Capitolo nove: A pochi centimetri dal baratro
Innania aveva sempre apprezzato la vista del tramonto. Lavorando fin dall'infanzia il suo cervello aveva inziato sin dai primi anni di vita a vedere nel tardo pomeriggio il momento che segnava la fine delle sue fatiche. Quando il sole sporcava il cielo di rosso, Mimica si tingeva di un fascino quasi animalesco. Un momento di pace che saparava la fredda notte, la quale portava sempre con sé la gelida ombra della delinquenza, e il caldo giorno, composto solo da lavoro ed elemosina. Una manciata di minuti dove gli uomini della terra si abbandonavano per poco alla mollezza della vita. Così la città si riposava guardinga, come un gatto randagio accovacciato nelle strade di periferia, pronto a scattare alla vista di un topo e fuggire a quella di una volpe. Durante le serate estive, quando il giorno era lungo e la calura soffocante, la mora adorava stendersi sui tetti delle case vicine per osservare meglio la spettacolare caduta del sole. Spesso portava con sé qualche nuova conquista amorosa di poco conto, un accessorio utile solo ad abbellire quella vista. Ma la magia terminava sempre una volta giunta la notte, quando i più deboli e i pacifisti si ritiravano nelle loro tane ad ascoltare gli ululati di coloro che conoscevano solo violenza, e di violenza si nutrivano.
Quello era il secondo tramonto che Innania osservava dalla città sospesa. La sera in quel luogo incantato era completamente diversa rispetto a quella che si viveva a Mimica: non era un momento di pace, ma un semplice istante di gioia come tanti altri, una felicità così abbondante da essere data per scontata. Le persone uscivano anche durante le ore più buie della notte senza provare paura, non portavano con loro armi né stavano sull'attenti. La ragazza li aveva osservati con il fiato sospeso dalla finestra della sua camera, ammirando assorta le luci che brillavano splendenti trai grattacieli di Alastore, come diamanti che impreziosivano quell'abito appariscente che sfidava persino Dio. La mora guardava in silenzio, senza proferire parola e senza dar peso a quei pensieri che le infestavano la mentre, troppo grandi per una mente pratica come la sua. Non voleva ragionare né riflettere sul peso morale che le era stato posto sulle sue spalle, non voleva scervellarsi per dare una spiegazione a quella fortuna sfacciata, non ne avrebbe trovata una nemmeno rimuginandoci sopra per anni interi. In quel momento l'unica cosa che desiderava era riempirsi di bellezza, voleva che ogni cosa divenisse oro e brilasse più dei suoi dubbi. Sognava di partecipare a quella festa come la principessa che non era mai potuta essere. In quel momento era solo affamata di cibo pregiato e assetata di vino fresco. Egoisticamente voleva godersi quella vita lussuosa che il cielo le aveva donato. Il suo pensiero spesso volegeva a Lucas, ma in quel momento non sapeva nemmeno come mettersi in contatto con lui. Belial l'aveva avvertita che dopo la piccola rivolta, avvenuta durante la Lotteria, quasi tutti gli accessi per Mimica erano stati bloccati e le linee aeree avevano scelto di non far decollare nessun volo per qualche settimana. All'inzio aveva faticato a capire il perchè di tutto quel trambusto, ma alla fine aveva compreso: ora che aveva più soldi, anche la sua vita aveva maggior valore. Gli Alastoriani uccidevano passivamente milioni di persone ogni giorno e questo per loro era corretto, un piccolo prezzo da pagare per il benessere della collettività, e tra quelle persone ci sarebbe potuta essere anche lei se solo non avesse raccolto quel biglietto. Ma ora che faceva parte di quell'elite di angeli, la morte era un'eventualità a cui non doveva nemmeno pensare.
La verità era che quelle persone badavano solo alla vita di coloro che vedevano vicini, e ignoravano la sofferenza di quelli che erano lontani.
Innania aveva imparato ad apprezzare la compagnia di Menasse in quel suo primo vero giorno da Alastoriana. L'uomo non possedeva il fascino pragmatico del marito, ma era una persona onesta e di buon cuore. Sin dalle prime luci dell'alba aveva lavorato come un pazzo per farla sentire a suo agio in quella casa, prodigando battute, cibo e vestiti puliti. Sembrava l'unico a preoccuparsi seriamente per quella giovane ragazza sperduta. Aveva fatto di tutto per procurarle un grazioso abito di seta purpurea in occasione della festa e per ore intere si era impegnato per acconciare i capelli ribelli della donna e per truccare il suo volto spigoloso. La gioia estrema che trapelava da quei piccoli gesti aveva un che di malinconico, un po' come quell'uomo in generale. Sotto i folti capelli rossi e quel sorriso smagliante c'era qualcosa di triste e desolato. In quella creatura dalla bellezza innocente si nascondeva una solitudine immensa.
Le sue conversazioni non parevano avere mai fine, parlava e parlava senza fare pause, sperando di far divertire quella ragazza, che però lo fissava incantata rimanendo in un profondo silenzio, ammutolita alla vista di quella incantevole creatura troppo elegante per essere umano quanto lei. Alla fine quella mattinata era volata via in un battito di ali, parlando del nulla per tempi infiniti. Anche il pomeriggio era stato frivolo, formato solo da chiacchiere e pasticcini, raccontando del più e del meno, senza lasciar trapelare nulla su di loro. Così era giunto il tramonto, quando Belial bussò alla porta per portare l'innocente Innania al ballo che avrebbe decretato la sua morte. E in un valzer di coincidenze ed egoismo umano, quella profezia strampalata sussurrata da una donna malata, stava divenendo reale sotto gli occhi di chi però era cieco.
L'albino era entrato dalla porta d'ingresso verso le sette di sera, con un sorriso elegante stampato sul volto e una sigaretta accesa tra l'indice e il medio della mano sinistra. A passo svelto aveva superato con eleganza il labirinto formato dai corridoi bui della sua magione, infilandosi velocemente nella stanza degli ospiti, dove l'aspettavano Menasse e Innania. La più giovane indossava un bel vestito violaceo che le arrivava fino ai piedi, mossa strategica compiuta per coprirle le gambe tozze, un paio di paperine dorate e un numero spropositato di gioielli e collane. Belial le aveva rivolto un complimento tutt'altro che onesto, lodandola in modo quasi teatrale mentre rivolgeva uno sguardo di sincera gratitudine al marito. Lui e l'uomo avevano una strana intesa, una dolce chimica che li portava a sorridere sempre come bambini ogni volta che si trovavano insieme. Forse quella romantica storia d'amore era capace di far sciogliere i cuori puri e riempire di lacrime gli occhi ingenui degli Alastoriani, ma la mora era abituata a vedere il marcio anche dove era assente.
Belial appoggiò le sue labbra su quelle del marito, che sorrise compiaciuto da quel gesto affettuoso, ricambiando con un abbraccio quasi fanciullesco.
《Tornerò tardi, tu va a risposarti, non voglio che tu ti affatichi troppo. Sta attento, controlla che tutto sia chiuso in modo ermetico, non uscire di notte e chiama se hai bisogno di qualcosa. Ti porterei con me ma...》aveva sussurrato il politico nell'orecchio del consorte, prima di abbassare maggiormente la voce per non farsi sentire. Accarezzò la guancia del suo amante con una dolcezza estrema, mostrandosi per la prima volta realmente vulnerabile, senza nemmeno rendersi conto di averlo fatto. Era una scena strana, uno schizzo della vita privata di Belial, che faceva sentire la mimicana tremendamente fuoriluogo. L'albino in quel momento era diverso, non si era mai mostrato così fragile come in quel momento, nemmeno le sue lacrime dicevano tanto sulla sua persona quanto il modo in cui arricciava con le dita i lunghi capelli rossi del marito. Lo sguardo che rivolgeva al suo sposo era pieno di un amore senza precedenti, un affetto similare a quello di cui cantano i libri. Ma era una lama a doppio taglio, un sentimento pericoloso, uno di quelli che ti portano alla rovina o al successo. In quel mistero istante Belial si mostrò sottomesso, in un modo che non aveva nulla a che fare con l'inchino del giorno prima. In quella manciata di secondi la giovane pensò a una cosa che fino a poco prima andava contro ad ogni suo principio morale: Menasse era il nervo scoperto di Belial, bastava colpire lui per ferire l'albino. Era quell'uomo la granzia del loro accordo.
Lo stomaco le si chiuse di botto, lasciandola impietrita. Aveva vissuto per anni a Mimica, nelle condizioni peggiori e con un padre moribondo a cui badare, ma per tutto quel tempo l'omicidio premeditato non le era mai passato per la mente, nemmeno nei periodi di sconforto maggiori. La facilità con cui aveva pensato di far del male all'uomo con il quale aveva scherzato fino a cinque minuti prima la lasciò di stucco. Il suo cuore perse un battito mentre si lasciava scivolare adosso quella malsana idea.
Quel posto la stava cambiando, e lo stava facendo troppo velocemente.
Innania voltò la testa, incapace di continuare ad osservare i due uomini che innocente si scambiavano effusioni, disgustata da se stessa, ma colpevole solo dei suoi pensieri. Mentre il tramonto le faceva da balia, i fiori del male germogliavano nel suo cuore.
Le automobili Alastoriane erano molto diverse rispetto alle poche che la minore era abituata a vedere nella metropoli terrena. Non possedevano ruote né un volante, si muovevano da sole senza mai toccare la strada, volando a pochi centimetri dal suolo. Esse erano anche capaci di raggiungere velocità sconosciute ai Mimicani ed erano dotate di piccole televisioni. Quella del politico era di un bel colore nero, grande quanto una limousine e formata da due file di sedili color porpora. Assomigliava ad un piccolo salotto volante, il quale veloce galoppava trai grattacieli di quel paradiso perduto. Belial aveva provato ad intavolare una discussione con la minore, raccontandole la storia delle campagne Alastoriane, della vita notturna della città sospesa e del quartiere dove abitavano, ma alla fine si era arreso davanti al silenzio della ragazza, iniziando a fumare una sigaretta leggermente offeso.
Innania si guardava intorno meravigliata dai palazzi trasparenti che parevano estendersi fino alla luna neonata. Pareva divertita e al contempo spaventata dalle grida divertite che si levavano dai quartieri illuminati a giorno, dalle discoteche rumorose e dai vestiti sgargianti che indossavano gli abitanti di quella splendente metropoli. La diciottenne aveva notato come anche Alastore fosse formata da diversi distretti, esattamente come Mimica: il centro della città era composto dai grattacieli più alti che gli uomini avessero mai costruito, uniti tra di loro da piccoli corridoi sospesi nel vuoto. La parte più periferica invece era formata da grandi villette a schiera dove la vita pareva tranquilla e pacifica. Infine c'erano le poche abitazioni situate vicino al confine della città, un piccolo ghetto composto da palazzotti anonimi e minuscole baraccopoli.
La macchina volava a pochi centimetri d'altezza dalla strada, percorrendo veloce le vie periferiche costellate da ville lussuose. Innania era sdraiata su un divanetto purpureo ad osservare il panorama dal finestrino. La vita in quel luogo sembrava magnifica, non c'era sangue a sporcare i marciapiedi, non c'erano stupri né violenze, tutto il marcio dell'umanità era rimasto a Mimica e solo il bello e il puro avevano avuto l'audacia di sfiorare il cielo. Le madri camminavano stringendo i figli al petto, parlavano tra di loro e non parevano avere problemi, non si preoccupavano per la vita dei neonati che tenevano tra le braccia, non piangevano sui loro corpi senza vita, erano spensierate. Anche le stelle brillavano nel cielo illuminando i visi allegri di quella persone. I ristoranti erano pieni di gente che conversava civilmente senza bisogno di prendersi a pugni per una porzione di stufato, ma anzi, alcuni buttavano via il cibo o nemmeno lo assaggiavano (cosa che si poteva notare dai numerosi bidoni della spazzatura pieni di avanzi posti fuori dai locali). Prima che la ragazza potesse aprire bocca per esprirmere il suo disgusto, l'automobile si fermò davanti ad una villa color rosa pastello che spiccava in mezzo alla campagnia Alastoriana.
Appena entrata in quella casa Innania notò il forte odore che si sentiva all'interno dell'abitazione, un miscuglio di colonie tutte diverse, profumi intensi che si scontravano tra di loro. Le pareti lilà del grande atrio erano decorate con quadri rinascinentali e grandi finestre a mosaico raffiguranti episodi biblici, la diciottenne però riconobbe solo l'ultima cena e la crocifissione di Gesù. Nel pavimento a scacchiera erano incisi i nomi degli avi del console maggiore, molto simili ai dipinti di casa Hill. Ai lati erano apparecchiati due grandi tavoli di legno con sopra posizionato un ricco buffet a base di carne. Almeno una trentina di persone erano ammucchiate nella stanza, curiose di vedere la famosa Mimicana che era riuscita a fregarli.
《Brutto bastardo》sussurrò Belial con un disprezzo viscerale guardando con odio le grandi bistecche messe in bella mostra.
Innania fece per chiedere al maggiore se stesse bene, ma appena aprì bocca la folla parve magicamente notarla e in massa tutti si diressero verso di lei.
Un gruppo ben nutrito di Mimicani finì per assalirla con domande assurde, balbettate, urlate ai quattro venti o di cui nemmeno la mora sapeva la risposta. I loro vestiti eccentrici ed ingombranti iniziarono a formare un muro che la separava dal resto della sala. Innania si guardava intorno con un cerbiatto spaventato dai fari della macchina, senza sapere cosa dire ne cosa fare. Il suo punto di riferimento, Belial, era stato inghiottito dal tumulto, lasciandola sola ad affrontare i suoi ammiratori che fino a qualche giorno prima erano i suoi aguzzini. La loro bellezza celestiale era diventata improvvisamente grottesca agli occhi della piccola ragazza, intimorita da quei mostri dalla pelle perfetta e i corpi innaturali. L'accerchiavano, la toccavano, le parlavano, le sussurravano e le gridavano, attirando altri curiosi che a loro volta replicano i gesti dei loro colleghi.
Quando ormai la mora parve sull'orlo della pazzia, venne salvata dal rumore di una bottiglia di vetro che si infranse al suolo. Essa era stata scagliata con rabbia contro uno degli assalitori, ma che per fortuna o per saggezza umana, aveva mancato il bersaglio.
《Hey, se volevate fare un orgia dovevate invitarmi》scherzò una voce acuta, tipica degli adolescenti. Un ragazzino dai grandi occhi blu si fece largo tra gli ospiti, con adosso un sorriso spavaldo e l'odore di vodka appiccicato ai vestiti. Non era alto né possente, anzi, sembrava in fin di vita, con quel volto pallido, quel fisico scarno e quelle occhiaie marcate. I capelli bianchi e neri erano ricoperti da glitter e il volto mascherato da un trucco gotico, che per sfortuna del minore, non poteva celare i lividi e i graffi che tutti in quella sala stavano ignorando.
《Lasciatemi parlare con la nostra ospite o vi attacco la gonorrea》borbottò atono muovendo le mani per farsi largo tra i borghesi basiti e sconfortati da quelle parole. Assomigliava a Mosè che intrepido separava le acque per portare in salvo il suo popolo.
Inannia lo riconobbe subito, era Raziel, la puttana del console.
//Angolo autrice: scusate per il capitolo di merda
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