capelli, infilare le dita tra quelle ciocche e lasciar fare alla voglia che avevo di strapparglieli tutti. Volevo fargli male tanto più di quanto lui ne facesse a me. Volevo sentire i suoi gemiti. Volevo la sua carne, volevo che entrasse nella mia carne, che s'imprimesse nelle mie membra come fuoco. Volevo infilare le dita dentro di me e percepire la ruvidità del suo sesso dentro, percepire le mie pareti strette scorticate dalla sua forza. Lo volevo irruente. Sbirciavo la sua figura da dietro la mia scrivania e desideravo i suoi occhi addosso.

Volevo che si accorgesse di me, della mia pelle bollente, del respiro che mi restava in gola ogni volta che lui mi passava accanto e il suo profumo mi si incastrava nel naso. E no, non ne voleva sapere di venire via.

Volevo che per una volta, quello che non contava nulla fosse l'altro. Volevo sentire la forza che sprigionavano le sue dita, la rozzezza delle bende contro la pelle già aperta, lo strusciare dei vestiti gli uni contro gli altri. Desideravo - pazzamente - spogliarmi per lui, chiudergli le braccia attorno al collo, sprigionare il mio dolore direttamente sulla sua bocca. Volevo sfinirmi, lasciare che i dubbi che mi trivellavano, si assopissero, che meglio ancora, fuggissero da me e andassero a lui. Sapevo che quello che lo legava a me era uno stupido, inutile pezzo di carta e tanta, tantissima, pietà. Lo capivo dal modo in cui inclinava le labbra quando passava accanto a me la mattina e quando mi portava qualche biscotto, - che lui non era riuscito a fare fuori prima di arrivare - quando mi chiedeva se quel mese ero riuscito a pagare l'affitto. Volevo sentire male. Volevo che mi entrasse sotto pelle, che mi riducesse a carta pesta, a un corpo martoriato su un letto.

Volevo far parte della sua quotidianità.

Io che dei cliché mi ero sempre dichiarato disgustato, mi ritrovavo a volerlo più di quanto avessi mai desiderato sopravvivere.

Era diventato un bisogno. Premeva dentro di me, graffiava, scalciava, si nutriva del dolore mio, di quello che mi restava sotto le unghie, come sporco. Lo sentivo. Mi restava l'amaro in gola.

Ogni volta che l’altro si presentava in ufficio e mi faceva cenno di fare silenzio, sorridendomi distrattamente. Ogni volta che i tonfi si facevano assordanti, ogni volta che mi facevo male e volevo che i mostri smettessero di fare casino. Graffiavano, io li sentivo in gola e volevo solo che stessero zitti, ma quello che provavo m’investiva con così tanto impeto che mi sentivo affogare.

Non riuscivo a fare altro se non deglutire, ingoiare il veleno che mi restava nella pancia, che uccideva ogni mia gioia.

Io lo volevo. Io gli ero fedele, io necessitavo del suo respiro contro le labbra per respirare meglio. Io, non lui.

Lui lo aveva avuto. Lui lo aveva avuto.

Questo pensiero mi devastava. Perché la provvidenza, il cielo, le stelle, davano a qualcuno che già aveva ottenuto il perdono del mondo, anche la gioia di una compagnia eterna? Io volevo solo sentirmi bene. Volevo che lui mi apprezzasse, che apprezzasse il lavoro che facevo - ogni santo giorno - per lui. Volevo che si sedesse accanto a me e mi spiegasse che mi voleva bene, che mi voleva così tanto bene che preferiva lasciarmi libero dalla sua oscura ombra. Io lo sapevo, - mi avevano avvertito tutti - che dentro di lui c'era qualcosa di oscuro, qualcosa di malvagio. Ma sapevo anche - e lo sapevo come si sa una verità indissolubile - che lui la teneva a bada.

Ma poi lui si legò a Chuuya ed io finii per disperarmi. Cosa ne avrei fatto della mia vita? Del mio lavoro? Del mio amore?

Amore che sperperavo come fosse stato miele. Glielo incollavo addosso e aspettavo che lui lo prendesse tra le dita, che finalmente reagisse alle cose che dicevo, che facevo in sua presenza.

E un giorno, finito di lavorare lo fermai.

Gli afferrai il polso, lo feci voltare verso di me. Io tengo molto a lei, dissi, in un soffio. Io tengo tantissimo a lei. E lui mi guardò, mi guardò schiudendo gli occhi e fermandosi a mettere a fuoco la realtà, davvero interessato, come si mostrava ogni volta che era Chuuya a parlargli.

«Sì,» mi disse, «Anch'io tengo molto a lei, Sigma

Fu il modo nel quale me lo disse che mi restò impresso. Volevo avere un pezzettino di lui, ma non mi rimase nulla. Non quel giorno. Attesi, mi crogiolai in un'attesa snervante, malinconica. Mi svegliavo già stanco, le occhiaie non facevano che estendersi, perdevo i capelli. Non mi curavo più di sorridergli quando faceva il suo ingresso a lavoro. Tenevo la testa bassa sui quaderni, sui libri contabili, facevo finta di essere impegnato, ma il mio cuore si ribellava contro le mie costole ogni volta che lui attraversava il corridoio e mi lanciava un'occhiata. Avevo notato che aveva iniziato a farlo, che mi sorrideva, che a volte poggiava i palmi sulla scrivania e mi chiedeva di accompagnarlo a fare due passi in cortile, di mangiare qualcosa con lui, di sgranchirci le gambe, di raccontargli qualcosa.

E così presi a farlo. Presi a raccontargli di me, della mia vita. All'inizio furono semplici allusioni alla mia quotidianità. Che profumo usavo, che sciarpa preferivo, quali mocassini secondo me gli sarebbero stati meglio, quanto tenevo alle pulizie. E mi stava a sentire. Non si stufava, non distoglieva lo sguardo come faceva quando qualcosa iniziava a durare troppo. Ascoltava, annuiva, mi sorrideva. In qualche caso accennò perfino a qualche battuta.

Mi piaceva quando inclinava la testa e ciuffi di capelli scivolavano giù dalla sua fronte come liane. Qualche volta mi permetteva di rimetterglieli apposto. Allora allungavo le dita - ignoravo il tremore delle mie mani - e glieli sfioravo. Sentivo la morbidezza delle ciocche sotto i polpastrelli, giocavo con la parte superiore del suo orecchio. Mi lasciava fare. Chiudeva gli occhi e si lasciava sfuggire qualche parola dalla bocca. Lasciava che mi rifugiassi nel suo cappotto quando faceva più freddo. Se ne accorgeva. Vedeva i brividi salire sulla mia pelle e non diceva nulla, - non mi chiedeva perché mangiassi così poco, perché mi coprissi quasi per nulla e lasciassi andare così il mio corpo. - Mi lasciava riposare, lasciava che riposassimo entrambi.

*****


Diventò la nostra quotidianità.

Ci sedevamo sulle panchine e guardavamo le foglie cadere, i bambini giocare al parco, le madri corrergli dietro, coprendoli un po’ di più, sgridandoli per qualcosa. A lui piaceva quando gli parlavo di me. Alla fine cedetti e passai a raccontargli della mia infanzia.

Non era mia intenzione farlo, accade e basta. Era Marzo, stavamo scherzando su qualcosa che non ricordo, lui disse una frase riguardo i genitori che non sanno prendersi cura dei propri figli, io m’incupii. Se ne rese conto. Mi mormorò che non voleva offendermi, che non era rivolto a me. Per un po’ non gli risposi. Lui mi aveva preso il mento tra indice e pollice per parlarmi meglio, ma non gli volevo mostrare i miei occhi lucidi. Mi feci silenzioso. Guardai davanti a me, sbirciai i bambini che correvano via, le loro facce giocose, le scarpette sporche di fango. Mi chiesi se anch'io, avendone avuto l'opportunità sarei stato come loro. Se avendo avuto un'infanzia triste, allora ero condannato anche ad una vita adulta infelice.

Questo gli chiesi e lui rimase sorpreso dalle mie parole. Voleva sapere di più. Me ne resi conto, anche se non accennava a chiedere. Restai di stucco persino io quando le mie labbra presero a muoversi. Gli raccontai che non avevo mai avuto qualcuno accanto, che ero cresciuto da solo, lavorando qua e là, che ricordavo poco e niente della mia infanzia, che quando ripensavo alla mia vita, le lacrime scendevano senza dar credito a nessuno. È una vita dolorosa, gli spiegai. Soffro e continuo ad andare avanti, vado avanti e soffro. Non ho mai avuto qualcuno che mi volesse bene davvero, gli dissi. Nessun obiettivo, nessuna responsabilità se non me stesso.

Lui ne restò colpito. Si sprecò in scuse, mormorò che non aveva idea di quello che avevo dovuto passare, che gli dispiaceva che qualcuno di tanto tenero, - sì, disse proprio tenero - avesse dovuto affrontare quel tipo di dolore. Seppi solo dopo che anche la sua infanzia non era qualcosa che somigliava ad una favola. Si portava appresso più demoni dei miei, ce li aveva attaccati alle occhiaie, alle cicatrici che gli ornavano i polsi, alle bende sempre sporche. Ma lì, su quella panchina, perdevamo l'identità. Non eravamo più persone che dovevano render conto a qualcun altro di più alto. No, eravamo io e lui, sempre e solo due anime. E lui mi voleva bene. Iniziai a capacitarmene.

Aveva iniziato a guardarmi. A guardarmi davvero. Non solo più occhiate, ora erano sorrisi, cenni d'intesa, colazioni al parco. Col caffè bollente, i biscotti al burro, i dorayaki. Mi piaceva stare con lui. Mi piaceva il suo profumo. La nota di arancio che c'era nel mezzo, il gelsomino leggero come un pizzico. Sapeva di Primavera. Lo respiravo stretto stretto al suo petto e un po’ arrossivo. Mi vergognavo, perché non era mio, non lo sarebbe mai stato.

Credo che in lui rivedessi un po’ il padre che non avevo mai avuto. Si comportava con dolcezza, mi prendeva per mano se dovevamo attraversare la strada, mi stringeva un braccio attorno ai fianchi se andavamo di fretta, mi lasciava usare il suo cappotto se avevo freddo. Mi legava le sue sciarpe al collo e quando facevo per ridargliele, sgranava gli occhi e scuoteva la mano.

“Tienila, mi offendo sennò.” E mi accorsi che quei regali si facevano sempre più frequenti, al contrario delle visite di Chuuya.

Se prima il ragazzo dai capelli rossi si faceva vedere minimo tre volte a settimana, ora era proprio raro che si presentasse in ufficio. Iniziai a pensare che avessero litigato.


****



Così, un giorno, al parco glielo chiesi. Erano da poco passate le undici, me ne stavo rannicchiato tra il suo petto e il suo braccio. La stoffa del suo giaccone mi teneva al caldo.

“Ha litigato col suo fidanzato, per caso?”

Mi aspettavo di venire respinto, di essere schiaffeggiato per la mia impudenza, di essere cacciato a calci, che addirittura lui mi guardasse schifato, che aggiungesse “ma come ti permetti?”

Invece, si limitò a sospirare e annuì.

“Te ne sei accorto, eh?”

Gli dissi che non era stata mia intenzione farmi gli affari suoi, ma lui rise di quella sua risata cristallina, mi accarezzò la fronte.

“Non ti stai facendo gli affari miei,” disse, “vuoi solo capire, non è vero?”

Risposi con un timido sorriso, e allora attaccò a spiegarmi. Non aveva voluto parlare con Chuuya perché lui era testardo, perché faceva sempre quello che voleva, perché non lo ascoltava mai, non gli parlava mai.

“Non è come te,” mi disse, “non sa capire quando è il momento di smetterla.”

Io non capii, lo guardai confuso.

“Che intende?”

Si lasciò sfuggire un sorriso.

“Vedi,” mormorò, “usi ancora il lei, nonostante passiamo più ore insieme che da soli.”

Arrossii. Fui colto da una vertigine improvvisa e mi aggrappai al suo braccio. Dopo essersi accertato che stessi bene, continuò a parlare. E mi parve strano, lui che era sempre così riflessivo, così silente, ora mi parlava senza interruzioni, senza pause. Mi spiegava la sensazione che si sentiva addosso, - è come se fossi sott'acqua e riesco a prendere fiato solo quando parlo con te. Chuuya mi affonda solo - della sofferenza che si portava appresso come una catena, dei litigi con Chuuya, del suo essere indifferente alle offese, agli insulti, alle urla.

“Lui non fa caso a quando non ce la faccio più.” confessò.

Aveva qualcosa di addolorato nel viso e mi sorprese il riconoscere gli stessi segni del mio dolore.

“Non riesce a mettere un freno alla lingua, alle azioni. Se va male, per Chuuya deve andare sempre peggio.” disse.

“Non era così, mi rivelò. Quando l'ho conosciuto era insicuro, ma buono. Ora la luce che aveva dentro è sostituita da un buio nel quale io rantolo. Non mi permette di aiutarlo, non mi permette di-”

“Accendere la luce?” suggerii. E lui annuì.

“Esatto,” disse, “non mi permette di accendere la luce, non vuole vedere neppure un bagliore. E’ sempre pronto alla lotta, alle ferite, ad andarsene.”

“Un tempo era il contrario. Un tempo ero io a fuggire.”

“E ora non lo fai più?”

“No, non fuggo più. Preferisco prendere il caffè con te.”

Ridemmo. Io mi feci rosso come una ciliegia e lui giocò con un ciuffo dei miei capelli.

“Sono veramente setosi,” mi disse. Si perse per qualche secondo. I suoi pensieri parvero scomparire, si introfulò in un mondo a cui io non avevo accesso.

Ritornò a parlarmi dopo qualche minuto. Guardava fisso davanti a sé, ma ricordo alla perfezione il sorriso genuino che gli scaldò le labbra quando mi si rivolse.

“Grazie, Sigma. E per favore, smetti di darmi del lei. Siamo amici, no?”

“Amici. Sì, amici.”

Annuii. Se il cielo aveva ascoltato le mie preghiere, mi ritrovai a riflettere, lo aveva fatto in un modo tutto suo. Mi aveva sottratto la possibilità di innamorarmi ancora? Qual era il prezzo che avrei dovuto pagare per quella vicinanza, per quell'amore filosofico, per le belle parole, per il tempo che lui mi concedeva?

Non lo sapevo. La sola idea di perderlo mi spaventava a morte. A volte sognavo, facevo incubi distorti e per nulla sereni, mi risvegliavo di soprassalto, non facevo che immaginare gli artigli di Chuuya sulle spalle di lui e il suo volto sofferente, il dolore che gli scavava addosso come una ruspa. Allora finivo solo per legarmi più forte a lui, lo cercavo, gli portavo quel romanzo di cui mi aveva parlato, gli dicevo la mia su quel film che avevano dato al cinema. Ogni cosa pur di stargli vicino, pur di sentire il suo profumo qualche minuto in più. Mi accorsi che mi faceva stare bene. La sua presenza mi allietava le giornate. Finivo - senza volerlo - col mangiare di più, col prendermi più cura del mio aspetto, sperando che lui se ne accorgesse, col fare attenzione alla pettinatura che avrei avuto il giorno dopo a lavoro. Volevo che lui mi trovasse bello, che si complimentasse per il mio bell'aspetto, per le parole distinte che sapevo usare, per il modo che avevo di ricordare tutte le cose che gli interessavano. Volevo che si accorgesse di quanto avrei potuto dargli, se avesse scelto me.

Lui mi accontentò. Sembrava felice di sapermi in pace con me stesso, faceva esattamente quello che volevo. Non si faceva pregare. Mi portò altri regali. Ora golfini, ora cappotti nuovi, ora guanti per le mie mani eleganti - così le aveva definite, prendendo le mie dita tra le sue e osservandole con i suoi grandi occhi color nocciola. - Mi regalava anche romanzi, libri che sapeva avrebbero acceso la mia curiosità e me ne faceva grandi riassunti, come se la trama fosse stata un biscotto sventolato sotto il naso di qualcuno a dieta.

Gli piaceva vedermi sorridere. Me ne accorsi quando lui si fece sfuggire un sorrisetto timido in risposta alla mia risata.

“Non sorridere così a nessun altro.” mi disse, e mi sorprese. Mi aveva preso il mento tra indice e pollice come era solito fare quando voleva i miei occhi totalmente addosso a sé. “Non farlo mai, Sigma. Lo faresti innamorare.”

Non seppi cosa rispondere. Abbassai lo sguardo, arrossii. Lui si esprimeva in modi totalmente lontani dai miei toni, era lontano da ogni altra esperienza che avessi mai avuto prima. Vero, onesto, brutale. Mi feriva solo per portarmi a toccare il cielo con un dito appena metteva fuori la frase successiva.

Mi sorprese la malinconia con la quale si arrendeva alle mie mani. Le mie carezze avevano il potere di soggiogare la sua anima inquieta e lasciarlo riposare almeno il tempo necessario a ristabilirsi. Non mi chiedeva mai nulla. Era solito domandare invece, se avessi bisogno di qualcosa, se con l'affitto andasse tutto bene, se la muffa in casa si fosse diradata. Era persino arrivato a propormi di pagarmi l'affitto per un altro appartamento.
Un vero appartamentino, nella zona dove abitavano i veri signori, con le finestre che si riempivano di sole ogni giorno e le manopole del gas vere, senza schegge di plastica nel mezzo. Mi rifiutai. Gli dissi offeso, che non volevo che sprecasse il suo denaro per me. Lui forse vedendomi in quello stato, si preoccupò. Cercò di rimediare, si scusò, mi accarezzò i capelli, si scusò ancora. Non era sua intenzione farmi arrabbiare, aveva detto, voleva solo assicurarsi che stessi bene. Teneva a me, alla mia salute. Nel dirlo mi aveva preso la mano.

Pensai, oltre che alle sue parole, al fatto che fosse la prima volta che mi prendeva per mano e che lasciava scivolare le dita tra le mie, come se fosse un gesto del tutto naturale, del tutto logico. Ma nonostante la gioia e l'eccitazione che quell’avvenimento aveva smosso in me, sapevo che non era una cosa che potevamo permetterci. Stavamo scavalcando dei limiti che io avevo silenziosamente imparato ad accettare e rispettare.

Quando glielo feci notare, lui rise. Non capii il motivo della sua ilarità e un po’ accaldato gli chiesi cosa ci fosse di tanto divertente.

Ancora una volta le sue parole ebbero il potere di sciogliere la mia rabbia come neve al sole. Non era divertito, mi spiegò, era colpito.

“Hai un senso della giustizia così spiccato.” Sembrò rammaricarsene più che meravigliarsi. “Non sai quanto vorrei che Chuuya avesse un minimo della tua coscienza.”

Mi fece male. Con le sue parole, con quel suo modo di paragonarmi al fidanzato, alle loro vicende sentimentali. Gli spiegai che non possiamo essere tutti uguali, che Chuuya sicuramente aveva altre qualità. Dopodiché, stupendo perfino me stesso, mi alzai e scusandomi tornai in ufficio, lasciandolo alla panchina, da solo.

Dopo quel giorno, lui dovette capire che la sua frase mi aveva messo di malumore, perché finì col mostrarsi perfino più premurosamente. Mi portava croissant e ciambelline a colazione, mi regalava puzzle con stampe verissime, mi faceva trovare origami sulla scrivania,  - sempre diversi e sempre accompagnati da un biglietto accanto, con su scritto in una calligrafia sottile ed elegante, un complimento sempre diverso. - Finii col diventare più morbido. Una sera, erano passati pochi giorni da quando lui se n'era uscito con la sua frase, cedetti alle sue richieste e gli permisi di riaccompagnarmi a casa. Lui si mostrò sorridente e gentile per tutto il tragitto. Mi parlò della sua casa al mare, del viaggio che aveva fatto in Australia, dei ragni enormi che aveva visto, delle condizioni igieniche durante il cammino per raggiungere Londra, dei treni che non erano mai in orario, delle agende che adorava. Lo stetti a sentire, mi sorpresi della capacità che aveva di esporre argomenti diversi senza mai cadere nel banale e senza risultare pesante. Aveva questo suo modo di comunicare che credo fosse ciò che finì col farmi innamorare sempre più.

Raggiungemmo casa mia quando il cielo era sfregiato da lunghe pennellate di rosso, di rosa scuro. Salii i pochi gradini che mi separavano dal portone dell'alto edificio nel quale abitavo, cercai le chiavi in tasca. Quando riuscii ad aprire il portone, mi girai. Lui era ancora lì, a pochi metri da me, le mani nelle tasche del suo cappotto, - sul quale, ne ero certo, fosse rimasto un residuo del mio odore. - Non fu quello a colpirmi. Fu il suo sguardo, i suoi occhi ancora fissi su di me, come se potesse accertarsi che stessi bene davvero solo una volta che avrei raggiunto il morbido tepore del mio appartamento.

Mi sfuggì un sorriso. Tenni la porta con una mano e cercai i suoi occhi.

“Sali?”

Lui ricambiò il sorriso, fece a due i gradini che ci separavano e corse ad avvolgermi con la sua presenza.

Non seppi cosa fu a spingermi a cercare la sua mano mentre salivamo le scale. Lo feci e basta. Strinsi i nostri palmi e sfregai le nostre dita finché non presero a sudare e la presa si fece scivolosa. Neppure allora mi lasciò andare.

Mi vergognai di mostrargli il piccolo covo che chiamavo casa. Mi resi conto che quella che giustificavo con ostinazione, non era che un piccolo ritaglio fra scale e sottotetto, con le pareti piene di ghirigori al sapore di muffa umida e col soffitto sporco di fumo. Tuttavia lui non disse nulla. Non si lamentò dell'odore penetrante e acuto della casa, non fece proteste quando lo feci sedere sul divano invece che in cucina, - del tutto inesistente, visto che quello che doveva essere lo spazio cucinario, era un angolino tra sofà e finestra, con solamente i fornelli, qualche scaffale e il frigorifero che mandava un ronzio continuo. - Gli preparai un té, glielo portai, ma le mani mi tremavano e prima che arrivassi a lui, la tazzina scivolò alla mia presa e finì in frantumi.

Sbarrai gli occhi, farfugliai scuse, mi chinai a riacciuffare i cocci. Lui mi raggiunse in meno di due secondi. Si prostrò accanto a me, sulla moquette umidiccia e mi scostò le mani dal pavimento.

“Lascia che ti aiuti.”

“Non serve.”

“Ti farai male alle dita.”

“Non mi importa.” biascicai, ma la voce mi uscì stonata perché era così vicino a me e mi teneva le dita tra le sue e il suo profumo sovrastava perfino quello della muffa, della decadenza della casa.

“Ma a me sì.”

Lo disse con quel soffio di fiato che sapeva per metà di rimprovero e per l'altra metà di supplica. Sembrava lottare. Non so contro chi, non so contro cosa, ma sembrava impegnato in una lotta asprissima. Alla fine, schiusi le labbra, provai a mormorare qualcosa, ma prima che riuscissi a mettere in ordine le parole, lui si era già avvicinato.

Le nostre labbra erano le une sulle altre, il suo respiro mi faceva vibrare la bocca, le dita mi si erano allacciate dietro la nuca e i capelli mi si erano sparsi in avanti, come a volerci riparare.

Le sue labbra si mossero, le sentii raschiare contro le mie, un movimento violento e devastante che mi accese qualcosa dentro come una scintilla. Non volevo che si separasse da me. Più si premeva contro di me con quel movimento lento e distruttivo, più i miei sensi si perdevano, la testa si alleggeriva.

Chiusi gli occhi.

Mi stava baciando.

Stava baciando me, mi toccava, si lasciava avvicinare. Quando me ne capacitai l'impulso di toccarlo fu irresistibile. Protesi una mano, lo sfiorai sulle guance, tra orecchio e mascella, quel triangolo ruvido che delineava la fine e l'inizio del suo volto, e quasi come se avesse preso la scossa, lui d'improvviso sussultò. Il mio tocco ebbe l'effetto opposto rispetto a quello che avevo sperato.

Si allontanò tutto insieme, mi sottrasse la sua bocca, le sue labbra umide, fresche.

Schiusi gli occhi, lo guardai. Era impallidito, come se avesse appena scoperto una grave emorragia e non potesse far altro che premere le dita contro la ferita. Solo che la sua ferita era sul petto, tra le costole, imprigionata tra milioni e miliardi di vasi sanguigni e ossa. Si teneva il torace come se l'avessi appena pugnalato. Io che sentivo ancora il sapore della sua pelle contro la mia, l'ombra della sua bocca come un prurito.

Sbarrai lo sguardo, soffrii. Lo vidi sollevarsi velocemente, guardarsi attorno smarrito sino a individuare la porta. Poco distante da noi. La raggiunse in due rapidi passi, io per un attimo sbattei le ciglia confuso. Un minuto prima era davanti a me, contro di me e mi premeva sulla bocca come se avesse bisogno del mio ossigeno per sopravvivere, e quello dopo mi guardava col dolore negli occhi, sul volto l'espressione di chi si è rovinato. Fu il cigolare della porta a farmi rinsavire.

Lo seguii giù dalle scale, senza giacca, senza sciarpa. Il freddo mi colpì come un fulmine, non appena aprii il portone del condominio. Lo ignorai, mi avvicinai a lui, riuscii a prendergli il polso.

“Che fai?” farfugliai, senza fiato. Avevo fatto le scale a rotta di collo pur di raggiungerlo, e ora mi bruciava tutto: polmoni, milza, stomaco. Mi aggrappai alla stoffa liscia del suo cappotto nero e pregai una sua reazione.

“Non posso.” disse soltanto. La mia presa gli dava impiglio, si tirò indietro, evitò il mio sguardo. “Non possiamo, Sigma. E’ sbagliato, mi dispiace.”

Disse proprio così. Non disse non posso farlo perché sto con Chuuya, neppure, non posso perché sono innamorato di un'altra persona, no. Lui disse proprio “non possiamo, è sbagliato.”

Le sue parole lacerarono dentro la mia carne e stavolta fui io a lasciarlo andare per portarmi la mano al petto. Il cotone della mia felpa mi graffiò il palmo. Strinsi convulsamente tra le dita quel pezzo di stoffa. Non lo guardai più.

Lui non aggiunse altro. Ripeté solamente una volta “mi dispiace”, poi mi diede le spalle e se ne andò.


********


Per qualche giorno non andai a lavoro. Mi sentivo stanco, esausto. Come se all'improvviso un mostro avesse preso a succhiarmi il sangue e le forze con una cannuccia. Succhiava di notte, di giorno. Non gli importava che non avessi neppure più le forze per farmi una doccia.

Il mio stesso corpo mi torturava.

I pensieri non mi lasciavano sosta. Nei miei sogni lui continuava a scivolarmi via dalle dita, come sabbia al vento, si allontanava così in fretta che io pur di riacciuffarlo mi ci gettavo dietro. Mi risvegliavo grondante sudore, lacrime. Me ne stavo in uno stato di continua agitazione, mischiato ad un'agonia lenta e dolorante che mi toglieva ogni energia. Finii col ricominciare a non mangiare.

Mi piacevano i morsi che la fame suscitava al mio stomaco, la sensazione bruciante che per vivere fosse sufficiente respirare e bere. Ricaddi nel circolo vizioso che lui, per un po’, aveva interrotto. Solo che ora che avevo assaggiato la bella vita, ero caduto ancora più giù, con tanto più buio attorno.

Tornai ugualmente in ufficio. Avevo bisogno del mio stipendio e lui aveva bisogno di un segretario. Arrivai in anticipo, mi sedetti al mio posto, trafficai per ore coi documenti arretrati. Mi accorsi del suo arrivo solo quando palesò la sua presenza.

Stavo leggendo qualche riga sui movimenti azionari degli ultimi giorni e tra una cifra e una sigla, sentii bussare contro la scrivania. D'istinto portai lo sguardo in alto e il cuore mi finì nello scarico. Lui era lì. Lui era di fronte a me, tutto ben vestito, con la barba fatta, il profumo spruzzato, un caffè d'asporto stretto tra le mani. Le sue dita lunghe e nodose erano piene di cerotti.

Prima che potessi fermarmi a riflettere gliele avevo già prese tra le mie e le scrutavo, con occhi attenti. Me le rigirai sotto il viso, chiesi cos'era successo.

“Non è nulla, solo una bruciatura.”

“Solo? Hai le dita tutte fasciate.”

“Sei preoccupato per me.”

“Non-”

“Anch'io ero preoccupato per te.” mi disse all'improvviso, interrompendomi. “Mi dispiace, Sigma.”

E solo quando pronunciò quelle parole i miei occhi si sollevarono a guardarlo. Lui mi fissava già, donandomi la sua totale attenzione.

“Questi giorni senza di te sono stati i giorni più tristi e monotoni che io abbia mai sperimentato.” mormorò, prendendomi in contropiede. “Ho rischiato d’impazzire, tesoro. Non facevo che pensare ai tuoi occhi, - Cristo i tuoi benedetti occhi - alla tua espressione ferita, alla tua pelle morbida. Ti ho ferito, non è vero? Ti ho ferito dopo tutto quello che tu hai fatto per me.”

“Non è così.” mi sentii dire. “Mi hai ferito, ma non credo che tu volessi farmi del male.”

Le mie parole lo sorpresero. Si mise a fissarmi, fece scorrere le sue grandi iridi color nocciola su di me e mi inchiodò alla scrivania. Mi guardò per un lungo periodo - un tempo indefinito, in cui il fiato mi si bloccò in gola e io non potei far altro che ricambiare. - Ad un certo punto sembrò sul punto di dire qualcosa, ma si bloccò prima che riuscisse a farlo. Si avvicinò, chiusi gli occhi. L'ombra del tocco delle sue dita su di me, sulla mia fronte, mi parve simile ad una benedizione.

“Caffè insieme?” propose e prima che potessi rispondere stavo già sorridendo e lui si era già avvicinato.


******




In breve le cose si affievolirono.

Quell'avvenimento aveva spianato le cose fra di noi, ma non mancavano i momenti in cui eravamo ancora così vicini da sentire male allo stomaco. C'erano delle cose che volevamo, mi resi conto, ma non potevamo averle. Lui mi era distante di un passo, ma vicino di due. Sentivo il suo fiato sul collo quando ci sedevamo alla panchina, la ruvidezza della sua pelle contro la nuca se ci appoggiava la guancia. I suoi capelli mi solleticavano la pelle. Era sempre lì, accanto a me. C'eravamo promessi di non farlo più, ma lui era lì.

Ed sentivo la sua presenza al mio fianco come quella di un faggio. Mi ombreggiava durante il giorno, mi faceva da guardia di notte. C'era sempre nella mia vita, persino nei sogni.

Non potei far altro che accettare quella muta richiesta d'aiuto. Lo tenni ancorato a me, gli presi la mano, la strinsi alle mie. Il calore del suo corpo suscitava in me strani brividi. Riconoscevo nei suoi gesti un vago sentore d’affetto, qualcosa d’intimo. Mi abbracciava come se fossimo nel letto, tra le lenzuola. Chiudeva gli occhi e si lasciava andare contro il mio corpo, voleva che lo cingessi con lo stesso entusiasmo che lui mostrava per me. Lo volevo. Volevo che mi stesse accanto, che respirasse ancora attaccato alla mia gola.

Poi un giorno accadde che lui arrivò tardi a lavoro. Aveva in viso occhiaie nere come pugni, graffi sul collo, segni rossastri sulla fronte e tracce di dolore tra le pieghe delle labbra. Io che ero alla mia scrivania mi spaventai. Aggirai il tavolo, lo raggiunsi, - piantando in asso il cliente che stava dietro la cornetta - gli presi le mani.

“Che succede?” gli chiesi e pretesi di vedere il suo viso.

“Non è nulla. Abbiamo litigato.”

Non volli sentire ragioni. Lo feci sedere al mio posto e corsi a prendere la cassetta del pronto soccorso. Gli disinfettai i graffi, tamponai con della crema le ferite sulla fronte, gli accarezzai le guance. Mi ero chinato su di lui mentre lavoravo al suo volto ed ora eravamo di nuovo a un palmo l'uno dall'altro. E non c'era imbarazzo, nessuno dei due voleva distogliere lo sguardo, nessuno dei due voleva fermarsi. C'eravamo imposti troppi freni ed ora che era arrivato il momento di leggerci l'amore negli occhi, non riuscivamo a chiuderli.

“Perché ti ha fatto questo..?”

“Ha visto un capello sulla giacca.”

“Un-”

“Non è colpa tua.” mormorò, mi prese le mani tra le sue. Le mie tremavano come in preda a convulsioni. “Non è colpa tua, Sigma.”

“Invece sì.” riuscii a biascicare e sentii gli occhi riempirsi di lacrime, il petto gonfiarsi d'aria. Eppure mi sembrava di non riuscire a respirare, che tutto quello che facevo era incanalare aria fino a gonfiarmi del tutto.

“Sigma.”

La sua voce mi sembrò ovattata, tutto quello che riuscii a sentire fu il modo in cui mi chiamava. Con una malinconia nel timbro che mi fece male.

“Sigma, ti prego. Parlami…”

“Non… non posso. Non possiamo più-”

“Non facciamo niente di male, io voglio-”

Gli presi le mani, gliele spostai dalle mie. Lo respinsi con le lacrime che cadevano lungo le gote. Ci vedevo sfocato, la sua figura mi sembrò un miscuglio di colori.

“Ma non possiamo. Tu sei fidanzato.”

Glielo dissi freddamente, con qualcosa nella voce che sapeva di dolore. Mi fermai a singhiozzare, a testa bassa e quando lui cercò di riportarmi fra le sue gambe, contro il suo petto, io mi svincolai da quella stretta e corsi via. Avevo bisogno di respirare e l'aria in quell'ufficio si era fatta rarefatta.

Corsi in strada. M’infilai il cappotto che avevo preso al volo, andai a sbattere contro alcune persone. Una vecchietta mi strillò di fare attenzione a dove mettevo i piedi, mi scusai senza voce.

Percepii i suoi passi dietro di me, mi stava raggiungendo. Voleva riportarmi in quell'incastro di bugie e sorrisi nascosti, ma non potevo permetterglielo, non potevo né volevo più tornare a mentirci, a mentire a me stesso. M'ero detto che non mi importava, che lui per me sarebbe sempre stato irraggiungibile, e allora cos'era che volevo? Cos'era che cercavo ogni giorno nelle sue iridi, nei sorrisi che mi rivolgeva? Non lo sapevo, ma non potevo dargliela vinta, non potevo più farci del male.

Poi accadde che lui mi raggiunse, mi prese dal polso, mi avvicinò. Percepii l'odore del suo corpo contro le narici, sulle dita, sulla bocca. Perché non riuscivo a fare a meno di lui? Perché non riuscivo semplicemente a dirgli di no? Quando si trattava di lui, il resto scompariva. Persino la strada fredda diventava una pista da ballo e lui mi sembrava un cavaliere. M'ero legato a lui così tanto che ora mi pareva impossibile venirne fuori. C'eravamo come fusi e nei suoi occhi lacrimosi, ci rividi i miei.

Mi arresi all'irruenza delle nostre labbra. Lo baciai, mi divorò. Ci volevamo disperatamente, sapevamo di non poter bramare di più che briciole e il mio ruolo in quegli attimi sporadici, mi apparve sempre di più per quello che era in realtà; un amante.

Questo ero per lui, questo era lui per me. Con la sola differenza che se per me lui era il mondo, per lui io ero solo un satellite che gli orbitava attorno. E ci saremmo separati, mi avrebbe lasciato, le sue dita non mi avrebbero più toccato così, non mi avrebbe più amato come se fosse indispensabile. Quella consapevolezza mi fece male dentro. M'arresi a quel dolore cieco che mi trafisse il petto e cercai frammenti dell'amore che speravo di ricevere tra le sue braccia.

“Non lasciarmi anche tu.” mi disse, si arrese anche lui alla forza attrattiva che ci spingeva sempre l'uno tra le braccia dell'altro. “Non mi abbandonare.”

E allora annuii. Gli lasciai prendere da me quello che neppure io sapevo dargli e lo trascinai a casa mia. Mano nella mano, con le dita congelate, i movimenti frenetici. Il tempo di percorrere le scale, le sue mani che non stavano mai al loro posto, mi voleva cercare addosso qualcosa che io non sapevo d'avere. Mi voleva contro di sé, voleva premermi, intrappolarmi contro qualche muro, nutrirsi di me. Volevo lo stesso anch'io. Glielo concessi, mi diedi per vinto, lasciai scivolare le chiavi nella toppa e lui schiuse la porta. Le mie mani tremavano troppo per farlo.

Di allora ricordo solo le sue mani, la smania - quasi divorante - che avevamo di avvinghiarci l'uno all'altro, di bramarmi la bocca, il collo, il petto. Lo desideravo come prima di lui non avevo desiderato nient'altro. S'era barricato in me come una forma d'Arte, mi nuotava dentro le vene e scavava per risalire fino al mio cuore. Mi voleva, mi voleva così tanto che le sue dita non smettevano di afferrarmi, di trarmi a sé, di baciarmi con la bocca e con la lingua.

Ci volevamo con così tanto impeto che faticavo a lasciarlo andare. Gli infilai le unghie nelle spalle, lo avvicinai a me, lo cercai. C'era qualcosa in quella sala che s'era colorato dei sapori dei nostri corpi. Non mi curai di dove sarebbero andati a finire i nostri vestiti, li lanciai e basta. La sua pelle mi parve fatta di gesso. Lo sfiorai con i polpastrelli umidi di sudore, ero congelato, eppure bruciavo tra le cosce come fuoco. Lui mi mise le dita addosso, mi modellò al suo, mi scivolò tra le gambe. Volevo che mi riempisse, volevo - disperatamente - sentirlo dentro di me, come m'era parso d'averlo mesi prima, come lo avevo desiderato per anni. Era sempre stata la mia fantasia più violenta, quella che mi restava in gola e in testa e faticavo - fatico ancora oggi - a tornare alla mia vita dopo che lui l'aveva stravolta.

Poi lui mi entrò dentro, le sue dita umide di saliva mi avvinghiarono i fianchi, mi premette contro le anche, si mosse. Il suo bacino contro il mio, il suo sesso nel mio. Nel guardare in basso scorsi un po’ del suo pube, qualche ciuffo di peluria, scuro come la notte. Lo pregai, lo supplicai di non lasciarmi, di prendermi, di infilarsi più affondo, più dentro. E lui lo fece. Mi entrò nella carne e parve restarci impresso fino alla fine. Sbatteva contro di me, mi faceva dondolare qua e là e lo volevo così tanto che il respiro mi si bloccava all'inizio della gola e non facevo che ansimare.

Il suo nome in mezzo a quell'oceano di frammenti mi parve un'isola su cui rifugiarsi.

Lo dissi con sempre più enfasi, la voce spezzata, ansimante.

Mi venne dentro. Si arrese a me, al mio corpo e si barricò tra le mie gambe, sul mio ventre pieno del suo sesso, mi respirò tra i capelli. Le sue dita cercavano le mie, desiderava toccarmi ancora. Un tocco che scavalcava la carne.

“Ti amo.” gli dissi.

Mi scivolò fuori, come un biascicò di fiato, un respiro smorzato, ma lui non mi udì. S'era sollevato, fumava la sua Winston.

**********



Finimmo per sfrenarci sempre di più. Tutti i limiti che fino ad allora c'eravamo imposti, - un po’ per buon senso, un po’ perché sapevamo che non era giusto - caddero. Lui mi cercava sempre. Con lo sguardo, con i gesti, con le parole. Lavorare era diventata una tortura. Facevamo sì e no un paio d'ore scomposte. Poi lui mi guardava, si leccava le labbra, mi portava in bagno.

Facevamo l'amore contro lo specchio.

Io mi tenevo con una mano alla sua spalla, con l'altra allo specchio. Lasciavamo le impronte dei nostri corpi sopra le porte, sullo specchio, sui vetri, sulla scrivania. Mi possedeva con una dolcezza che si mischiava al desiderio e mi sconquassava dentro fino a soffocare. Tornavo a respirare solo quando lui mi stava vicino, quando era lui a mandarmi aria attraverso la bocca, solo con la sua.

Non facevamo che venire, supplicare, ansimare. A volte squillava il cellulare e lui mi costringeva a rispondere solo per vedermi trattenere i gemiti, mentre le sue dita salivano e scendevano. Mi suonava la pelle come i tasti di un pianoforte.

C'erano attimi in cui lo guardavo e pensavo che nulla avrebbe più avuto sapore quando lui mi avrebbe lasciato. Lui rendeva la mia vita colorata. Quella che era un tempo, grigia e bianca, s'era trasformata in una miscela di colori unici, sgargianti, vivaci. Guardavo la finestra e ci vedevo le ombre dei nostri baci, il riflesso del suo sorriso. Facevo il caffè e mi tornava in mente la sua voce contro l'orecchio.

S'era incastrato nella mia vita e mi stava bene. Lui mi piaceva, mi colmava una voragine dentro che nessuno era mai stato in grado di riempire.


*********



“A che pensi?”

C'eravamo stesi a terra, sulla moquette di casa mia. Eravamo nudi, dalla testa ai piedi, ma non ci importava. Stava giocando con un ciuffo dei miei capelli. Se lo arrotolava al dito e lo lasciava cadere solo per prenderne un altro. M'aveva riempito di sé e dei suoi umori, ma mi piaceva da impazzire l'odore che c'era nella stanza quando finivamo di farlo.

Volevo che mi restasse addosso, come un profumo.

“A nulla.” confessai, accarezzandogli una guancia. Non m'ero ancora abituato alla sua vicinanza, mi sembrava sempre di poterlo perdere da un momento all'altro. Lui invece era tranquillo, sonnecchiava contro il pavimento, e sorrideva pigramente ogni volta che i nostri sguardi si scontravano.

“A qualcosa devi pur pensare, piccolo Sigma.”

“Tu a che pensi?”

Lui ridacchiò piano, mettendo in mostra la fila bianca dell'arcata superiore della bocca. “Io penso a te, sempre.”

Mi sfuggì un sorriso, ma lui si accorse che sembravo perso, più rammaricato dei giorni precedenti, malinconico.

“Ti amo.” mormorai, ma neppure questa volta ebbi risposta.

“Sono proprio stanco.” mi disse, invece. Si rannicchiò sotto il mio collo come un gattino e mi abbracciò. Ignorai il mio cuore dolorante, gli dissi di riposare, lui obbedì.



**********



Accadde un giorno, mentre andavo in bagno, che lo trovai lì e lo sorpresi a cambiarsi le bende. Ne intravidi il sangue luccicante e mi parve vernice.

Lui sollevò lo sguardo, mi sorrise tristemente. “Ti fa schifo?”

Rimasi paralizzato. No che non mi faceva schifo, mi faceva paura. Ero terrorizzato dall'idea che m'era appena apparsa nella testa. Avevo paura di quello che sarebbe accaduto, di quanto avrei sofferto all'idea di perderlo per sempre. Non volevo che si facesse del male, non volevo che stesse male per qualcosa che non potevo contrastare.

“No, io-”

“Lo capirei.” disse, ma fu un soffio così rauco che graffiò persino l'aria. “Anch'io mi faccio schifo.”

“No!”

Mi avventai contro di lui, lo strinsi a me. Sentivo la necessità di tenerlo al mio petto, come avrei fatto con un bambino. Lo guardavo e vedevo il dolore nelle sue iridi e feriva anche me.

“Non dire così.” lo supplicai e mi avventai sulle sue guance. Gli baciai la fronte, il naso, le labbra. Volevo che stesse bene. Gli avrei dato la mia tranquillità se necessario; io ero capace di soffrire, lui no.

“Sigma.” mormorò, mi prese le guance tra le mani, mi soffiò il suo respiro sulla bocca. “Sigma, no, no, no. Non fare così, piccolo. Non soffrire per me, non provare pietà per un morto vivente.”

No-”

“Sì. Tu sei come luce pura, angelo mio. Tu sei ciò che mi fa andare avanti, mi aggrappo a te più di quanto mi dovresti consentire. Mi fai respirare, mi fai battere il cuore, ma se non ci fossi io-”

S'interruppe da solo, non riusciva a dire più nulla e me ne accorsi dai suoi occhi sbarrati. Nelle iridi color nocciola c'era il bagliore di un dolore che mi parve d'aver assaggiato. Gli presi la testa tra le mani, lo premetti a me.

“E’ tutto ok.” soffiai sulla sua bocca, “Tutto ok.”

Anche se cercavo di rassicurare più me che lui. Lo tenni a me, aspettai di sentirlo tornare a respirare normalmente. Solo dopo gli pulii le ferite e presi a rifasciargliele.

“Promettimi che non lo farai più.” lo pregai, gli occhi lucidi. Lui mi accarezzò i capelli, sorrise mestamente.

“Ma certo, piccolo angelo. Te lo prometto.”

Gli baciai le ferite, lui mi baciò la fronte.

“Sei l'unico che tiene a me.”

Deglutii. Non ce la feci a dirgli che io non ero affatto ossigeno. Io ero anidride carbonica.




**********




Dopo quell'episodio, prese a cercarmi sempre più. Cercava la mia approvazione, mi mostrava i polsi asciutti, mi baciava appena ne aveva l'occasione. Mi riempiva ancora di regali, mi accarezzava, mi amava in modo silente, quasi di riflesso all'amore che io davo a lui.

Quello che cercavamo l'uno dall'altro era respiro, ma più ci stringevamo più soffocavamo. Stretti l'uno al petto dell'altro, ci sembrava che l'abisso altro non fosse che un piccolo foro. Chiudevo gli occhi, lasciavo che mi trascinasse giù assieme a lui. Volevo ancora troppo da me, da lui. Lo abbracciavo, respiravo il profumo che mi lasciava sui vestiti. Mi andava bene averlo a frammenti, purché lo avessi.

Una sera, avevo da poco finito di riordinare il casino che ci eravamo lasciati dietro nella smania di amarci, mi suonò il telefono. Vidi che era lui, sorrisi, presi una manciata di vestiti da terra, li portai in bagno e risposi.

Amore-”

“Parlo col signor Sigma?”

“Chi è? Dov'è-”

Mi disse che era un'infermiera, che lui era finito in ospedale e che continuava a ripetere il mio nome, che voleva che mi chiamassero. Voleva me, volevano che andassi in ospedale, che prendessi il posto di-

Lasciai cadere i vestiti sporchi per terra, ruzzolai in camera, m’infilai le prime cose che trovai e uscii di corsa.

Raggiunsi l'ospedale.

Mi feci le corsie col cuore in gola, la sciarpa mi pesava sul collo come un cappio. Mi avvicinai alla receptionist, chiesi di lui. Lei mi guardò storto, mi domandò sgarbatamente chi fossi, mi limitai a dirle che era importante. Mi indicò la stanza alla fine del corridoio, biascicò qualcosa riguardo gli orari di visita, ma io non ascoltai neppure una parola, me la lasciai alle spalle ed entrai nella stanzetta.

Lui era lì. Sdraiato, il bip caotico della macchinetta attaccata al cuore mi pareva il solo modo di contare il tempo. Dovetti aggrapparmi al lato della porta, impormi di respirare. Tutti i miei incubi peggiori si erano appena risvegliati. Lui era tra le lenzuola, bianco come il cuscino, con la guancia livida e i polsi legati. Legati alle sbarre del lettino. I capelli disordinati sul guanciale, il respiro lento.

“Che cazzo ci fai qui?”

La voce di Chuuya mi fece sollevare lo sguardo. Mi riportò con i piedi a terra in un secondo. Se ne stava accanto al letto, sulla sedia di plastica dedicata agli accompagnatori - agli accompagnatori veramente importanti - e guardava me. Mi guardava come se avessi avuto un'etichetta sulla fronte con scritto su “traditore.”

Mi mancò il respiro. Conficcai le unghie nel legno della porta, abbassai lo sguardo.

“Mi dispiace, io ho saputo e-”

“Vattene.” mi ordinò, un disprezzo nella voce che non gli avevo mai sentito. Seppur mai cortese, con me era sempre stato monotono, mi dedicava la stessa attenzione che avrebbe dedicato ad un lampione a bordo marciapiede. Ma ora, ora mentre teneva tra le dita quelle pallide di lui, mi parve che nei suoi occhi ci fosse una rabbia cieca, dolorosa. Mi faceva male. Mi faceva male ogni volta che mi guardava, che mi parlava.

Io significavo per quel ragazzo, io ero per lui più di quanto Chuuya sarebbe stato mai. M'assali una rabbia dolorosa, una vampata che mi fece tremare le gambe e mi scomparse la mente di foschia. Arretrai, fui sul punto di andarmene quando lui sussurrò qualcosa. M'arrestai sulla soglia della porta, allibito. Dentro di me, una gioia violenta si stava facendo strada fino alla gola.

“Ha detto…”

Mi voltai. Non finii neppure la frase che lui stava già ripetendo il mio nome, in un biascico che mi scaldò dentro più del Sole ad Agosto.

Chuuya mi rivolse uno sguardo carico d'astio. Si mosse lesto, allontanò la mano, mi sorpassò con uno spintone. Barcollai, ma non mi mossi.

“Sei uno sfascia famiglie." mi disse e se ne andò senza guardarsi indietro.



********




Le parole di Chuuya mi restarono dentro come un macigno. Che intendeva dire? Cos'ero io? Uno sfascia famiglie. Quell'epiteto usato contro di me, per umiliarmi, per mettermi di fronte a me stesso, mi parve una pugnalata.

Uno sfascia famiglie, aveva detto, ma Dazai mi aveva mi aveva giurato che altro non ero che un ragazzo che lo stava aiutando, una specie di angelo per la sua anima. Eppure, per il mondo, io altri non ero se non questo. Uno sfascia famiglie, con l'unica differenza che Chuuya non era la sua famiglia e che bambini di mezzo non ce n'erano.

Lui si svegliò qualche giorno dopo. Non era finito in coma per pochi istanti, i medici lo avevano salvato e le ferite erano state ricucite come meglio erano riusciti. Anche se non ero credente, mi riscoprii a pregare ogni divinità esistente affinché non me lo portassero via. Volevo stare con lui, desideravo che non mi lasciasse mai più.

Alla fine, si risvegliò. Io gli ero accanto, mentre Chuuya non s'era più fatto vedere. Si era limitato a visite sporadiche, ma io non l'avevo mai visto. Le infermiere mi avevano comunque continuato a guardare storto, almeno finché lui non aveva aperto gli occhi e la prima cosa che aveva fatto era stata baciarmi. Aveva temuto di perdermi per sempre, mi aveva rivelato mentre io non riuscivo più a trattenere le lacrime e lo abbracciavo con un impeto che non mi apparteneva. Quando si trattava di lui, - mi resi conto - tutto finiva per fondersi. Non c'erano più confini, tutto diventava labile, sfocato. Per me lui era il bene e il male era solo quello che provavo quando stavamo distanti.

Lo portai a casa mia, me ne occupai personalmente. Mi pareva così fragile in quei giorni che mi tremavano i polsi ogni volta che mi svegliavo e lo trovavo vicino. Lui era finito in ospedale, ma non parlava mai del motivo per il quale lo aveva fatto. I tagli sui suoi polsi erano più che evidenti, ma non mi disse mai perché lo aveva fatto.

Dopo cena si metteva sul balcone, fumava guardando giù. Mi riscoprivo a sbirciarlo ansioso, mentre lavavo i piatti. Avevo paura, mi sentivo responsabile per lui, tremavo ogni volta che dovevo lasciarlo da solo anche in bagno. Ero diventato più magro, più esile. Quando facevamo l’amore lui mi afferrava i fianchi e storceva la bocca in una smorfia. Non mi diceva granché. Avevo capito che era un tipo solitario. Si metteva a guardare la tivù, fissava fuori dalla finestra, beveva tazze infinite di cioccolata calda.

Adorava quando potevamo passare il pomeriggio intero sul divano a guardare le sue serie criminali preferite. Non sapevo dirgli di no, finivo sempre per rimandare i miei impegni, mettevo da parte le scadenze, fissavo proroghe. Non ci presentavamo in ufficio da settimane. Lavoravo da casa, col portatile. Conti, fatture, movimenti azionari.

Dazai non voleva vederli neppure da lontano. Se solo gli proponevo di adocchiare qualche conto, lui si alzava, biascicava qualche scusa, mi lasciava nella stanza e spariva in bagno.

Capivo che stavamo andando a picco, ma lo ignoravo. Avevo Dazai con me, perché avrei dovuto preoccuparmi? Non capivo la gravità della sua malattia. E poi mi pareva stare bene.

Un giorno mentre preparavo il pranzo, Dazai si sentì male. Mi chiamò con voce flebile, mi prese le mani.

“Devi promettermi che mi farai cremare e butterai le mie ceneri in mare. Promettimelo, Sigma.”

Restai paralizzato, mormorai parole senza senso, scivolai fuori dalla stanza con un senso di soffocamento in petto. L’unico essere che mi era morto tra le braccia era il mio husky, Kari. Era un bellissimo esemplare e aveva vissuto la sua vita finché non le era arrivato un brutto male. M’era scivolata via dalle braccia e avevo pianto così tanto che credevo l’avrei raggiunto. Non sopportavo il dolore. Non sopportavo qualsiasi tipo di dolore emotivo. Eppure, ci sguazzavo dentro. Mi aggrappai allo stipite della cucina, strinsi forte il bancone, strinsi e strinsi finché i contorni della mia casa non tornarono a farsi colorati, visibili e ben fermi. Solo allora ripresi a respirare.

Non potevo.

Non potevo ripetere quell’esperienza. Non sapevo come, ma Chuuya era stato in grado di far sopravvivere Dazai per tutto quel tempo. Doveva continuare a farlo, poco mi importava se il mio cuore sarebbe finito come una polpetta. Tornai in camera, mi aggrappai alla parete. Presi fiato. Dazai stava nel letto, il respiro gracile, i capelli castani sparsi sul cuscino come ramoscelli spezzati.

“Tesoro.” chiamai. Sollevò il viso, mi scrutò come se avesse davanti un fantasma. “Amore.”

“Amore, Dazai, tesoro mio, ascoltami.”

Ero dolce oltre ogni limite. Mi facevo schifo. C’era qualcosa dentro di me che si agitava e contorceva ogni volta che provavo a mettermi in pace con me stesso.

“Tesoro mio, tu devi tornare da Chuuya. Devi andartene.”

Glielo dissi con così tanta dolcezza che Dazai mi guardò smarrito. Non capiva. Sbatté le palpebre, mi chiese di ripetere. Lo feci, gli spiegai che non potevamo restare lì, che lui doveva andarsene, che volesse o no.

Dazai balzò a sedere, lo guardò allucinato. “Ma che dici?” mormorò. Le lenzuola gli si erano incollate addosso e sembravano tante liane bianche. “Chuuya? Sigma, che stai dicendo?”

Scossi la testa, non lo stetti a sentire. “Vai via, Dazai, vattene da casa mia! Vai! Vai!”

Mi avventai su di lui, raccolsi le sue cose da per terra, gliele lanciai addosso.

“Vattene da casa mia! Vattene!”

Lui provò a raccattare qualche maglietta, mi guardò come si fissa un matto, arretrò.

“Sigma-”

“Vattene!”

Lo spintonai fino alla porta, ce lo chiusi fuori senza neppure permettergli di acciuffare le scarpe. Solo dopo che il rimbombo della porta si udì dentro tutto il palazzo, mi permisi di scivolare con la schiena contro il muro. Rannicchiai le ginocchia al petto, mi creai una mia prigione personale, con le braccia davanti al viso a farmi da maschera. E piansi, piansi finché tutto non si fece nero e le immagini di me e Dazai smisero di balenare davanti ai miei occhi.

Piansi finché non mi uscì sangue al posto delle lacrime.




****************



Trovai lavoro come segretario in un altro ufficio. Il mio curriculum era buono, lo studio legale dove mi assunsero era molto rinomato. Mi limitavo a rispondere al telefono, prenotare appuntamenti, stare dietro ai documenti. I miei colleghi erano gentili. Mi invitavano a bere con loro, mi lasciavano qualche caramella sulla scrivania quando lavoravo fino a tardi, salutavano sempre con un bel sorriso. Non gli diedi mai troppa corda. Ero ancora distrutto dalla fine della mia convivenza con Dazai, passavo le giornate lì, cercando di non pensare allo scorrere del tempo, là fuori.

Una sera riuscirono a convincermi ad andare con loro ad un pub. Io che odiavo il cibo dei fast food, le bevande alcoliche, la confusione. Accettai. Non volevo tornare a casa da solo. Era il quattordici Febbraio. Mi barricai nel mio cappotto nero, misi la sciarpa, camminammo fino a raggiungere un piccolo posticino sulla parte est della città. Non ci avevo mai messo piede prima, ma trovai il posto decente. C’era musica leggera, odore di zucchero e patatine fritte. L’intero locale era addobbato per il White Day, ma c’erano pochissime coppie ai tavoli. Un cuore di cartapesta mi sfiorò la testa quando presi posto. La vetrina lasciava entrare fasci di luce giallastra, faceva caldo. Mi tolsi la sciarpa, il cappotto. I ragazzi iniziarono a chiacchierare, ordinarono qualcosa da mangiare, mi chiesero di fare lo stesso. Dissi che andava bene qualsiasi cosa avessero preso anche loro.

La cameriera, una bassina dall’aria imbronciata, sparì in cucina e il chiacchiericcio riprese. Ne approfittai per guardarmi attorno. Non c’erano molte persone. Una coppia di mezz’età se ne stava nell’angolo della stanza, accanto alla porta dei bagni. Il signore sorrideva mentre lei diceva qualcosa e gesticolava nervosamente. Ad un certo punto, lui le riempì il bicchiere di spumante e lei si chinò a baciargli la guancia. Mi ritrovai a pensare che fossero carini. Sorridevano, cinguettavano come una coppia di neosposini. Spostai lo sguardo giusto prima che se ne accorgessero. I tavoli erano distribuiti solo lungo i lati, al centro la stanza era rettangolare, c’era un bancone poco distante dai nostri posti e una porta che dava sulla cucina. Ogni tanto si apriva e ne emergeva la bassina con un vassoio tenuto in bilico su un palmo, e il libretto delle ordinazioni che faceva capolino dalla tasca del grembiule rosso.

Su uno sgabello, di spalle a me che lo guardavo, c’era un uomo. Sedeva con le gambe divaricate, la schiena ricurva sul bancone. Aveva un bicchierino davanti a sé e di tanto in tanto se lo portava alla bocca, per poi sbatterlo sul tavolo quando finiva il suo contenuto.

Indossava un lungo cappotto beige, la cintura che gli arrivava ai fianchi era lasciata penzoloni. Batté il bicchierino, la cameriera sbuffò spazientita. Lasciò le nostre ordinazioni, ci diede le spalle e andò dietro al bancone. Non sentii ciò che gli diceva, ma la vidi stringere il collo di una bottiglia e piazzargliela davanti. Dall’espressione scocciata che aveva in viso dedussi che quella scena andava avanti da parecchio.

Lui disse qualcosa di rimando, mentre lei si voltava e faceva sventolare al vento la sua chioma scura, stretta in una coda alta. Gli fece un gestaccio e tornò in cucina. Tornai con lo sguardo sull’uomo. Si era voltato e ora riuscivo a vedergli per metà il volto. Sorrideva sfacciato, scuotendo la testa. Sembrava stanco, come qualcuno che non sa perché è in un certo posto.
Sentii l’impulso di raggiungerlo. Prima che riuscissi a frenarmi, le mie gambe avevano già deciso per me. Mi sollevai e gli occhi dei miei colleghi caddero tutti su di me.

“Dove vai?” chiesero.

“Uhm, vado ad ordinare un altro drink.”

Loro annuirono, tornarono a borbottare. Attraversai la stanza, ben attento a non inciampare come mi capitava di frequente. Raggiunsi lo sconosciuto, sedetti allo sgabello accanto al suo. Battei la mano sul bancone, aspettando la cameriera.

“Che prende?” mi chiese lei, quando mi ebbe raggiunto. Aveva una ruga al centro della fronte, occhi truccati di nero.

“Un Highball.” mormorai.

Highball? Naah, se più un tipo da Sours, tu. Non è vero?”

Mi voltai di scatto verso lo sconosciuto. Il cuore mi ruzzolò dentro allo stomaco, qualcosa mi chiuse la gola, un sentimento distruttivo si fece largo in me quando lo vidi in viso.

“Dazai.” mi scivolò fuori dalla bocca, come un sasso.

“Ciao, angelo mio.”

Rimasi sbigottito. Me l’ero ritrovato davanti dopo mesi, ma non era cambiato affatto. Aveva in viso sempre quell’espressione bella, le rughe nelle parti più fini, le labbra rosse.

“Allora? Che vi devo portare?!”

Il tono spazientito della cameriera mi fece sobbalzare. Spostai lo sguardo da lui, mormorai qualcosa a quella donna che sbuffando si mise a prepararmi quello che avevo chiesto. Nessuno parlò. Me lo piazzò davanti sbattendolo sul bancone e facendolo strabordare un po’.

Deglutii. La cameriera si allontanò. Mi tremavano le mani. Le serrai attorno al bicchiere appiccicoso di alcool. Me lo portai alla bocca, bevvi.

“Buono?”

Per poco non affogai. Dazai mi fissava senza battere ciglio. Il suo bicchiere era di nuovo vuoto. Ignoravo quando lo avesse mandato giù. D’istinto gli porsi il mio. Lui rise, lo afferrò e lo mandò tutto giù senza levarmi gli occhi di dosso.

“Che ci fai qui?” mormorai quando mi restituì il bicchierino vuoto. Lui fece un verso di gradimento, scrollò le spalle.

“Mi mancavi.”

Sbarrai gli occhi. Le sue parole ci misero qualche secondo ad arrivarmi alle orecchie. “Che cosa?!”

“Mi manca fare l’amore con te.” ammise.

Mi affogai con la mia stessa saliva. Dovette battermi qualche colpo sulla schiena mentre metà della sala si girava a guardarci. Sentivo gli occhi dei miei colleghi addosso. Amavano spettegolare e io gli avevo appena dato un argomento assai succoso.

“Sei impazzito? Ti ho cacciato a calci da casa mia.”

“Mi piacciono i ragazzi che sanno quello che vogliono. Imperterriti.”

Scossi la testa. “Dazai.” chiamai. Mi faceva uno strano effetto dire il suo nome. Scombussolava qualcosa che avevo nella pancia, mi faceva il solletico sotto pelle.

“Come va il lavoro? Ti trattano bene?”

“Come sai che-” mi bloccai. La mia testa fece due rapidi calcoli. Quando mi avevano assunto mi avevano chiesto i recapiti telefonici dell’agenzia dove lavoravo prima. “Sei stato tu, vero?”

Scrollò le spalle. Il cappotto gli stava grande, doveva essere dimagrito ancora. “Gli ho solo elencato le tue eccellenti qualità.”

“Dazai…”

“Ti hanno preso per il tuo talento, non per le mie raccomandazioni.”

“Non è questo che-” sospirai. Mi aggrappai al bicchierino e sbattei sul bancone. La cameriera sembrò non farci caso. “Cristo.”

Battei ancora ma lei mi lanciò un’occhiataccia e riprese a sistemare un tavolino già perfetto. Dazai sorrise, mi strappò il bicchiere dalle dita e batté il fondo sul tavolino.

La bassina roteò gli occhi al cielo ma accorse.

“Basta essere decisi.” si giustificò davanti al mio viso sbalordito. La cameriera prese un due bicchierini puliti, ci rovesciò dentro qualcosa di rossastro e ce li porse. La bottiglia che aveva messo accanto a Dazai, era già finita. Se la portò via con uno sbuffo.

“Dazai, io… mi dispiace per quello che ho fatto. Volevo solo che stessi bene.”

“Lo so.”

Aveva la testa chinata sul bicchiere, i ciuffi castani dei suoi capelli pendevano in giù come fili di seta da una tenda. Riuscivo a intravedere metà del suo sorrisetto, i denti che erano rimasti fuori, la punta del suo naso bianco.

“Mi dispiace.” ripetei, la voce strozzata. Lui mandò giù il suo Whisky, rovesciando il collo all’indietro. Una cascata di capelli scuri, lo seguirono, scoprendogli il viso.

“Lo so.”

Mi sentii pizzicare gli occhi. Tirai su col naso, mi pulii con il bordo della manica. Dazai si voltò, mi prese il mento tra quelle sue dita sottili. Mi strinse piano. I suoi tratti felini, per via delle lacrime, mi parvero sfocati.

Fece scivolare il pollice sulla mia gota. Mi pulì una lacrima. “Non piangere.”

“Ti amo anch’io” soffiai.

Dazai lasciò andare il mio viso, mi sfiorò le labbra. Aveva negli occhi qualcosa di lucido. Una specie di patina che sembrava vetro.

“Lo so, angelo mio.”

“Non chiamarmi così, io non sono-”

Mi premette l’indice sulle labbra, mi fece schiudere gli occhi. Si chinò su di me veloce come un rapace, intrappolò le mie labbra con le sue. Un tocco delicato, appena un accenno di tutto quello che avevamo passato, che ci eravamo fatti.

Si staccò, ci guardammo. Un’altra lacrima mi bagnò la guancia.

“Dazai…”

Si alzò, pescò dal portafogli una banconota, la poggiò in mezzo ai nostri bicchieri. Si rimise il portafogli in tasca, mi sorrise.

"Angelo mio. Prenditi cura di te.”

Sparì oltre le porte di vetro prima ancora che potessi alzare una mano per fermarlo. Quando tornai al tavolo con i miei colleghi, quelli sembravano in fermento.

“Tu conosci il famoso Dazai Osamu?” mi fece Win, uno dei receptionist.

“No, è solo…” sospirai, non riuscivo a far cadere altre lacrime. Vivevo nell’illusione di vederlo rientrare da quelle porte a vetri, da un momento all’altro. Sollevavo la testa ogni volta che qualcuno varcava l’uscio, per poi riabbassarla deluso quando mi accorgevo che non era lui. “E’ solo una vecchia conoscenza.”

“Ma ti ha baciato!”

“Avevo una cosa nell'occhio."

Poco prima di andarcene, la cameriera mi bloccò da un polso. Mi porse un bigliettino fatto di carta assorbente. Lo presi confuso e lo schiusi.

Riconobbi la grafia sottile, i kanji lunghi e larghi.

“Watashi wa itsumo anata o aishimasu, watashi no tenshi.”

-Ti amerò per sempre, angelo mio.-

Strinsi il pugno così forte che ci restò il segno delle mie unghie sopra.




********



Avevo scordato di prendere la Yakisoba. Ero sceso in fretta e furia, raccomandando Kai di stare attento al salmone al forno, di non farlo bruciare tutto. Lui aveva annuito, si era messo accanto ai fornelli e, di tanto in tanto, alzava lo sguardo dal testo di Dostoevskij e controllava il forno.

Ero sceso fino al minimarket più vicino al centro, con la gola in fiamme e le guance rosse. Ero in ferie, era la mattina di Natale, speravo di trovare aperto almeno un piccolo locale e per fortuna così era stato. L’avevo trovato solo dopo una ventina di minuti, ma era stato un vero e proprio miracolo natalizio. Mi ero fiondato tra le corsie, cercando i noodles.

Ero arrivato giusto tra i pacchetti quando una mano si sovrappose tra me e lo scaffale. Vidi le sue dita agguantare il pacchetto e lo scaffale dietro, vuoto. Sbarrai gli occhi, provai irragionevolmente a fermarla. Strinsi quel polso sottile tra le dita e gli bloccai il percorso.

“Signore per favore, posso-”

Sollevai il viso, mi si schiuse la bocca. Se non avessi avuto la mascella ben attaccata al viso, sono sicuro che l’avrei vista cadere a terra con un tonfo. Davanti a me, una chioma aranciata incorniciava un viso magro, occhi grandissimi.

“Chuuya?”

“Che ti serve?”

“Io…” balbettai, confuso. “Nulla.”

Mi gettò un’occhiataccia. “Allora mollami il braccio.”

Lasciai andare di colpo il suo polso, arrossendo. Non mi ero reso conto del mio gesto. Fece per andarsene, mise la Yakisoba nel sacchetto e si avviò verso il reparto frutta.

“Aspetta.”

Gli presi di nuovo il braccio, lo fermai. Chuuya provò a disfarsi della mia morsa, ma stavolta non glielo permisi. Non l'avevo più visto dalla volta in ospedale. Era diventato più sottile, meno arrabbiato.

“Che cazzo vuoi?”

“Io… ti serve proprio quella Yakisoba?” gli chiesi, gettando un’occhiata alla borsa che si portava attaccata al braccio. “È l’ultima e vorrei farla oggi.”

Fece spallucce. “Potevi prenderla prima.”

“Eddai!” supplicai. “Io e Kai mangiamo Yakisoba tutti gli anni e questo è solo il terzo anno-”

"Anch'io devo mangiarla. Da soli si fa prima a mangiare Yakisoba.”

“Sì, questo lo so, ma-” mi arrestai. Aggrottai la fronte. “Da soli?

Chuuya mi guardò dubbioso, un lampo bianco serpenteggiò nei suoi occhi azzurri.

“Sì.” decretò, staccandosi dalla mia presa con uno strattone. “Da solo.”

“E Dazai?” mi sfuggì dalla bocca prima che riuscissi a frenarmi. Erano passati tre anni dall'ultima volta che lo avevo visto, ma la sua presenza mi abitava dentro.

“Dazai?”

Si rabbuiò. Lo vidi chinare il capo, sfiorarsi il braccio. Improvvisamente pareva essere teso.

“Che succede? Vi siete… lasciati?”

“Non lo sai proprio?”

Sentii montare l’ansia. Un groviglio nello stomaco che mi fece venire le palpitazioni. Gli presi la mano, lo scossi.

“Sapere che? Che cosa?"

Chuuya chinò il capo, una cascata di ciocche aranciate gli finirono sul viso. “Sigma, Dazai si è suicidato. Tre anni fa.”

No. Non può essere.”

“Mi dispiace, credevo che lo sapessi.”

No, non può essere.”

Gli lasciai di scatto la mano. Non ci credevo. Non poteva essere… Dazai non poteva essere… Tutto attorno a me si fece scuro. Mi aggrappai ad uno scaffale, strinsi il ferro cercando di tornare alla realtà. Non sentii dolore, non sentii rabbia. Fu come essere sommerso dalle onde. Un oceano ghiacciato che mi si riversò addosso, stordendomi. Poi, qualcosa dentro di me, capì.

Sbarrai gli occhi, strinsi la mano di Chuuya. “Che giorno?” mormorai.

Mi guardò senza capire. Pareva svuotato di tutto quello che era stato un tempo.

“Che giorno che?”

“Che giorno si è…”

Non riuscivo a dirlo. Chuuya però, aveva capito. Distolse lo sguardo, lo puntò su una cassa di bottiglie poco distante da noi.

“Il quattordici Febbraio di tre anni fa.” disse.

No. No, no, no, no. Tre anni fa, il quattordici Febbraio. Il pub, il White Day, il Whisky. Il bigliettino. Mi sentii pervadere da una sensazione di malessere, mi aggrappai con forza a Chuuya.

“Stai bene?” mi chiese, aiutandomi a stare in piedi. Annuii.

Insistette per accompagnarmi in bagno. Mi aiutò a lavarmi il viso, mi bagnò i polsi. Si assicurò che riuscissi a camminare prima di tornare tra le corsie. Anche il commesso, - un anziano signore in divisa bianca - volle sapere se stessi meglio. Li ringraziai della premura, guardai Chuuya pagare. Uscii. La strada era ancora più fredda, ancora più deserta. Non c’era un'anima in giro, le insegne erano spente, una musica leggera veniva dalle case. Mi venne la nausea.

“Sigma.”

Mi sentii tirare indietro. Chuuya mi comparve davanti. Mi stava tendendo un pacchettino, lo afferrai senza capire cosa fosse.

“Cos’è?” chiesi.

Yakisoba.” mi rispose, scrollando la testa. Riconobbi il suo cappotto beige solo dopo che lo ebbi guardato all’aperto. Era di Dazai. “Prendila tu, mangiala col tuo fidanzato.”

“Grazie.” mormorai, avevo un sapore amaro in gola.

“Non ce l’ho mai avuta con te.” aggiunse, giocherellando con l’orlo del cappotto. Gli calzava grande, sembrava sguazzarci dentro. Vide che lo stavo guardando. “Lo vuoi?”

“Cosa? No-”

“Se lo vuoi prenditelo, non lo voglio più.”

Se lo sfilò, restò con la felpa e niente più. Me lo porse e vedendo che non lo volevo prendere, me lo lasciò tra le braccia.

“Congelerai.” gli dissi, provando a restuirglielo. Lui scosse la testa con irruenza.

“Abito qui dietro.”

“Prendi almeno il mio…”

Ma lui sorrise, mi diede le spalle.

“Buon Natale, Sigma.”

Poi s'incamminò dalla parte opposta della città, lasciandomi sul marciapiede come un cretino, col cappotto di lui stretto al petto e le lacrime sulle guance.

Me lo strinsi al petto, me lo portai al naso, odorai il suo profumo.

Camminai per la città, senza preoccuparmi più della Yakisoba che ancora tenevo in mano. Vagai per il parco, attraversai la strada senza guardare. Raccolsi qualche fiore, andai al cimitero. Era vuoto, il cancello chiuso. Lo spinsi finché non cigolò e si aprì. L’odore di fiori secchi mi pizzicò il naso, assieme a quello della polvere, della terra bagnata, dell’umido. Faceva freddo, mi strinsi il cappotto al petto, procedetti.

Le lapidi erano schierate tutti in avanti come stoccafissi. Falciai l’aria con i miei passi pesanti, la schiena ricurva. Cercavo il suo nome tra la gente. Risalii le scale, andai sotto, girai fino a quando non mi cedettero le gambe e caddi in ginocchio sul terreno.

Scoppiai a piangere, mi premetti il cappotto sopra la bocca, sperando di smettere di respirare, di singhiozzare. Venne la notte, si fece buio, la luna sbucò sul cielo. Non riuscivo ad alzarmi. Mi ero sdraiato su un fianco, vedevo le lapidi in orizzontale. Il cellulare mi squillava da quando ero arrivato al minimarket, dopo un po’, aveva smesso. Forse si era spento, non mi importava. Non m’importava neppure di Kai che mi aspettava a casa. Lo avevo conosciuto qualche anno prima, al lavoro. Mi era piaciuto, ci eravamo frequentati per un po’. Pensavo che sarebbe stato una dolce compagnia. Aveva un indole gentile, poco testardo, molto accomodante. Odiava contraddirmi, mi diceva sempre di sì. Ma non era Dazai. La forza di quella constatazione mi arrivò tutta insieme, mi cadde addosso con la stessa violenza di un fulmine.

Mi scosse.

Mi alzai. Le ginocchia non mi tenevano su, erano molli. Mi costrinsi a tenermi dritto. Non mangiavo da un giorno intero. Non avevo neppure fatto colazione.

Barcollai, lasciai il cappotto lì per terra, sporco di terra e pioggia.

Camminai in avanti, senza guardarmi indietro, raggiunsi le scale. Poi fu come se una luce accecante mi avesse colpito in pieno viso. Mi voltai.

Era lì.

Era lì, a qualche passo da me, coperto dall'ombra del cimitero, e nel vedermi, sorrise.

Gli andai incontro, incredulo. Mi parve un’allucinazione, mi sentii come attraversare da una scarica elettrica. Dazai mi prese tra le mani, mi strinse il viso. Un tuono squarciò il cielo.

“Sei qui.” soffiai, incredulo. Mi tremavano le labbra, le mani, le gambe. Feci scivolare le mie dita su tutto il suo corpo, gli sfiorai la bocca, il naso, gli occhi. Lo sentii palpitare sotto il mio tocco. “Sei qui.”

Scoppiò a piovere, goccioline bagnate mi punsero il viso, gli bagnarono i capelli. Avvicinò le labbra alle mie, sorrise ancora.

“Ciao, angelo mio.”




🍲.°•🩹°.•🧣°.•☕




Spazio autrice:

Sono anche stata clemente hahha. Rispetto ai miei standard è pur sempre allegra :) (chi ha letto "Il mondo è crudele" sa.)

Coppia che devo ammettere mi piace particolarmente. Trovo Sigma perfetto. È un misto di così tante patologie psicologiche che mi riempie di idee. E chi se non Dazai che SPOILER 5° STAGIONE ANIME!!! lo fa danzare con sé, stretti petto a petto, con una mano sul suo fianco????

Era nata come una breve os, piccolissima, come sono arrivata a scrivere 11800 parole non lo so neanche io. O forse sì. È che dopo un po' ti affezioni e i personaggi parlano e tu gli vuoi bene, li lasci parlare. Perciò, miei angioletti ecco qui.

Grazie a chi è arrivato fin qui, vi siete meritati tanti dei miei cuoricini gialli, perciò eccoli💛💛💛💛💛

Alla prossima,

Lilla❤️

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