Chapter I
Jocelyn
Dannata campanella.
Sembrava quasi che essa fosse maledettamente consapevole di quando ti scordavi di scrivere un tema in francese da consegnare inesorabilmente alla prima ora di lezione.
Può essere possibile?
«Ah, accidenti!» imprecai contro il liquido bianco e puzzolente che si rifiutava di uscire dal flacone del bianchetto. Dannazione, avevo sbagliato di nuovo a scrivere "est-ce que". E quando mai l'ho azzeccata? A morte Napoleone e tutti i francesi.
«Rilassati, hai quasi finito, ce la puoi fare» mi rassicurò Kendall alzando il suo quaderno per offrirmi una visuale migliore del suo tema.
«Ma porca puttana, è finita anche la penna!» e fu così che quel giorno sbottai imprecazioni a più non posso agitando continuamente la mia biro nera che proprio in quell'istante non dava segni di vita.
E di certo la risata di Kendall non aiutava. Ce l'aveva così stridula e penetrante che in quel momento era un fastidio enorme.
«Ah, chi se ne frega» dichiarai afferrando dall'astuccio una penna di dubbia provenienza, e dal bizzarro colore tendente all'arancio. Non potevo fare in altro modo. Per quella mattina miss Jeffrey si sarebbe dovuta accontentare di un tema nero per metà, e arancione per l'altra metà.
«Jo, sbrigati. I ragazzi stanno entrando in classe»
«Un attimo!» pregai scarabocchiando le ultime parole sul quaderno a righe.
«Finito!» esordii infilando tutto il malloppo di penne, matite e gomme nell'astuccio.
«Veloce, dai!»
«E dammi tempo»
In quindici secondi richiudemmo i nostri zaini, ci alzammo dal tavolo posto ad un angolo del corridoio e corremmo spediti verso la nostra classe.
Furtivamente, senza farci beccare da miss Jeffrey, prendemmo posto in mezzo alla confusione di ragazzi ancora in piedi.
«Passata liscia» sussurrò in mezzo al chiacchiericcio generale, assottigliando le palpebre in due fessure e alzando i pollici in aria.
Uno stridulo «Seduti!» riecheggiò nella stanza poichè ovviamente, la nostra "cara" professoressa non ci pensò neanche lontanamente a far mancare il suo solito buongiorno dato ad almeno 100 decibel di intensità sonora.
A quel punto mi venne un'irrefrenabile voglia di prendermi gioco di lei.
Voltai il mio sguardo verso Kendall, che in quel preciso istante aveva giá capito cosa mi passava per la testa, e rispose sbarrando gli occhi e scuotendo il capo.
«No, non farlo» sussurrò con una faccia talmente stramba.
«Ho detto seduti!» ripeté, e a quel punto non mi seppi trattenere.
«Bau bau» urlai simulando il verso di un cane, e subito dopo in classe riecheggiava il suono delle risate di venticinque studenti. La donna di mezz'età dietro la cattedra, con tanto di gonna, giacca e scarpe risalenti ad una dubbia epoca storica, poggiò entrambi i palmi sulla cattedra e corrugò il volto in un'espressione ancora più antipatica del solito, sempre se ciò era possibile.
«Silenzio, chi è stato?» urlò ancora, e a stento trattenni le risa, esattamente come il biondo alla mia sinistra.
«Avanti! Chi è stato?» domandò più paonazza in volto che mai.
«Kenneth» sentii provenire una voce femminile dai primi banchi, al che smisi di ridere silenziosamente e mi preparai per rimuovere dalla faccia della Terra la spia che aveva pronunciato il mio cognome. Ovviamente era stata una delle alunne leccapiedi della prof, quelle che fanno sempre complimenti, o che si offrono volontarie per l'interrogazione, o che portano la borsa della prof da una classe all'altra, perché noi sulle spalle possiamo caricare zaini di dieci chili perché siamo "giovani e freschi", ma loro non riescono a tenere sulla spalla una borsetta di dieci grammi.
«Bene» aggiunse in tono pacato la professoressa che intanto aveva puntato il suo sguardo su di me. Notai con la coda dell'occhio la faccia spaventata che assunse Kendall in quel momento, mentre la mia era più indifferente che mai, essendo per me una consuetudine l'essere sgridata giornalmente e l'essere accompagnata in presidenza per la mia "condotta indisciplinata".
«Signorina Kenneth, mi faccia il piacere di avvicinarsi alla cattedra» sentenziò Satana in persona indicando con l'indice la postazione sulla quale sarei dovuta sostare.
Mi alzai dal banco, incontrando lo sguardo impaurito e preoccupato di Kendall, e quello soddisfatto di altre ragazze con cui non andavo proprio d'amore e d'accordo. Rassicurato Kendall con un mezzo sorriso sornione, con le mani nelle tasche dei jeans mi avvicinai alla cattedra, non provando nessuna paura in assoluto nell'affrontare miss Jeffrey.
Mi fermai proprio davanti la cattedra, guardandola negli occhi con un'espressione indifferente per tutto il tempo. Se pensava di incutermi timore con quella voce stridula cosí simile a quella di mia madre, si sbagliava di grosso. Io non avevo paura né dell'una, nè dell'altra.
«Fuori!» urlò per l'ennesima volta indicando la porta con l'indice.
Senza dire una parola, e senza nemmeno voltarmi, camminai dritta verso la porta e la richiusi alle mie spalle, felice di non dover sorbire un'ora di traduis, repond á les questions o come accidenti si dice, ma soprattutto, felice di non dover sorbire un'ora di miss Jeffrey.
Passai così la prima ora del giorno 11 novembre, passeggiando di corridoio in corridoio con le mani in tasca, il ciuffo riccio e biondo scuro a cadermi sugli occhi contornati da uno strato di matita nera e nient'altro, gli stivaloni neri che scrosciavano contro il pavimento, e lo sguardo perso davanti a me.
Passavo così quasi tutte le ore di miss Jeffrey, motivo per cui il mio francese non era dei migliori.
La causa? Semplice, la odiavo. Ma non di un odio semplice, quello che normalmente prova un alunno nei confronti di un professore, no. La odiavo perché mi rammentava mia madre. Stessa voce, stessi modi, stessa puzza sotto al naso, sebbene di aspetto fossero molto diverse.
Miss Jeffrey era un brutto anatroccolo in confronto alla maestosità del cigno che era mia madre.
Melissa era una donna di quarantatre anni che però non dava assolutamente a vedere. Era una delle classiche donne che vengono notate a prima vista per la loro incantevole bellezza. E direi un'eresia se affermassi che era brutta, perché non lo era affatto.
Mia madre era una donna bellissima, con grandi occhi verdi, i morbidi capelli neri che le cadevano ondulati sulle spalle, con un corpo da fare invidia ad un'adolescente.
Questa era mia madre. L'esatto opposto di ciò che ero io, e ne ero felice. Ero felice perché io volevo essere il suo opposto, nonostante fosse bella da morire, ero felice perché, come conseguenza di essere opposta a lei, assomigliavo in tutto e per tutto a mio padre. E questo mi faceva piacere, perché quando mi guardavo allo specchio, non mi ricordavo di lei, ma di mio padre.
Io ero una normale ventenne, alta non più della media, con capelli ricci che mi rifiutavo di tagliare per puro dispetto nei confronti di mia madre (che di conseguenza avevano assunto una lunghezza rilevante), un corpo con curve non proprio esagerate, specialmente se parliamo della parte superiore, e un paio di occhi cerulei ereditati da mio padre.
* * *
«Signorina Kenneth» mi sentii chiamare da un'inconfondibile voce.
Voltai lo sguardo sulla magra figura in piedi davanti a me.
«Può tornare in classe» disse in un sospiro, guardandomi contrariata.
Mi alzai dalla panchina sulla quale ero seduta con i gomiti sulle ginocchia.
Senza dire una parola mi infilai in classe, sedendomi sul solito banco in fondo.
Già la seconda ora andò meglio, in quanto il professore era maschio e la materia educazione fisica, ma l'uscita fu la parte migliore dell giornata.
L'uscita era sempre la parte migliore della giornata, in quanto Kendall si offriva sempre di darmi uno strappo fino a casa, ovviamente a piedi. E quelli erano i più bei venti minuti del giorno, in cui potevo godere della compagnia dell'unica persona che mi capiva davvero.
Eravamo davvero affiatati, come un fratello e una sorella, motivo per cui, come sempre e immancabilmente accade, c'era chi sosteneva che fossimo fidanzati.
Ma noi ce ne fregavamo di tutto ciò che pensava la gente, e anzi, ci prendevamo spesso e volentieri gioco di loro, fingendo di essere davvero fidanzati soltanto per vedere le facce degli ignoranti che osavano crederci.
Insomma, Kendall era il tipo di persona dal cuore grande, una spalla su cui contare, la mia spalla fin da quando ne ho memoria.
«La signora come sta?» domandò con un sorriso nascosto sotto i baffi che non aveva.
In tutta risposta gli mandai uno sguardo truce. Sapeva che odiavo sentir parlare di lei. Sapeva tutto di me, e ovviamente si divertiva a provocarmi per vedere la reazione.
«La signora sta benissimo, come sempre» risposi con tono acido. Non che non avessi piacere al fatto che mia madre stesse bene, non desideravo assolutamente la sua morte, non ero arrivata a quel punto.
«E il signore?» domandò stavolta seriamente. Anche lui aveva un buon rapporto con "Ediord", così come lo chiamava da piccolo, non riuscendo a pronunciare correttamente il nome "Edward".
«Lui sta bene, il lavoro non gli manca ed ha un ottimo rapporto con Lydia» risposi sorridendo. Per quanto strano potesse sembrare, andavo d'accordo anche con la nuova moglie di mio padre, una brava donna donna, dolce e bella, che gli avevo da subito raccomandato, in quanto fu la mia maestra delle elementari.
«Questo mi fa piacere»
«Anche a me»
«E come va tra Melissa e Gordon?»
Mi misi a ridere. Gordon era uno dei tanti ragazzi di quindici, vent'anni più giovane che mia madre usava per i suoi "sfizi".
«L'ha mollato con il pretesto di essere troppo incapace» risposi con le lacrime agli occhi dal troppo ridere mentre intanto ripensavo allo spettacolino a cui avevo assistito qualche giorno prima.
Come prevedevo che accadesse, anche Kendall scoppiò a ridere alla mia spiegazione, e fu per questo che attirammo involontariamente l'attenzione di alcuni passanti i quali, senza volerlo, sorrisero anche loro nel vederci quasi morti dalle risate.
«Ah, sono certo che ne troverà subito qualcun altro» affermò mentre si asciugava le lacrime agli angoli degli occhi.
«Non ne dubito»
«Eccoci qui»
Estrassi le chiavi dalla tasca e aprii il cancello che separava "villa Brown" dal territorio circostante.
«Non vuoi entrare?»
«Oh, no. Ti ringrazio, vado a casa»
«Ok, allora ci si vede»
«Ci si vede» ricambiò il saluto nel frattempo che si incamminava nella direzione opposta.
Sospirai pesantemente, e chiusi il cancello bianco alle mie spalle. Iniziai ad avviarmi dentro casa, preparandomi psicologicamente ad affrontare ancora una volta una giornata con la sua presenza.
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