Chapter XII

James

"Fatti miei"
"Fatti miei"
"Fatti miei"

Molto probabilmente quella mocciosa non aveva ricevuto abbastanza schiaffi o punizioni durante la sua infanzia, non era riuscita ancora a capire come ci si comporta con le persone più grandi. Non aveva ancora capito come ci si comportava con me. Ma ciò era ovvio, con un padre piú idiota di lei era più che normale che la figlia avesse sviluppato una personalità parecchio scorbutica.

Tutto ciò andava bene finché non tirava fuori i toni alti con me.
Il sottoscritto non si sarebbe mai fatto mettere i piedi in testa da nessuno, tantomeno da una ragazzina viziata e con la tendenza a comandare, come lei.

E se ripensavo al modo in cui mi aveva sbattuto la porta in faccia senza nemmeno darmi la possibilità di rispondere, sentivo le labbra serrarsi più che mai e la rabbia crescere fino a coprire ogni altro senso, tanto da non farmi accorgere per un istante del corpo di Melissa che lentamente si posizionava sul mio, sedendosi sulle mie gambe.

Le sorrisi e portai le mie mani dietro la sua schiena, così da poterci tenere entrambi in equilibrio sul divano del salotto.

«Ho chiamato il mio ex per far venire a prendere Jocelyn» disse inserendo le dita fra i miei capelli.

Ah, ecco dov'era, da suo padre. E che diavolo ci voleva a rispondere "vado da quel coglione di mio padre?"

«Cosí potremo passare la serata da soli, io e te» sussurrò avvicinandosi alle mie labbra, che subito dopo attaccò alle sue con un bacio.

«Dormirá lí?» domandai facendo finta che non mi interessasse, iniziando ad accarezzarle la schiena.
Ma in effetti a me non interessava, volevo solo sapere se avevamo la notte a disposizione per divertirci come si deve.
«Molto probabilmente sì. Ora che è tornato quell'altro dall'Università, sarà ancora più felice di restare da Edward»

A quelle parole scattai sull'attenti, spostai leggermente il suo corpo per assumere una posizione dritta.
"Quell'altro"
E adesso chi diavolo era questo? Da dove saltava fuori?

«Come?» chiesi aggrottando le sopracciglia.
Melissa non capii, mi guardò confusa, anche leggermente infastidita dalla mia reazione.
«Che cosa?» domandò a sua volta.
«Chi è tornato?»
«Il figlio della moglie di Edward. Mi pare si chiami Levi... Logan... Louis... ma non importa. L'importante è che adesso abbiamo del tempo per noi due» affermò sorridente.

Tuttavia non trovavo assolutamente niente da ridere. Jocelyn avrebbe dormito insieme un ragazzo.

E no, la mia non era gelosia, non poteva esserlo. Non potevo essere geloso di un metro e mezzo di acidità e apatia.

«Lei e questo tizio vanno d'accordo?» insistetti.
Melissa mise il broncio e incrociò le braccia al petto.
«Ma cosa ti prende? Perché ti interessa tanto di lui?» sbottò visibilmente infastidita.

Quando voleva, Melissa sapeva essere più seccante e insopportabile dei venditori ambulanti che ti seguono per tutta la piazza al fine di venderti una stupida rosa.

«È solo curiosità, non posso essere neanche curioso di sapere con chi ho a che fare?!» dissi cercando di apparire calmo, ma fallii miseramente nell'intento, in quanto parvi più seccato di quanto lo ero in realtà.

«Si, okay? Stavano sempre insieme lei, Kendall e questo tipo. Poi lui è partito per studiare in Massachusetts in quell'universitá di secchioni, ed è tornato adesso per le vacanze di Natale. Contento?» sbottò infine alzandosi da me e andandosene, infuriata.

Roteai gli occhi.

Patetica.

Guardai l'orario sull'orologio di fronte a me. Erano le 08:45. Sebbene avessi fame, non mi andava per niente di trascorrere soltanto un altro minuto ascoltando Melissa lamentarsi della puzza di sudore e delle maniere rozze dei muratori che stavano ristrutturando la sede dell'azienda presso cui lavorava, delle commesse impacciate e vestite come zingare, della precarietà dello smalto permanente e così via.

Mi venne perciò un'idea.

Tirai fuori dalla credenza, fra i tanti liquori diversi che Melissa teneva in casa per offrire agli ospiti, una bottiglia di sambuca. Riempii per metà un bicchierino di vetro e lasciai che il liquido dolciastro ma forte scorresse lungo  la mia gola.

Dopo ciò, presi il mio giubbotto e uscii di casa.
Una piccola vendetta per il modo in cui si era rivolta a me quel pomeriggio.

Misi a moto l'auto e mi diressi presso una meta ben precisa, dove avrei fatto pentire Jo di avermi mancato di rispetto.

Non era molto lontano, fu per questo che in un quarto d'ora fui giunto a destinazione, e quando mi apparve di fronte una modesta casa dalle modeste dimensioni, e con il cognome "Kenneth" attaccato al citofono, mi venne spontaneo accennare un sorriso divertito al pensiero di come avrebbe potuto reagire Jo alla mia visita.

Spensi il motore e scesi dall'auto.

Oh cara Jo, ti aspetta una bella sorpresa.

Suonai al campanello.
Delle voci allegre e un costante chiacchiericcio filtravano dall'interno dell'abitazione, ma si fermarono allorquando udirono il citofono.

La festa è finita.

A venirmi ad aprire il portone fu un nanetto con una faccia da cretino.
Subito ricordai le parole di Melissa.
"Il figlio della moglie di Edward è tornato dall'Università"
"Jocelyn sarà contenta di dormire lì"

Istintivamente, mentre ancora mi guardava spaesato e confuso, lo strattonai per una spalla e mi intrufolai in casa.

«Ma si può sapere chi diavolo sei?» sbuffò in nanetto avvicinandosi a me. Intanto Edward era scattato in piedi sull'attenti, e sulla porta della stanza spuntarono due figure di donne, una delle quali rimaneva a fissarmi con aria confusa e con ancora un asciugamano fra le dita, l'altra delle quali, invece, come già avevo immaginato, non perse tempo per gettare per terra il panno umido che teneva in mano e avvicinarsi a me a grandi passi.

«Ehi, non so chi diavolo tu sia, ma esci subito fuori da questa casa» minacciò il moro.
«Adesso basta. Mi hai seriamente rotto. Cosa cazzo vuoi ancora? Chi diavolo ti ha dato il permesso di entrare qui dentro? Eh?»
Jo iniziò a sbraitarmi contro, e io la guardavo dall'alto pensando che era tutt'altro che intimidatoria. Era assolutamente ridicola.

Le afferrai saldamente un braccio, stanca delle sue lamentele.
«Adesso tu vieni con me» affermai con tono perentorio. Quando mi voltai verso la porta, udii alle mie spalle un rumore di sedia, e subito dopo una voce che avevo già sentito in circostanze poco piacevoli.

«Mia figlia non va da nessuna parte»

Di nuovo quel tono. Di nuovo quella voce. Di nuovo quell'uomo.

Mi bloccai all'istante. Potevo riuscire a sentire il sangue che fluiva nelle vene.

Perfino Jo si era zittita alle parole di suo padre. Il silenzio assoluto si era abbattuto su quella stanza.
Non avrei fatto lo stesso. Non mi sarei lasciato ammutolire da lui.

Lentamente, mi voltai verso quell'uomo, guardandolo in modo da far trasparire tutta la rabbia che provavo in quel momento.
Era la rabbia che faceva pulsare le vene delle mie tempie, che mi causava degli irregolari tremolii, che mi aveva portato ad agire in quel modo quella sera.

Il volto di Jo era quasi spaventato, la donna bionda era rimasta a fissarmi con occhi sbarrati, mentre il nano e Edward mi lanciavano sguardi tutt'altro che benevoli.

«Lei viene con me» dissi solamente.
Edward si avvicinò a me, e io mi tenni pronto per un eventuale colpo da infliggergli nel caso avesse osato fare qualche mossa falsa.

«Ho detto che lei resta qui. Toglile quelle sporche mani di dosso, e vattene via» mi disse con tono aspro e guardandomi con odio.

Poco dopo mi afferrò il colletto, e io non ci pensai due volte prima di afferrargli il polso e scaraventarlo via. Ed ero già sul punto di chiudere la mano in un pugno.

«Verrò con lui, papà»

Probabilmente Jo lo disse per evitare che il suo bel paparino si facesse male, ma non importava, ciò che contava era che avevo vinto io.

Edward guardò prima me, poi lei.
Jo teneva lo sguardo basso, si poteva quasi leggere paura nei suoi occhi. Edward si avvicinò a lei e le lasciò una carezza sui capelli per poi lanciarmi un ultimo sguardo truce e voltarsi, dandomi così le spalle.

* * *

«Non toccarmi» ordinò appena, una volta fuori, poggiai una mano sulla sua schiena.

Mi avvicinai all'auto con l'intento di aprirle la portiera, ma lei mi scansò violentemente il braccio.
«So farlo da sola»
C

he gentilezza.

Dopo che fu entrata, chiuse lo sportello con tale forza da causare un tonfo che per poco non mi fece venire voglia scaricarla in mezzo alla strada buia e deserta.

Sospirai, ricacciando quei brutti pensieri, e anch'io entrai in auto.
Chiunque osava sfiorare la mia bambina poteva considerarsi un essere morto, ma quella sera glielo concessi in quando riconobbi di essermi comportato in modo tutt'altro che giusto.

E a dir la verità non ero neanche soddisfatto come avevo immaginato di essere. Ero certo che una volta averle sottratto una serata con quell'idiota del fratellastro, mi sarei sentito meglio, sarei stato felice di aver vinto.
Tuttavia, stranamente, non fu così. Anzi, quasi mi dispiaceva averla trattata in quel modo. In fondo lei non aveva fatto nulla di male. Io ero il primo a odiare il fatto che la gente si impicciasse dei fatti miei.

Okay, stavo delirando.

Io non ero dispiaciuto, io non potevo esserlo. Non dopo la risposta che mi aveva dato e il modo in cui me l'aveva data... Giusto?

Nel frattempo che guidavo, un silenzio imbarazzante era calato nell'abitacolo dell'auto, ancora. Dovevo assolutamente in qualche modo cercare di rompere il ghiaccio. Anche con una scusa banale.

«Se hai freddo posso accendere il climatizzatore»

Eccoci. Se avessi potuto mi sarei preso a schiaffi da solo. Ma che razza di scusa è per iniziare una conversazione?

Come prevedevo, non ottenni alcuna reazione. Come biasimarla.

«Sai, ho sentito che al fast-food qui all'angolo fanno degli ottimi hamburger, se hai fame possiamo anche...»

«Non parlarmi»

«D'accordo. Non parlarle» mi dissi zittendomi completamente.

Per la prima volta in vita mia, dopo molto tempo, mi sentii in imbarazzo, mi pentii di ciò che avevo fatto.
Quello era uno dei classici momenti in cui si vogliono riportare indietro le lancette dell'orologio per fare in modo che le cose vadano diversamente. Era proprio ciò che volevo io. Non avrei dovuto trattarla in quel modo, non avrei dovuto impicciarmi negli affari suoi e non avrei dovuto rovinare quella che forse era l'unica occasione per rivedere il suo fratellastro.

O forse non avrei dovuto bere quel bicchiere di sambuca prima di uscire. Che fossi ubriaco? Che l'alcol mi avesse dato alla testa per farmi pensare quelle cose? Ovviamente era così, altrimenti non mi sarei mai sognato di sentirmi in colpa di fronte a qualcuno.

Mi convinsi che era una situazione passeggera, e all'indomani sarei ritornato il James menefreghista di sempre.

Però, se quella sera dovevo fare la parte di quello dispiaciuto e imbarazzato, volevo farla fino in fondo. Tanto era l'alcol, vero?
Il giorno dopo non avrei ricordato più nulla, perciò qualche parola in più mi era concessa.

Una volta che arrivammo a casa, quando Jo fu sul punto di salire le scale per ritornare in camera sua, glielo dissi, mi liberai del peso opprimente che gravava sul mio stomaco da quando l'avevo portata via da quella casa, dalla sua famiglia.

«Mi dispiace. Non avrei dovuto. Scusami» confessai tenendo fisso lo sguardo su di lei. A quelle parole si fermò. Purtroppo era di spalle, perciò non riuscii a decifrare l'espressione del suo volto. Quel che sapevo era che mi dispiaceva davvero, e che lei volesse capirlo o no, non mi importava.

Dopo qualche secondo, continuò a salire le scale, e io continuai a tenere fisso lo sguardo su di lei finché non sparì sul piano superiore.

Sospirai pesantemente. Mi sentivo un completo idiota.
Non so se per averle fatto tutto ciò, o per essermi abbassato talmente tanto da averle chiesto scusa, senza neanche ricevere una risposta.

Non sapevo. Non sapevo più nulla.
Non sapevo se avesse accettato le mie scuse, non sapevo nemmeno perché non sapessi più nulla.

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