Capitolo 28: L'ospitalità degli Gnomi (1/2)

Le case degli gnomi erano raggruppate a grappoli, come se fossero nate dal terreno stesso; erano tozze e larghe, proprio come i loro proprietari, ed erano dipinte di un rosso molto scuro, tendente al bordeaux. Le finestre delle case erano in legno di sambuco e, più Rose si guardava attorno, più si allungava la lista di oggetti di falegnameria: vide gnomi con dentiere di legno, bambini che giocavano tirandosi una palla di legno, e altri ancora che indossavano delle armature di legno.

Uno degli Gnomi, Martin, si era offerto di ospitarli nella sua casa. Era piuttosto ciarliero se paragonato ai suoi compagni, che preferivano i borbottii alle conversazioni. Nonostante l’apparenza, però, gli gnomi erano molto colti, e c’era una biblioteca in ogni villaggio. Quello era l’edificio più curato, decorato da motivi spiraliformi, che risalivano lungo le colonne e ricoprivano le pareti dell’intera struttura. Se Rose si fosse messa a percorrere le spirali con un dito, sarebbe arrivata alla fine qualche mese dopo.

«Non ci sono donne fra voi?» chiese Rose a Martin, una volta che ebbero raggiunto la sua casa.

Lo gnomo, che si era tolto il berretto a punta e lo aveva depositato su una cappelliera, si grattò la testa calva.

«Donna? Cos’è “donna”?»

«Beh. Io sono una donna» mormorò Rose. «Non ti sei accorto che sono diversa da Wulfric? Wulfric è un uomo.»

Lo gnomo fece scorrere lo sguardo da lei a Wulfric più volte, sempre più perplesso. Cominciò a passarsi le dita nella barba con fare nervoso. Gli gnomi non amavano essere impreparati su un argomento.

«Non vedo tanta differenza» concluse infine. «Gli Gnomi sono solo Gnomi, e per gli umani dev’essere lo stesso.»

«E com’è che venite al mondo?» indagò Rose, sempre più incuriosita. Era una delle domande che si era sempre posta sulle fate, ma che aveva sempre evitato, un po’ per eccesso di pudore nei loro confronti, un po’ perché temeva che si sarebbero offese.

«In che senso?»

«Rose, ti sembra questo il momento?» gemette Wulfric, nascondendosi il viso dietro una mano. «Sono Gnomi, per gli dei! Nasceranno sfregando fra loro le barbe o qualcosa del genere! Se cominci a farti certe domande sulle fate, si chiude la porta della ragione e si apre il portone del caos. E’ meglio non sapere.»

Rose lo soppesò per un breve istante, poi tornò a rivolgersi a Martin.

«Allora?»

Wulfric soffocò un brontolio di frustrazione, mentre si toglieva ciò che restava del suo mantello e depositava i resti delle armature in un angolo. Erano andati a recuperare sia la sua che quella di Rose: speravano che i Nani sarebbero stati in grado di aggiustarle come si doveva.

«Martin, dov’è il bagno? Mentre voi siete intenti a chiacchierare del sesso degli angeli, io preferisco darmi una pulita. Ho ancora addosso lo sporco della battaglia» sbottò il ragazzo, grattandosi una guancia incrostata di terra. In effetti la sua somiglianza con un gigante di roccia non era mai stata tanto vivida come in quel momento. Solo gli occhi azzurrini erano testimoni della sua natura umana, o meglio, di Mundbora. Rose doveva ancora abituarsi a vedere il suo occhio destro di un azzurro tanto intenso da accecare, malgrado lei stessa condividesse quel tratto.

Una volta che furono rimasti soli, Martin indicò a Rose una sedia di legno decorata da un motivo floreale. La ragazza si accomodò su quel mobile dalle gambe tozze, sentendosi come se fosse tornata all’asilo. Nella casa di Martin bisognava procedere a testa bassa, e Wulfric continuava a sbattere la fronte sugli stipiti delle porte. Rose ebbe la conferma che il ragazzo era appena entrato nel bagno interrato quando avvertì un tonfo seguito da un’imprecazione.

Martin si avvicinò alla cucina a misura di Gnomo e tolse il bollitore dalla stufa. Dal cerchio di ghisa centrale fuoriuscivano le punte delle fiamme, che guizzavano in direzione dell’apertura di scarico sul soffitto. Servì a Rose dell’infuso ramato, dal quale proveniva un intenso profumo di cannella, e lo accompagnò con un goccio di liquore. La ragazza lo osservò in silenzio, affascinata dal vedere tante cose che non conosceva in una sola volta. Sapeva che le maniere delle fate imitavano quelle degli umani, ma non avrebbe mai pensato che si sarebbe sentita tanto a casa nell’Oltremondo. Se l’era immaginato come un luogo spaventoso, e invece era lì, seduta in una cucina confortevole, intenta a sorbire dell’infuso e a farsi raccontare una storia, come una bambina.

Martin si accomodò di fronte a lei e sorrise. «Dunque tu vuoi sapere come nascono gli Gnomi.»

Rose annuì, mentre prendeva la tazza in fine porcellana e se la portava alle labbra. La assaggiò, e restò sorpresa nell’avvertire un sapore totalmente diverso da quello che si era aspettata: ciliegie. Anche i sapori, lì, erano rossi.

«A dire il vero, ogni specie di fata nasce in modo diverso. Per esempio, le Ninfe nascono dall’acqua o dall’erba. Gli Gnomi, invece, prendono vita dal legno» raccontò Martin. Corresse il suo infuso con una dose molto più generosa di liquore rispetto a quella riservata a Rose, e ne bevve un sorso, facendo schioccare le labbra carnose. «Delizioso.»

«Dunque gli Gnomi prendono vita dal legno» ripeté Rose, facendo roteare l’infuso nella tazza. «E come succede?»

«Il corpo delle fate prende lentamente forma nell’elemento che è più affine alla loro specie, in una sorta di partenogenesi. Le fate si creano da sé, e forse è per questo che siamo tanto legate al luogo della nostra nascita. Credimi, io ho provato a vivere ad Avalon per un po’, ma non ci sono riuscito. Mi mancava talmente casa! Stare lontano dall’Oltremondo mi indeboliva, sia fisicamente che spiritualmente. Ero quasi trasparente quando sono tornato qui, e mi ci è voluto un po’ per riprendermi. Qualche annetto o giù di lì.»

Martin sorrise di nuovo, mostrando a Rose i suoi solidi denti candidi, dalla forma squadrata quanto quella del suo corpo. Sembrava divertito dalla sua curiosità. «Vuoi i dettagli, non è vero?»

«E’ talmente diverso da come nasciamo noi esseri umani… ma, allo stesso tempo, molto simile» mormorò Rose. «Stare lontana dalla mia famiglia in qualche modo mi faceva lo stesso effetto che procurava a te stare lontano dall’Oltremondo. Era come avere un buco nel cuore, e, più tempo passava, più si ingrandiva. Tuttavia, mi sono resa conto di aver realizzato me stessa solo standogli lontano e tagliando i ponti con loro, anche spirituali… o almeno provandoci. E’ da poco che ho capito che non si può andare da nessuna parte, senza essere in pace col luogo e con le persone in cui affondano le nostre radici.»

Martin annuì e si rilassò contro lo schienale, incrociando le dita callose sullo stomaco. I suoi occhi fiammeggianti scintillavano nella penombra della stanza, e lo facevano sembrare un piccolo dio del fuoco. «Forse non siamo poi così diversi. I genitori di uno Gnomo diventano coloro che si prendono l’onere di sbozzarlo dal legno, e l’aspetto del nascituro sarà direttamente legato alla bravura di mamma e papà come falegnami. E’ per questo che nella nostra cultura è tanto importante la lavorazione del legno. Quest’arte siamo noi.»

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Rose aveva ancora la mente traboccante delle parole di Martin, quando si alzò da tavola e lo aiutò a mettere via le tazze.

«Non preoccuparti» le disse lo Gnomo, dandole un buffetto su una mano. «Vai pure a lavarti, finirò io di sistemare. Nel frattempo preparerò qualcosa di più sostanzioso da mangiare.»

Rose gli sorrise. «Davvero lo faresti? Mi dispiace essere tanto invadente, ma non conosciamo questo luogo, e non possiamo proseguire.»

Martin le diede un buffetto affettuoso su un braccio. «Certo, non preoccuparti.»

Rose annuì e si diresse verso il bagno. I vestiti le si appiccicavano addosso talmente erano sporchi, e non vedeva l’ora di darsi una pulita. La ferita al fianco le doleva per la stanchezza; ormai era solo un taglio superficiale ricoperto da una crosticina violacea. Rose sperava che gli elfi si fossero sbagliati e che il veleno di Morgaine non sarebbe stato un problema, dato che l’avevano estratto subito. Fino a quel momento non le aveva causato problemi seri.

Il bagno di Martin era più grande della casa stessa, e ricordò a Rose le terme dei Romani, dotate di riscaldamento sotterraneo. La ragazza si tolse i vestiti nello spogliatoio e li depositò in una cesta di vimini dov’erano già presenti quelli di Wulfric. Si avvolse in un asciugamano e scese con cautela le scale scivolose che portavano al piano interrato.

Una zaffata di vapore le fece mancare il respiro. Attese di abituarsi al calore e scese gli ultimi gradini. Il pavimento del sotterraneo era in nuda terra, tendente al rossiccio. Solamente le vasche dove gli gnomi invitavano i loro amici per delle sessioni di pettegolezzi erano state piastrellate. L’ambiente era illuminato da un’unica lanterna la cui fiamma stava annegando nella cera, e gli occhi di Rose impiegarono qualche minuto per abituarsi al buio.

Wulfric si era accomodato in una vasca fumante. I suoi occhi erano socchiusi, ed era talmente immobile che Rose si preoccupò. Gli posò una mano su una spalla e lui sussultò per lo spavento, ricoprendola di goccioline. «Non sbucarmi alle spalle in quel modo!» Si aggrappò al bordo della vasca e le sorrise. I suoi capelli, simili a fili di oro bianco, si erano appiattiti sul suo capo e lungo il collo. Gli erano cresciuti parecchio in quei mesi. «Vieni anche tu, si sta benissimo. Mi sembra di rinascere.»

Wulfric le volse le spalle, tornando a galleggiare, e Rose lasciò che l’asciugamano scivolasse lungo le sue curve. Si immerse nell’acqua bollente e trasse un sospiro di sollievo. Affondò sott’acqua anche con la testa, e per un istante ci fu solo un silenzio ovattato, interrotto dal sibilo della fonte termale che emergeva dal fondo della vasca. Quando Rose riemerse, sorprese Wulfric a contemplarla. Era talmente buio che lo capì unicamente per via dello scintillio del suo occhio destro.

Rose si avvicinò al bordo e lo imitò, appoggiando la testa sul bordo della vasca. Lasciò galleggiare le gambe e si immaginò di essere una stella marina in una sorgente d’acqua tropicale.
Era talmente rilassata che anche i muscoli dell’addome non le facevano più male.

«Come va con la ferita?» chiese Wulfric, rompendo il silenzio.

«Abbastanza bene, almeno credo. Per il momento non mi fa male» mormorò Rose, cercando di sminuire la faccenda. Non voleva che Wulfric si preoccupasse per lei. Era già abbastanza sconvolto per quello che era successo con Myr.

Una densa cappa tornò a formarsi fra loro, mentre ognuno si perdeva nei propri pensieri. C’erano molte cose che Rose avrebbe voluto dirgli. Talmente tante che non sapeva da dove cominciare.

Le venne in mente la prima volta in cui era stata ad Avalon, e lei e Wulfric si erano trovati a fare il bagno assieme. Allora lui era stato in imbarazzo a starle vicino, mentre in quel momento i mignoli delle loro mani si stavano sfiorando. Rose non voleva allontanarsi. Continuava a immaginarsi le mani di Wulfric che le accarezzavano i fianchi e la schiena, e scendevano lungo le sue cosce. Non riusciva a smettere di pensarci, e si dava dell’insensibile per questo. Non era affatto il momento di pensare a certe cose, non dopo ciò che gli aveva detto durante la Festa di Inverno, e nemmeno dopo il tradimento del suo maestro. Era stato come se Wulfric avesse perso la bussola della sua vita, e Rose non voleva portarvi ulteriore scompiglio proprio quando era tutto in equilibrio precario.

«Mi dispiace così tanto, Wulfric» sussurrò Rose, talmente piano che lui avrebbe potuto non sentirla. «Per te Myr era importante. Non avresti dovuto scoprire così quello che aveva fatto.»

«Perché ti dispiace? Mi hai fatto scoprire la verità. Hai fatto la cosa giusta» mormorò Wulfric. «Le uniche parole che si merita sono quelle che gli hai detto. Ci ha tradito. Ha messo in pericolo tutti. E ormai le fate di Avalon e Geodfrith saranno tutti stati trasformati in Unholdan. A parte Myr, ovviamente. Medb non oserebbe mai storpiare il suo prediletto. E se lui avesse agito per lei tutto il tempo? Se tutto quello che ci ha raccontato fossero state bugie per spingerci ad affezionarci a lui?»

Rose restò interdetta. Per quanto Myr fosse un manipolatore, non riusciva a credere che anche la storia del suo passato fosse stata una bugia. «No, credo che sia tutto vero, Wulfric. Quelle cose su Freya, Artri e Ygraine, e sua madre Ynvare, sono vere. E’ Myr che si è lasciato divorare dalla sete di vendetta.» Rose spostò lo sguardo su Wulfric e gli sfiorò una spalla. «E’ impossibile per noi immaginarci quanto a lungo ha vissuto, ma non credi che tutto quel tempo sarebbe bastato per cercare di andare avanti? Ricordo il giorno in cui l’ho scoperto, Wulfric. Avevo capito la verità, e Myr mi ha confessato di aver usato Geodfrith, nonostante lo ritenesse il suo migliore amico. Quelle parole erano talmente contraddittorie: è come se Myr avesse perso il contatto con la realtà. Una cosa è certa, è profondamente egoista. Forse anche più di me.»

L’occhio lucente di Wulfric ricambiò il suo sguardo. «Tu non sei egoista, Rose.»

«Sì, invece. Ho abbandonato mio padre e la mia famiglia. Ho voltato loro le spalle, perché non avevo la forza di affrontare Alan. In tutti questi anni ho cercato di essere la figlia perfetta, che non fa preoccupare i genitori, ubbidisce sempre e va a trovare il padre. Me ne prendevo cura più di tutti, sul piano emotivo. Alan dava solo a me i suoi disegni, solo con me si confidava. E io dovevo andare lì un giorno sì e uno no, quando ero a casa.»

Rose strinse le labbra e deglutì, cercando le parole.

«La cosa peggiore era che ogni volta che vedevo il viso di papà pensavo a quando mi aveva messa all’angolo con l’accendino in mano, e sentivo l’odore di benzina. Ero arrabbiata con lui, perché aveva distrutto le nostre vite. Lo odiavo, eppure adesso non riesco a togliermelo dalla testa. Vorrei tanto dirgli che gli voglio bene, nonostante tutto. Non sono migliore di Myr: sono scappata dalle mie responsabilità. Però è anche vero che solo ad Avalon, in un’altra famiglia, ho ritrovato la vera gioia di vivere.»
La voce di Rose si era rotta mentre raccontava. Non aveva mai detto a nessuno quelle cose in modo tanto esplicito, nemmeno a se stessa.
La ragazza non reagì quando Wulfric le passò un braccio attorno alle spalle e la attirò a sé. La abbracciò, e dopo un breve istante, Rose si rilassò contro il suo petto. Il calore del corpo di Wulfric la fece sentire meno sola, e il suo respiro si calmò. Posò una mano sopra quella che Wulfric le aveva posato sulla pancia, e chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dalla sensazione di completezza che stava provando in quel momento. Lui la capiva. Aveva avuto altrettanti problemi con i suoi genitori, seppur di natura diversa.

«Mi dispiace che tu abbia dovuto fare tutto da sola» sussurrò Wulfric. «Mi dispiace anche per Alan. Non me ne hai mai parlato molto, ma credo che fosse una persona buona, prima che Medb… in ogni caso, sappi che io ci sono, se hai bisogno di me.»

Rose sciolse la presa e si girò per poterlo guardare in viso. La fronte di Wulfric era corrugata per la preoccupazione, e il suo sguardo era sincero. Rose non riusciva davvero a capire come potesse aver avuto paura di venire ferita da lui. Non era come suo padre. Wulfric era forte, non avrebbe permesso a niente e nessuno di corromperlo, nemmeno a Medb. Non le avrebbe mai fatto del male.

«Tu ci sei sempre» disse Rose, accarezzando il profilo della sua mandibola. Lo sentì fremere a quel contatto, e si chiese se anche lui provasse le stesse cose. «Mi sento così stupida per aver avuto paura di amarti.»

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