Chapter IX
Jocelyn
Il reale inizio di una giornata si ha dopo aver bevuto una discreta quantità di caffè caldo su una panchina del cortile della scuola.
Tutto ciò che avviene prima di questo è il nulla, un completo vuoto di memoria, una fase in cui le facoltà mentali lasciano desiderare per via dello stordimento post-letargo.
Era anche per questo che non ammettevo alcun tipo di comunicazione verbale prima di aver sorseggiato del buon caffè forte, inaugurando così un'altra meravigliosa giornata carica di professori posseduti da Satana, ragazzi intenti a slinguazzarsi a vicenda, starnazzi e urla di colei da cui avrei dovuto ereditare il 50% del mio patrimonio genetico, e un esemplare unico di homo-idiotensis di nome Kendall.
Ma forse su quest'ultimo punto avrei potuto passarci sopra, dopo tutto un po' di follia non ha mai fatto male a nessuno, anzi, è la normalità ad essere la vera nota stonata dello spartito. A me piacevano i colori sgargianti talmente abili nel distinguersi dalla massa, trovavo interessante solo ciò che si distingueva dal resto. No, la normalità non faceva per noi, affatto.
Avrei preferito mille volte vivere emarginata dalla società insieme al mio caro complice di casini e pazzie, anziché essere parte integrante di una società formata da individui spaventosamente uguali.
«SORPRESA!»
Infarto.
Arresto cardiaco.
Morte.
Credo che mai come allora mi sentii prossima alla morte. E senza esagerare neanche un po'.
Sentirsi afferrare per le spalle con uno strattone mentre qualcuno ti urla dritto dritto dentro il timpano, in un momento in cui te ne stai per i fatti tuoi a bere del caffè da un bicchiere ormai spiaccicato per terra, equivale a 9 infarti che coinvolgono atri e ventricoli.
Sbarrai gli occhi e sobbalzai sul posto lanciando un sospiro soffocato di paura.
Scattai subito in piedi e iniziai a correre all'inseguimento di quel biondo che in quel momento sentivo di odiare più che mai, fregandomi altamente del fatto che tutta la mia roba fosse rimasta su quella panchina.
«VIENI QUI BASTARDO!» urlai talmente forte che molto probabilmente fui udita da mezza scuola... anzi, direi la scuola per intero.
Alla fine riuscii a saltargli in groppa con una buona rincorsa, e iniziai a colpirlo ripetutamente sulla testa mentre il malcapitato si lamentava di smetterla, e questo sotto gli sguardi straniti, e alcuni addirittura schifati, di alunni e professori sparsi nello spiazzale.
Perché era così che noi ci davamo il buongiorno.
Ecco, questo non era altro che un semplice e affettuoso saluto mattutino.
Quando le acque furono più o meno calme, finalmente ci adagiammo sulla panchina con il fiatone e i capelli scompigliati, chiacchierando come se niente fosse successo, anche se dovetti dire addio al mio caffè che gettai in un cestino.
Sventolai una mano davanti il volto di Kendall quando mi accorsi che le mie erano letteralmente parole buttate al vento -in quanto era una mattina piuttosto fredda e ventosa- poiché il suo sguardo era perso chissà dove e in chissà quali pensieri.
Sobbalzò a questo mio gesto per poi riporre la sua attenzione su di me.
«Come? Dicevi?» mi incitò leggermente impacciato.
Sollevai un sopracciglio e con lo sguardo cercai di capire cosa lo avesse distratto a tal punto da rendere la mia voce un impercettibile ronzio.
Tuttavia egli ostacolò la mia visuale parandosi davanti a me.
«Che guardavi?» domandai.
«Nulla» rispose facendo spallucce.
Tuttavia continuava a spostarsi davanti a me.
«E allora perché ti piazzi davanti?»
«No, davvero Jo, nulla» mi rassicurò.
«Okay» risposi per poi tornare a guardare a terra.
Con uno scatto mi sollevai e volsi lo sguardo verso il luogo dal quale proveniva la fonte di distrazione di Kendall, e mi trovai davanti una ragazza bionda e dagli occhi scuri. Una bella ragazza, a dir la verità.
«Wow, Kendall Schmidt è innamorato» affermai con un grosso sorrisone sulle labbra. Avvolsi le sue spalle con un braccio e gli scompigliai amorevolmente i capelli.
«Ah, come crescono in fretta» sospirai mentre lui sbuffava e si lamentava del fatto che gli stavo rovinando il ciuffo.
«Dai, come si chiama?» domandai piazzandomi davanti a lui, esigendo una risposta.
Kendall si stravaccò a peso morto sulla panchina e con fare seccato si spiaccicò la mano sulla faccia, trascinandola su essa.
«O Dio mio. Lo sapevo» farfugliò.
«Su, avanti, voglio solo sapere il nome di mia cognata, nulla di più» affermai incrociando le braccia al petto.
«Avanti, qual è il suo nome?»
«Jo...»
«Eddai, voglio solo sapere il suo nome, mica ti ho chiesto se avete già limonato»
«Jo» disse ancora con fare scocciato.
«Cavoli, quanto sei riserv...»
«SI CHIAMA JO, PER LA MISERIA!»
«Ho capito ma ho solo ch...» mi bloccai di colpo elaborando, seppur a scoppio ritardato, la risposta ricevuta.
«Oh, si chiama Jo»
«Shhhhhh! Sí, si chiama Jo!» affermò a bassa voce.
«Okay, scusa» risposi a voce altrettanto bassa.
E quando ritornò un po' di calma sulla nostra panchina, quasi scoppiavo a ridere a ricostruire ciò che era accaduto e le cretinate che avevamo detto.
«Stronzo» sbottai a braccia conserte tenendo lo sguardo fisso a terra.
Aveva avuto il coraggio di azzardarsi a rivolgersi in quel modo a mio padre, e ciò non sarebbe rimasto impunito. Mi ero appena costretta a fargliela pagare in ogni modo possibile.
Mio padre era l'uomo della mia vita, l'ancora alla quale mi aggrappavo e che faceva in modo che rimergessi nei momenti in cui ero prossima a toccare il fondo.
Quando divorziarono mi sentii cadere il mondo addosso, il che è anche normale per un'adolescente cresciuta in una famiglia unita, sebbene non talmente unita quanto lo erano altre famiglie. Mamma era sempre quella che non c'era mai, per un gala o una conferenza, una riunione o una cena di lavoro, per un motivo o per un altro, e perciò, ad avermi cresciuta furono mio padre e Kendall, e di conseguenza non credevo di poter essere biasimata quando affermavo che Kendall era la mia famiglia e, al contrario, vedevo mia madre quasi come un'estranea.
«Non è colpa mia se sei gelosa. Non ti bastano le batoste che mi hai dato prima?» si lamentò massaggiandosi la nuca con un'espressione di dolore.
«Che? Ma non tu» mi corressi stringendomi nelle spalle per il freddo mattutino.
«Beh, non vedo nessun altro qui» dichiarò il biondo alla mia sinistra guardandosi attorno.
Giocosamente gli tirai un pugno sulla spalla e ridacchiai. In un modo o nell'altro riusciva sempre a farmi ritornare il sorriso.
«Mi riferivo a James»
Kendall rimase un attimo a pensare.
«James, quello della 5f?»
«Ma sei scemo? Quell'ammasso brufoloso di camicie a quadri?»
Dopo questa si mise a ridere, quando invece a me veniva seriamente da vomitare.
James Morrison era il suo nome, ed era il secchione della 5f. Portava degli occhiali fin troppo grandi, ma fin qui nulla da dire, calcolando che alcuni tra i ragazzi più belli di quella scuola indossavano gli occhiali. La sua faccia non avevo idea di come fosse, in quanto era sepolta da una montagna di brufoli. Ma non i soliti brufoli che anch'io mi ritrovavo solitamente in fronte, quelli di James Morrison erano veri e propri foruncoli che facevano ribrezzo solo a guardarli. Per non parlare delle solite camice dalle fantasie geometriche che indossava, neanche fosse uscito da una puntata di big bang theory. E quando dico solite, intendo dire che non gli avevo mai visto addosso più di quattro camicie diverse, ognuna delle quali si teneva addosso per non meno di una settimana.
«Ma che ne so io dei tuoi fidanzati?» mi scherní sorridendo furbescamente.
Lo guardai male per poi ritornare a fissare il suolo.
«Intendo James, quel coso che praticamente si è trasferito a casa mia. Sta sempre in mezzo alle palle» sbottai poco garbatamente e con rabbia.
«Okay, d'accordo. Ma ora cosa c'entra?»
E qui i miei sensi si fecero all'erta.
Precisamente com'è che ero finita a pensare a lui?
«Uhm... È che ieri ha superato davvero il limite. Con papá» precisai, al che anche lui divenne serio per una buona volta -anche se per certi versi era molto più serio di me-.
«Che ha fatto?» chiese aggrottando le folte sopracciglia nere. Quante volte gli avevo suggerito di assottigliarle, quante volte avevo cercato io stessa di aggiustarle con la pinza... Ma nulla. Si ostinava a dire che gli donavano un certo fascino. Io le trovavo eccessive.
In un attimo gli ripetei la scena del giorno prima nel frattempo che mi ascoltava con interesse.
Mio padre piaceva molto anche a lui, avevano un bellissimo rapporto quasi da padre e figlio, praticamente l'opposto del rapporto che lo legava a mia madre.
Loro due si detestavano a vicenda. Per motivi a me sconosciuti, a mia madre Kendall non era mai andato a genio, e il tutto ai accentuò a causa dei numerosi scherzi architettati insieme a lui ai suoi danni.
«Tu cosa ne pensi?» domandai infine. Kendall fece per parlare ma in quel momento udimmo il fastidioso suono della campanella, perciò ci alzammo dalla panchina mettendo i nostri zaini in groppa. Come al solito, Kendall caricò lo zaino su una spalla sola, ignorando il fatto che prima o poi sarebbe finito con la gobba.
«Io dico solo che che spero di fare la sua conoscenza il più tardi possibile»
«E come darti torto» concordai.
Appena mettemmo piede dentro l'enorme edificio giallo canarino, un colore a mio parere disgustoso, rimasi confusa quando attorno a noi si elevarono dei rumorosi applausi.
Mi guardai attorno, e vidi la maggior parte dei ragazzi applaudire fragorosamente e guardarci con dei sorrisi smaglianti.
Aggrottai le sopracciglia e voltai lo sguardo verso Kendall, il quale era confuso allo stesso modo in cui lo ero io.
Qualcosa non quadrava.
«Qui c'è qualcosa che non va, cos'è preso a tutti quanti?» sussurrai all'orecchio del biondo alzandomi sulle punte, data la nostra non proprio irrilevante differenza di statura.
Kendall scosse la testa, neanche lui aveva la minima idea di cosa stesse succedendo.
Tutti i nostri dubbi furono smentiti dal ragazzo più idiota e montato che avessi mai conosciuto. Il suo nome era Jett Stetson, ed era arrogante, superbo, odioso, insopportabile, un pallone gonfiato che, tuttavia nel suo modo di fare, poteva risultare simpatico. Raramente.
«Ehi ragazzi, a quando le nozze?» domandò piazzando davanti a noi un cellulare aperto su una foto.
Ebbene, quella foto era stata scattata poco prima, e raffigurava me e Kendall nel bel mezzo di un abbraccio facilmente fraintendibile mentre gli scompigliavo i capelli.
Roteai gli occhi al cielo e con uno strattone scansai il telefono, rischiando quasi di farlo spiaccicare sul suolo. Peccato che non ci riuscii.
Anziché sbraitare e prendermela a morte, come tutti speravano che facessi, mostrai un sorrisone mentre Kendall mi attirava a sé con un braccio, dando inizio così alla commedia dei finti fidanzatini.
Non l'avrebbero mai avuta vinta su di noi, perché se mai ci fossimo arrabbiati o avessimo perso le staffe davanti a tutti, avrebbero vinto loro.
Quando sorpassammo la massa, il sorriso di Kendall si tramutò in un'espressione affranta, e il tutto si aggravò quando iniziò a frignare.
«Beh, che ti prende?» domandai quando ormai eravamo prossimi alla classe.
«Adesso Jo penserà che stiamo insieme e non farà mai il primo passo» si lamentò poggiando la mano sulla maniglia della porta della classe.
«E piantala, vedrai che se le spieghi come realmente stanno le cose, capirà»
E dopo quel piccolo dramma, entrammo in classe chiudendoci la porta alle spalle, e pronti per altre cinque lunghissime, estenuanti e noiosissime ore di lezione.
* * *
«Kendall, mi accompagneresti a casa?» chiesi infilando gli ultimi libri nello zaino.
«Uhm... Certo, ho la macchina parcheggiata qui vicino» scherzò.
«Che scemo» ridacchiai colpendolo leggermente.
«Fatto, possiamo andare» conclusi chiudendo la zip con un sonoro strappo.
Ormai fuori, mi accorsi che la temperatura era nettamente diversa da quella mattutina, e per di più il sole aveva detto addio alla sua timidezza ed aveva fatto capolino nel cielo azzurro in tutta la sua maestosità.
Il cielo un po' si adeguava all'umore di noi studenti: la mattina era grigio e spento, allo stesso modo in cui noi eravamo senza vita a causa del prospettarsi di una giornata scolastica, quasi come zombie; invece, dopo la fine delle lezioni era luminoso e splendente, come chiunque avesse appena riconquistato la tanto agoniata libertà dopo ore di intensa prigionia.
Ridente e allegra, camminai fino al cancello accompagnata da Kendall e le sue solite battute. Tuttavia il sorriso scomparve d'un tratto dal mio viso allorquando mi accorsi di una corvette stingray color argento parcheggiata proprio davanti a me, e adocchiata dalla maggior parte delle persone presenti.
Beh, era un'auto di lusso, potevo ben credere che fosse soggetto degno dell'attenzione generale.
Il finestrino si abbassò, rivelando ciò che mi aspettavo, ma che speravo non fosse.
Se era vero che la fortuna era una ruota, allora perché per me non girava mai nel verso giusto?
Kendall mi guardò interrogativo e in tutta risposta roteai gli occhi al cielo.
Borbottai imprecazioni tra me e me e mi portai una mano sul volto.
«Chi è quel tipo con gli occhiali da sole?»
Sospirai.
«Ricordi quando hai detto che avresti voluto conoscere James il più tardi possibile?»
«Si?» la sua suonava più come un'affermazione che una domanda.
«La prossima volta sta zitto» affermai risoluta e ormai in preda al nervosismo.
Il suo sguardo, seppur nascosto da un paio di occhiali da sole dalle lenti a specchio, era insopportabile, perciò presi Kendall dal polso e lo strattonai.
«Andiamo» ringhiai fra i denti per poi iniziare a camminare verso casa.
Sentii lo sportello aprirsi, un rumore che causò una vera e propria scossa ai nervi.
Lo ammazzo.
«Sali in macchina, ragazzina»
Mi fermai di colpo e mi girai con una furia omicida.
Ragazzina? A me? Che avevo più palle di lui?
«Non viaggio con gli sconosciuti, mi dispiace» risposi continuando a camminare. E in tutto quello, Kendall assisteva alla scena senza proferire parola.
Sentii lo sportello dell'auto chiudersi.
Probabilmente ci aveva rinunciato.
«Ho detto sali in macchina» affermò con più risolutezza, con un tono che mi fece ribollire il sangue nelle vene.
«Ma che cazzo vuoi? Lasciami in pace» sbraitai continuando a camminare, stavolta accelerando il passo. E nemmeno mi ero accorta di star dando spettacolo a tutti con la mia scenata. Ma poco mi importava. Doveva semplicemente stare lontano da me.
«Senti ragazzina, non mi piace ripetere le cose...» mi sentii afferrare saldamente il polso e subito dopo mi costrinse a voltarmi con la forza.
«...perciò sali subito in macchina» ribadì.
A quel punto strattonai la sua presa con violenza.
«Non toccarmi» ringhiai guardandolo con ira. Non doveva mettermi alla prova, non gli conveniva.
«Ehi, lasciala stare» intervenne Kendall con sguardo cupo.
James guardò Kendall di traverso per poi ritornare a guardare me.
«Tua madre mi ha detto di venirti a prendere, e francamente non mi va di fare due viaggi a vuoto. Sai, la benzina non è gratis» ironizzò.
Ma quanto poteva essere simpatico?
Rivolsi un'occhiataccia carica di odio a James, e subito dopo guardai Kendall.
Evidentemente anche il Padre Eterno godrebbe nel vedermi dietro le sbarre di una prigione.
Chissà che questo non sia il mio destino, altrimenti non trovo nessun'altra spiegazione al perché vengo costantemente messa alla prova insieme al mio autocontrollo.
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