Capitolo 2

~ Luna ~

Quando sei circondata da persone che non si accorgono di niente, alla fine cominci a credere di essere invisibile.
Potrei mettermi a urlare quello che sento. Non sono sicura mi sentirebbero. E anche solo simulare un sorriso diventa difficile.
Finita.
Fatta a pezzi.
Cocci incompatibili pieni di fragilità, me li tengo dentro. Li accumulo come perle in un portagioie. In un abisso senza fondo, infinito come il buio.
Ho ingoiato talmente tante boccate d'aria, da sapere restare in apnea quando le situazioni lo richiedono.
Questo è decisamente uno di quei momenti. Mi ritrovo a cena con i miei genitori e sto letteralmente impazzendo.
Guardo distratta dalla vetrata.
I raggi del sole hanno creato bellissime sfumature dorate sull'acqua increspata dalle lievi onde che raggiungono la riva in un via vai tranquillo. Il cielo si sta tingendo di rosso, rosa e arancio preparandosi al tramonto. È così piacevole da sembrare lo sfondo di un film irripetibile.
La voglia di aprire la vetrata e lasciare entrare in casa l'odore dell'oceano, il calore della giornata che volge al termine, quello della libertà, è tanta. Ma non approverebbero.
«Tesoro, mi stai ascoltando?»
Distolgo lo sguardo dalla vetrata. Mio padre attende una risposta con aria severa.
«Certo. Continua pure», mento.
Quale era l'argomento? Da quanto sta parlando?
Ector Maddox non è un uomo qualunque. Come dice sempre sua madre: da quando è nato è destinato al successo. Il che ha un fondo di verità.
Non fa che parlare di affari, dei suoi successi, degli impegni e di ogni singola cosa riesca a metterlo al centro dell'attenzione.
È un uomo competitivo e incline ad ottenere con qualsiasi mezzo quello che vuole. Tradotto nel gergo dei comuni mortali: è un egocentrico del cazzo. Per mia madre invece, è un genio di talento, ma solo quando può spendere come e quando vuole i soldi che lui guadagna.
Rigiro la forchetta nel piatto pieno di asparagi e una salsa simile al budino accanto al purè di patate.
Mi si è chiuso lo stomaco quando hanno iniziato a parlare di feste e così tanti eventi a cui partecipare, da farmi venire una forte emicrania.
Non pensano a nient'altro. Non vedono che soldi, amicizie o nuove alleanze da stringere, affari da concludere.
Per un po' avevo quasi dimenticato quanto fosse snervante tutto questo, la mia vita in generale. Mi sono illusa di avere assaggiato un po' di libertà.
Non so nemmeno io perché mi trovo a Santa Cruz e non ancora a Berkeley. Lì almeno avrei potuto decidere da sola cosa mettermi addosso senza sembrare un manichino per una comunissima cena o cosa mangiare senza avvertire la nausea ad ogni boccone.
Nella mia stanza, tra le mie cose, avrei guardato una serie TV o ascoltato un audiolibro. Mi sarei sentita la vera Luna. Non una creatura dei miei genitori.
Ricevo un messaggio da parte di Alissa. Una sorta di sos che leggo di nascosto.
A tavola non è consentito usare i cellulari. Ma questa regola vale solo per la sottoscritta. E per mio fratello, se solo si fosse degnato di raggiungerci almeno per qualche giorno. Ma a Peter è stato concesso di stare lontano dalla famiglia per potersi divertire insieme ai suoi nuovi amici della squadra.
Da un lato è colpa mia se mi trovo qui. Sono stata io a seguire Alissa. L'ho fatto senza riflettere su come mi sarei sentita una volta avere rimesso piede in questo ambiente.
Attualmente, abbiamo entrambe bisogno di uscire e di allontanarci dalle nostre famiglie. Non che qui i posti siano tutti sicuri e le persone che abbiamo rivisto dopo tanto tempo a quella festa in spiaggia gentili. Ma tutto è decisamente meglio di una cena con i Maddox. Correrei qualsiasi rischio.
Schiarisco la voce. «Papà», attiro la sua attenzione, interrompendo per un momento il suo sproloquio.
Mia madre, sbattendo incredula le ciglia finte, mi rivolge la sua attenzione guardandomi come se avessi appena affrontato un argomento scottante.
Lei è sempre così perfetta, posata, incipriata. Una sorta di bambola gonfiabile remissiva.
Durante l'adolescenza ci sono stati momenti in cui avrei tanto voluto scuoterla e farla riprendere, supplicarla di comportarsi da genitore e non da viziata e moglie trofeo dell'anno. Soprattutto quando c'erano delle riunioni o eventi importanti a scuola e lei continuava a mettersi in mostra tralasciando un fatto importante: me.
«Posso prendere la tua auto? Io e Alissa usciamo un po' stasera».
«Ma certo, prendi pure la Mustang rossa, tesoro. La trovi in garage», continua a parlare con mia madre come se niente fosse. «Torna presto, mi raccomando. Non mi piace vederti rientrare come una ladra all'alba. E niente ragazzi in camera. Sai bene che...»
Sbuffo e mi allontano da tavola senza nemmeno ascoltarlo quando nomina i Wells, la famiglia di Declan.
Vado a cambiarmi, indossando degli shorts in denim chiari e a vita alta, insieme a un top color acquamarina con la schiena scoperta e i miei gioielli preferiti: una collanina con il ciondolo a forma di stella e due anellini che tengo sulle falangi del pollice e dell'indice.
Una volta in garage, avvolta dall'odore di olio, lucido da scarpe e pulito, invio un messaggio alla mia amica, avvisandola che tra non molto sarò da lei.

Alissa: "Sto prendendo da bere. Ne avremo bisogno. Sbrigati, così possiamo andare da qualche parte a divertirci. Non sopporto più i miei battibeccare. 🙄"
Luna: "Arrivo. 😉"

Alissa sa come mi sento in quanto vive la mia stessa situazione.
Entrambe siamo state trascurante. Lei a causa della sorella maggiore, sempre perfetta e pronta a prendersi la scena ovunque e per qualsiasi cosa.
Io a causa dei miei genitori che non hanno mai avuto poi così tanto tempo da dedicarmi. Per non contare di mio fratello, Peter, bravo nel mettersi nei guai e in risalto grazie al suo talento sul campo di football.
Forse è anche per questo che siamo amiche io e Alissa. Riconosciamo di avere bisogno di qualcosa, ma non ne abbiamo mai fatto un dramma con nessuno. Non abbiamo nemmeno creato grossi problemi al liceo. Volevamo solo vivere ogni esperienza come facevano tutti. Purtroppo non sempre è andata così.
Accendo il motore facendo ruggire la Mustang rosso fiamma, un gioiellino della collezione di Ector Maddox, e dopo avere fatto marcia indietro e avere svoltato a sinistra, proseguo con attenzione lungo una stradina secondaria.
È da un po' che non guido e non voglio ritrovarmi in mezzo al traffico o rovinare quest'auto.
Mio padre solitamente preferisce che io abbia un autista ad accompagnarmi ovunque. Ma non stasera. Non glielo avrei permesso. Non per farmi altri nemici.
Percorro una strada in mezzo al boschetto, rincorsa dagli ultimi raggi del sole. Con i capelli che svolazzano un po' ovunque, perché non mi andava di legarli, e la musica che si diffonde dallo stereo sintonizzato su una vecchia stazione radio.
All'improvviso succede qualcosa che non avevo previsto. L'auto comincia a vibrare in maniera sospetta. Premo il piede sul freno e non funziona come dovrebbe. Le spie sul pannello cominciano a lampeggiare una dietro l'altra, a partire da quella che potrebbe sembrare un sottomarino.
Dopo pochi istanti, in cui non riesco proprio a capire cosa fare, arriva il peggio: il fumo fuoriesce dal cofano motore, costringendomi a fermarmi tirando il freno a mano, in seguito a una sterzata degna di nota per evitare un gatto.
«Merda!», mi lamento uscendo come un razzo dalla vettura, rischiando di farmi male. «No, no, no!», sbatto la portiera portando le mani sulla testa.
«Dannata Mustang!», ringhio mollando un calcio alla ruota anteriore.
Provo a chiamare mio padre, ma qui il segnale è pessimo, anzi direi proprio inesistente.
«Andiamo, andiamo!»
La batteria lampeggia, il cellulare emette un sonoro bip e dopo appena pochi secondi lo schermo diventa nero.
Intuendo che la fortuna non sia di certo dalla mia parte, senza agitarmi ulteriormente e senza sfidare la sorte, mi guardo intorno per trovare una soluzione. Ma non vedo che alberi a circondarmi.
I quartieri più popolati si trovano dall'altra parte della zona e a piedi impiegherei troppo tempo per raggiungere Villa Spencer.
Controllo che per strada o nei paraggi non ci sia nessuno a potermi dare una mano.
C'è solo un sentiero. Lo percorro ritrovandomi, dopo un breve tratto di strada, in un quartiere pieno di piccole casette. Alcune sono in legno e sembrano disabitate o ancora in fase di costruzione; mentre quelle in fondo hanno quel non so che capace di spingermi ad avvicinarmi.
Somigliano tanto alle casette di marzapane descritte nei libri. Mi auguro non ci viva nessuna strega.
Salgo sul portico della prima e sento abbaiare un cane all'interno. Protendo il pugno, pronta a bussare. La porta si spalanca prima ancora che io me ne renda conto facendomi balzare all'indietro dalla paura.
Emetto un verso simile a quello di un topo che scappa quando un minuscolo cane bianco schizza fuori superando le mie gambe e una figura si staglia davanti a me.
Sollevo lo sguardo e mi ritrovo Toren Connor sulla soglia.
Mi si rizzano i peli sulle braccia ed è come se mi avessero sollevata all'improvviso dal suolo senza darmi la possibilità di aggrapparmi a qualcosa per non volare lontano.
Questa non ci voleva. Tra tutti gli abitanti, proprio lui dovevo incontrare durante una situazione di emergenza?
«E tu che ci fai qui?», domanda sorpreso e allo stesso tempo brusco.
Per un momento non riesco a parlare. Ho la lingua attaccata al palato quando sento qualcosa di caldo sulla gamba.
Abbasso a rallentatore gli occhi, proprio come se dovessi trovarci qualcosa di viscido attaccato sopra, e sono più che pronta a urlare a pieni polmoni, ma è solo il cane che mi sta leccando e annusando, scodinzolando con la sua minuscola coda.
Mi scosto lievemente prima di flettermi sulle ginocchia e fargli una carezza sulle guance. «Ciao. Sai che sei proprio tenero?»
Tor fischia e il cane, seppur controvoglia, torna in casa ubbidiente. «Ho fatto una domanda».
La sua voce fredda come acciaio e roca come un graffio mi scivola sulla pelle. Il mio corpo reagisce perdendo ogni capacità funzionale, e per uno stupido millesimo di secondo penso che potrei accettare qualsiasi cosa dirà.
Poi però, come se il mio cervello avesse rivenuto il giusto impulso, ricordo chi è, cosa rappresenta e arretro. Il calore defluisce dal mio corpo lasciando solo il freddo. Sono costretta a recuperare l'equilibrio e a rispondere alle onde di terrore misto a sorpresa che mi si abbattono sullo sterno.
Passo nervosa le mani sudate sul tessuto degli shorts. «Ciao. So che sembra una sciocchezza ma la mia macchina si è rotta, credo. Così stavo cercando aiuto, dato che il segnale è praticamente inesistente da queste parti e la batteria del mio cellulare è appena morta. In più i quartieri abitati sono tutti dall'altra parte», indico alle mie spalle. «Non pensavo vivessi qui quando ho bussato», concludo in fretta, supplicandolo mentalmente di credermi.
Soppesa il mio sguardo strizzando lievemente la palpebra e deglutisco a fatica cercando di non arrossire.
Al falò non riuscivo a credere di trovarmi di fronte a lui. L'ho riconosciuto, ma a stento.
È cambiato molto dall'ultima volta che l'ho visto. L'uomo che ho di fronte è diverso dal ragazzo di cui ho molteplici ricordi. Sembra essersi rivestito da una spessa corazza. Ma ha ancora quello sguardo. Fissa il mondo con strafottenza e me con una indifferenza tale da farmi sentire sul punto di sciogliermi come cera sotto il calore della fiamma.
«Si è rotta?»
C'è una sorta di nota derisoria nel suo tono. Accantono il lieve fastidio che mi provoca per spiegare quello che mi è successo: «Le spie hanno iniziato a lampeggiare e prima che potessi capire cosa stesse succedendo il fumo è uscito dal cofano anteriore», gesticolo, sperando che per lui non sia uno scherzo. «Una delle spie era a forma di sottomarino o un pesce, non saprei dirlo».
Stringe le labbra come se trattenesse un sorriso, guarda dentro casa accigliato, poi chiude la portazanzariera indicandomi la strada. «Mostrami quest'auto», ribatte annoiato.
I miei occhi saettano intorno guardinghi. «Puoi chiamare un carro attrezzi per me?»
Solleva l'angolo del labbro e questa volta sfodera un sorriso tagliente come una lama. «Se avessi fatto le tue ricerche sapresti che sono io l'unico meccanico nel circondario».
Oh merda!
Mi segue in silenzio, apparentemente tranquillo, fino alla Mustang che ho lasciato di traverso su una collinetta. Quest'ultima sta ancora mandando sbuffi di fumo.
Lui sgrana gli occhi, passa lo sguardo da me all'auto. Infine emette un fischio. «Però...»
«È così grave?», domando mordicchiandomi il labbro e torturandomi le dita.
«Sei stata fortunata a non essere esplosa su quel catorcio con del potenziale. Chi cazzo ti ha dato quest'auto senza prima avere controllato che fosse in grado di immettersi su strada? Scommetto che era tenuta in un garage a fare la muffa».
Arrossisco al tono brusco della sua voce roca. «Mio padre ha detto che potevo prenderla. Avevo bisogno di uscire. Io non pensavo...»
«Testa di cazzo!», sibila aprendo il cofano anteriore. Per non inalare il fumo tira su la bandana che porta al collo, quella con un teschio circondato da rose raffigurato sopra. «Tipico dei Maddox non pensare a niente se non di avere il mondo ai piedi».
Sto cercando di non guardarlo, ma ogni mio tentativo sembra del tutto inutile.
I suoi capelli corvini, i suoi occhi freddi come nuvole temporalesche, le ciglia folte e arcuate, l'accenno di barba; e poi ancora quei muscoli sodi e quei tatuaggi intricati, ingarbugliati sulle braccia e sul busto coperto da una T-shirt bianca; quelle vene che si ingrossano a ogni movimento...
È impossibile da ignorare la forza e la potenza che emana.
Toren Connor possiede una bellezza fuori dal comune. L'unica caratteristica a spiccare in lui però è sempre stata la rudezza dei suoi modi.
Fa un paio di smorfie toccando qualcosa, entra in auto provando ad accenderla. Quando ne esce non ha nessuna espressione dominante in volto.
«Vuoi una lista accurata dei danni o un breve riassunto?»
«Sentiamo la lista», mi preparo alla brutta notizia.
«Il radiatore è andato, a occhio e croce le candele devono essere sostituite. Il livello dell'acqua è inesistente e... manca l'olio perché quello che c'era si è fritto quasi insieme all'auto. Per non parlare della batteria, dei freni nuovi che servono e c'è anche bisogno di allineare le ruote», chiude il cofano anteriore scuotendo le mani. «Per riassumere: è fottuta. Mi spieghi dove cazzo volevi andare con questo catorcio?»
Indietreggio di un passo sentendomi rimproverata. «Non immaginavo che avrei avuto così tanti problemi».
Tira giù la bandana. Una strisciolina di sporco gli è appena rimasta sullo zigomo.
Conficco le unghie sulle braccia che tengo conserte per non muovermi e pulirgliela. Se lo facessi non saprei come reagirebbe.
Tor non ha niente di gentile in corpo. È sempre stato una sorta di animale che ringhia e azzanna. Rissoso, temuto, forte, incontrollabile. Un vero e proprio demonio sceso sulla terra.
L'ho sempre visto nelle vesti del cattivo ragazzo. Adesso però davanti a me c'è qualcosa di più. Non c'è più quella traccia di spensieratezza che lasciava uscire un tempo. È adulto. Ombroso. A tratti triste. Che cosa gli è successo?
«Non pensava nemmeno tuo padre quando ti ha permesso di guidarla. Ma lo avrebbe fatto quando qualcuno lo avrebbe chiamato dicendogli che la figlia era saltata per aria e poteva trovarla sparsa per la zona», sbrocca allontanandosi a grandi passi.
«Dove stai andando?»
«A casa. Non lavoro durante il week-end. Lascia pure lì il tuo rottame. Me ne occuperò lunedì».
Mi guardo intorno. Fuori inizia a fare buio. «E io come torno indietro?»
Si ferma. I suoi occhi fanno un pigro su e giù. «Non è affar mio. Chiama la tua amica psicopatica e fatti venire a prendere. Si sbellicherà dalle risate quando saprà come sei finita in questa situazione. Magari vorrà pure scattarti una foto per farlo sapere a tutti. In questo modo acquisterete popolarità tra i vostri simili».
Stringo la presa sulla tracolla della borsetta. «Alissa non ha mai preso la patente e non ricordi? Ho il cellulare scarico», sbuffo. «Comunque grazie tante per avere espresso la tua opinione non richiesta in merito!», mi incammino.
Non dovrebbe importarmi delle sue parole usate di proposito per prendersi gioco di me. Non dovrei sostare sulla ragione del suo attuale atteggiamento. Chiaramente non sono altro che un contrattempo momentaneo.
Vuole solo ferirmi. E ci è riuscito.
So che non dovrei nemmeno parlare con lui. Perché ogni singola volta è stato capace di strappare via un pezzetto di me. Ci ho messo anni ad attaccarmi di nuovo da sola. Così mi mordo la lingua e mi avvio infuriata lungo la strada.
Lo odio. E mi basta per non avvicinarmi più a lui.
«Stai andando a piedi?». C'è esitazione nella sua voce.
Mi volto come una furia. «Non so ancora usare il teletrasporto, idiota».
Solleva un angolo del labbro. «Un carro attrezzi tra poco verrà a prendere la tua auto e la porterà nella mia officina», replica digitando qualcosa sullo schermo del suo cellulare.
«Bene. Lo riferirò a mio padre appena e se arriverò a casa incolume».
«Ti avverto già che ci vorranno un paio di giorni per ripararla», mi fa presente.
«Giorni? Sul serio?», gli occhi per poco non mi fuoriescono dalle orbite.
Pesto i piedi sull'asfalto. «Merda», mimo a denti stretti. «E io che pensavo che il problema fosse risolvibile, che ne so, magari in poche ore».
«Ho altri lavori da concludere. Poi come ti ho detto non lavoro durante il week-end e per la cronaca: non so ancora aggiustare gli oggetti con la forza del pensiero, genio!», usa il mio stesso tono, ma con scherno.
Nascondo un sorriso mesto. «Perfetto. Come sempre è stato bello avere a che fare con te, Tor».
«Lo stesso vale per te, Miele».
Alzo gli occhi al cielo e sollevo il medio mentre mi allontano, lasciandomi alle spalle la ragione del mio improvviso malumore.
Mio padre non sarà affatto contento.
Non avrei dovuto lasciare l'auto incustodita. Soprattutto permettere che fosse Toren Connor ad averla nella sua officina. Ma penserò a questo più tardi, quando sarò riuscita a tornare indietro sana e salva.

***

Mentre cammino mi sembra di non avvicinarmi mai a villa Spenser.
Il buio comincia ad essere sempre più fitto, ma di auto che passano non c'è nessuna traccia.
Perché dovevo prendere proprio da questo lato della città per raggiungere Alissa?
Sento il rombo di una moto e in pochi istanti mi supera a gran velocità, mentre provo ad accendere il cellulare.
Frugando distratta dentro la borsa ho trovato il caricatore portatile e speranzosa attendo che sia tornata la rete per riuscire a chiamare mio padre e Alissa, quasi sicuramente in attesa e preoccupata.
La moto si ferma, ma non viene spenta dal conducente. Rallento il passo percependo il pericolo e supero il tizio con nonchalance.
«Salta su, Miele».
Mi irrigidisco. «Tor?», la sorpresa è evidente dal mio tono e dalla mia reazione.
«E chi se no? Andiamo, sali. Non ho tutta la serata a disposizione», toglie il casco e mi fissa con quelle iridi mozzafiato, facendomi sentire a disagio e in difetto per qualcosa che non ho di certo fatto.
«Dovrei salire su quella moto con te?»
Non so se le mie parole accompagnate dal mio tono l'abbiano appena ferito. Me ne rendo conto troppo tardi di essere apparsa come una stupida ochetta dei piani alti, quelle che da sempre mi disgustano. Non posso nemmeno chiedere scusa perché so che lui non lo accetterebbe.
«Vedi qualcun altro intenzionato a darti un passaggio? Direi di no. Quindi smettila di fare la ragazzina viziata e salta su».
La prepotenza con cui mi parla, mi fa innervosire. So che dovrei trattarlo con un po' di rispetto perché sta cercando di aiutarmi, ma odio quando mi si impongono le cose.
«Per favore».
Inarca un sopracciglio ben delineato. «Dici sul serio?», mi fredda seduta stante. «Sei tu quella che ha bisogno di aiuto».
«Chiedilo gentilmente».
Stropiccia una palpebra. «Cazzo», brontola, tirando un po' su con il naso. «Con tutte le principesse perché proprio tu? Sali o cammina. Ultimo avviso», rimette il casco e fa ruggire la moto.
Il cuore prende a battermi all'impazzata. Non vedo altra soluzione. «Salgo solo se andrai piano».
Non mi serve vederlo per sapere che sta sorridendo, nascosto dietro la visiera del casco.
Mi domando se faccia ancora quella smorfia. Una volta arricciava lievemente il naso e contemporaneamente sollevava l'angolo del labbro e il sopracciglio. Era buffo ma, allo stesso tempo, attraente.
«Velocità moderata quando c'è qualcuno in sella alla moto con me», mi passa un casco.
Una scintilla mi colpisce il petto. Perché il pensiero che possa essere salita un'altra ragazza su questa moto mi dà fastidio?
Insomma, lui è Tor. Uno stronzo che mi ha reso l'adolescenza incredibilmente orribile. Non siamo niente.
Eppure è andato a prendere la moto e si è fermato per darti un passaggio. Mi suggerisce la vocina dentro la testa.
Salgo impacciata in sella.
«Reggiti», mi avvisa senza toccarmi come farebbe chiunque in una situazione come questa.
Lego i capelli in una treccia laterale, infilo il casco. Prendo coraggio e dopo un momento di esitazione circondo con le braccia il suo addome caldo e solido come cemento, sotto lo strato della T-shirt nera.
Ha avuto pure il tempo di cambiarsi.
Da questo comprendo che ha premeditato tutto e si sta godendo ogni secondo.
Che bastardo!
Chiudo gli occhi premendo la guancia sulla sua spalla, sentendo nelle orecchie solo il battito deciso del mio cuore e mi preparo.
Tor preme sul gas e partiamo a una velocità che non riesco nemmeno a descrivere.
Vorrei mettermi a urlare. Purtroppo per me sarebbe imbarazzate.
Lurido pezzo di merda!
Stringo la presa per fargli capire che sta esagerando, ma lui non rallenta. Fa slalom divertito portandomi in direzione della villa di Alissa.
Quest'ultima mi sta aspettando sotto il portico, il telefono in mano e l'espressione di chi non sa che cosa fare.
Non sono mai stata una persona ritardataria. Mi conosce e avrà sicuramente molte domande.
Quando scendo dalla moto a pochi metri dal cancello, mi tremano le gambe. Sono ubriaca del profumo di Tor e di fronte a me, appena sollevo la testa, trovo un diavolo pronto a tentarmi.
Disgustata da me stessa per avergli permesso di provocarmi strane e forti vibrazioni, mi allontano di un passo per riprendere fiato. Ma i suoi occhi non mi lasciano andare.
«Mi avevi dato la tua parola. Sei proprio uno stronzo!»
Sorride sghembo tenendo il casco contro la gamba, passando una mano tra i capelli scuri. «È stato divertente sentire come ti stringevi al mio corpo senza vergogna o disgusto», mi strizza l'occhio. «Mi sono eccitato, Miele. Magari quando vorrai, possiamo rifarlo».
Avvampo. La punta delle orecchie mi prende fuoco quando abbasso gli occhi sul cavallo dei suoi jeans trovandolo rigonfio.
Merda. Merda. Merda.
Distolgo lo sguardo per un breve momento ricomponendo i miei pezzi. «Sei anche un maiale. A ogni modo grazie del passaggio», gli sbatto il casco sul petto.
«Ti aspetto lunedì in officina, Miele. Non voglio vedere tuo padre nei paraggi. Se succede, spedisco a casa tua quell'auto un pezzo dietro l'altro».
Mi sta minacciando?
Senza darmi diritto di replica, accende la moto e corre lontano lasciandomi inebetita.
«Quello era...»
Mi volto lentamente, colta alla sprovvista dalla voce della mia amica.
Avevo dimenticato che fosse sul portico ad aspettarmi. Da quanto tempo è qui vicino?
«Non è come sembra», dico con voce stridula, anticipando la risposta alla sua prossima domanda: «Mi ha solo dato un passaggio. La Mustang di papà mi ha abbandonata sul ciglio della strada. Rischiava di prendere fuoco con me dentro. Il telefono si è spento e ho trovato solo dopo il caricatore».
Alissa sta ancora guardando a bocca aperta il punto in cui prima c'era lui. Con quel sorriso da stronzo e quella boccaccia capace di far vacillare chiunque.
«E Tor come l'hai incontrato?», c'è scetticismo nel suo tono.
La seguo e ci sediamo in giardino. Mi offre subito da bere prendendo due bottiglie dal contenitore che avremmo dovuto portare con noi.
«Allora?»
«Ho bussato alla porta di una casetta per chiedere aiuto ed è uscito proprio lui».
Spalanca gli occhi e si agita, pronta a gustarsi il mio racconto. «E ti ha accompagnata senza fare storie o chiedere niente in cambio?»
Prendo la bottiglia che mi sta porgendo. «Be', direi che mio padre pagherà ogni suo lavoro sull'auto. Sono certa che troverà qualsiasi pezzo da sostituire per farmela pagare».
Corruga la fronte. Le passo il dito per fargliela distendere. «Che c'è?»
Beve un lungo sorso. Non riesco a capire la sua reazione. Da quando siamo tornate a Santa Cruz è diversa.
«C'è che vedervi lì a parlare come se niente fosse è stato alquanto strano», sfoggia un sorriso falso.
Nascondo il rossore. «Ali, mi ha solo dato un passaggio e per la cronaca guida quella moto come un pazzo. E non stavamo propriamente parlando. Stavo rimarcando quanto sia pessimo alla guida e lui mi stava solo dicendo che lunedì l'auto sarà nella sua officina e mi toccherà andare senza mio padre perché ovviamente non vuole avere a che fare con lui».
Alissa riflette un momento, poi rilassa le spalle prima di sollevarsi dalla sedia di scatto. «Sei impazzita? Tu non ci andrai da sola!»
«Sai come ragionano in questo posto. Mio padre è visto come il cattivo solo perché è riuscito ad arricchirsi. Di conseguenza lo sono anch'io. Ha minacciato di mandare a casa l'auto fatta a pezzi. Non so tu ma io ci credo, ne è capace».
Trangugia tutta la birra. «Merda! Questa non ci voleva. Ma non puoi andare in officina da sola. Ti accompagno io e se non mi vuole lì aspetterò fuori».
«Davvero?»
«Ovvio che sì».
Possibile che lo stia facendo per me e non ci sia un doppio fine? È stata lei in fondo a spingermi a tornare a Santa Cruz per le vacanze.
«Cosa ti ha detto prima che se ne andasse?»
Ripenso alle sue parole e divento rossa.
Se ne accorge. Non le sfugge mai niente. «Non dirmi...», finge di pensare picchiettando l'indice sul labbro inferiore coperto da uno strato di rossetto rosa. «Ha detto che si è eccitato?»
Confermo. «A volte dimentico la ragione che mi ha sempre tenuta a distanza da lui. Poi mi basta averci a che fare per due minuti», sospiro. «Adesso possiamo cambiare argomento? È da tempo che tento di andare avanti senza l'ombra di Tor alle spalle o quella di mio fratello».
Alissa mi concede una breve pausa parlandomi dei suoi piani per quest'estate. La ascolto, ma la mia mente è rimasta intrappolata altrove.

♥️

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