🌒 Capitolo 6 🌒
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Non ero sicura di quanto tempo fosse passato.
Aaron si era avventurato alla ricerca di Billy da minuti che parevano ore.
La fredda e umida panchina di legno dove sedevo iniziava a farsi sempre più scomoda costringendomi a cambiare posizione più e più volte.
Mi doleva tutto: caviglia, ginocchia, palmi delle mani; ora anche il mio fondoschiena implorava pietà.
La temperatura si stava abbassando vertiginosamente e, mentre attendevo Aaron con impazienza, tentavo di scaldarmi il più che potevo con l'ausilio del mio caldo respiro e del mio cappotto marrone.
Mi guardavo attorno intimorita, sopraffatta da un angoscioso senso d'inquietudine.
Non avevo mai considerato Barr come un luogo spettrale, ma, in quegli attimi, avvolto da quel lungo drappo nero, dovevo ammettere come il mio dolce paesino apparisse lugubre e sinistro.
Le facciate delle villette a schiera di notte perdevano tutto il candore che di giorno le contraddistingueva, e le ombre dei rami smossi dal vento gelido si proiettavano lungo le pareti del villaggio tramutandosi in sagome minacciose.
Per strada non c'era nessuno. L'inquietante silenzio tombale era l'unico compagno rimasto al mio fianco in quegli attimi cruciali.
Avevo affidato ad Aaron tutta la mia fiducia e tutte le mie speranze, forse scioccamente.
Avrebbe davvero mantenuto la parola data?
Chiusi gli occhi e corrugai la fronte indispettita da me stessa.
Infervorarmi con lui e affermare come non avesse a cuore nessuno non era stata una mossa particolarmente brillante.
Avevo quasi il sentore che mi avesse abbandonata su quella panchina di proposito per poi sgattaiolare via, incurante della mia sorte. Del resto lo avevo offeso, e Aaron non aveva esattamente l'aria di essere un uomo incline al perdono.
Rabbrividii a quel mio pensiero.
Già mi immaginavo, tutta claudicante e a sghimbescio, nell'atto disperato di raggiungere la porta di casa senza riuscirci.
Scossi la testa con vigore.
No, mi dovevo fidare di Aaron!
I suoi occhi feriti erano un ricordo vivido nella mia mente, così come il suo visibile disagio nell'accorgersi di come le sue parole mi avessero infastidita.
No, Aaron era stato sincero nel professare il suo impegno a restituirmi Billy, e lo avrebbe fatto. Il suo sguardo mesto mi urlava la verità.
Dovevo solo aspettare il suo ritorno e presto sarei tornata a casa con lui e con Billy.
Aaron era quindi senza alcun ombra di dubbio volenteroso nelle sue intenzioni, ma nonostante fossi felice di ciò, continuavo a ignorare le motivazioni dietro alla sua apparentemente ingiustificata cavalleria.
Per la signora Agnew la sua cordialità non era affatto ingiustificata, anzi, per lei il suo era un semplice e goffo tentativo di estorsione.
Secondo la sua teoria strampalata, Aaron voleva approfittarsi di me; se fosse entrato nelle mie grazie, ipotizzava la signora Agnew, avrebbe di sicuro iniziato a chiedere qualche sconto in negozio e io, ingenua e raggirabile, avrei finito per cedere a causa della mia bontà.
«Signora Agnew, mi offende se crede che possa essere così tanto sciocca. Posso assicurarle che questa cassa sarà sempre stracolma di sterline. Ammetto di allungare un po' di caramelle a William Caldwell ogni tanto, ma lui è un bambino. Non mi farò mai raggirare da un adulto, può stare serena», le risposi attaccata sul personale, ma senza alcun successo.
La signora Agnew perseverava con le sue idiozie.
Non capivo veramente perché a volte si impuntasse così tanto. Aaron non mi piaceva nemmeno: lo ignoravo come facevano tutti.
Il signor McCracken e la signora Hislop formularono un'idea ancora più bizzarra.
Per loro Aaron era semplicemente attratto dal mio status di "elemento essenziale per la comunità".
Aaron forse puntava ad un'integrazione mediata dal mio consenso. Se Aaron mi fosse piaciuto, allora sarebbe piaciuto per forza anche agli altri, perché tutti si fidavano delle mie scelte e tenevano in gran considerazione le mie opinioni. Se Aaron fosse stato di mio gradimento, ogni malalingua sarebbe col tempo cessata.
Ad essere onesta non sapevo neanche come ci fossi arrivata a ricoprire quella rimarchevole posizione. In un certo senso quasi mi dispiaceva essere proprio io, una straniera venuta da Londra, uno dei principali punti di riferimento per gli abitanti di Barr, ma questa era la sorte che accumunava tutti coloro che, come me, passavano più tempo confinati nelle sue mura.
Susan Rankine, ad esempio, nonostante fosse nata e cresciuta a Barr era tenuta meno in considerazione rispetto a me semplicemente perché frequentando l'università di Glasgow si assentava spesso dal villaggio.
Io, invece, salvo per occasioni straordinarie, non mi muovevo mai dal negozio e da Barr.
Il legame che avevo con quel villaggio era divenuto ormai così tanto simbiotico che il
sindaco Sloan si affacciava spesso da noi per chiedere a me, alla signora Agnew e ad alcuni illustri pensionati - come la signora Hislop e il signor McCracken - consigli su come migliorare le nostre strade e i nostri servizi, al fine di rendere più fruibile la vita nel villaggio.
Una cosa di cui mi sarei sicuramente lamentata e che avrei riportato al sindaco Sloan il prima possibile sarebbe stata sicuramente relativa al ghiaccio che ancora albergava per le strade; quello stupido ed inutile ghiaccio che mi aveva trascinata in quella sgradevole situazione.
Se non vi fossi scivolata sopra a quell'ora sarei sicuramente stata a letto.
Rintuzzai la mia ira focalizzandomi sul presente continuando ad attendere Aaron nella speranza che sarebbe tornato il più presto possibile. Faceva così tanto freddo che la brina iniziava già a depositarsi sopra le incolte erbacce.
Iniziavo a congelarmi sempre di più.
Un pensiero preoccupato fu rivolto ad Aaron. Come avrebbe fatto a sopportare tutto quel freddo con una sola felpa? Mi morsi il labbro dispiaciuta. Si sarebbe ammalato per colpa mia e della mia disattenzione.
Mi sarei sdebitata a qualunque costo; glielo dovevo. Un'ulteriore raffica di vento mi scombinò i capelli arruffando i miei boccoli rossicci. Sospirai: tornata a casa sarebbe stato un incubo districarli.
Sbadigliai. Ero così tanto stanca.
Perché Aaron non tornava? Che cos'era successo? Pensai al peggio.
Per Aaron ormai non mi preoccupavo, ma per Billy continuavo a farlo. Nella foresta quel gatto era sia predatore, sia potenziale preda di branchi di ungulati pronti a caricarlo e di rapaci grifagni che lo avrebbero beccato e squarciato con i loro artigli affilati.
Sbadigliai nuovamente. Quel freddo aveva un effetto soporifero.
E se Aaron non fosse arrivato in tempo?
E se avesse trovato Billy, ma non avesse avuto il coraggio di presentarsi al mio cospetto con in braccio il suo piccolo corpicino martoriato?
Mi si congelò allora anche il sangue.
«Ma dove ti sei cacciato?».
Iniziai a domandare alla notte, mentre cominciavo a piangere nuovamente, in preda all'ansia.
«Dove sei Aaron?».
Lo chiamavo sperando che i miei echi lo raggiungessero.
«Dove sei?».
Mormoravo stanca.
«Torna qui. Torna qui...».
E le mie palpebre si chiusero, e caddi addormentata.
- 🌘 - 🌑 - 🌒 -
Mi risvegliai ore dopo, accolta da un familiare odore e da un tepore confortevole.
Riaprii gli occhi debolmente, sbattendo le palpebre più e più volte finché non riuscii ad essere completamente vigile per poi guardarmi attorno, confusa e sorpresa.
Riconobbi immediatamente la carta da parati floreale appartenente alla mia casetta e il mobilio che arredava la stanza. Il mio cappotto marrone giaceva appallottolato sulla sedia dirimpetto alla scrivania; le mie membra stanche erano state coperte da un lenzuolo e da un plaid pesante per tenermi al caldo.
Ero a casa, ma come avevo fatto ad arrivarci?
I ricordi della sera precedente erano vaghi. Ricordavo l'ansia provata, il freddo percepito, la scomparsa di Billy e la comparsa di Aaron...
Mi aveva portata lui qui?
Un miagolio infastidito catturò la mia attenzione. Posai gli occhi sul margine del letto, dove un gatto tricolore ronfava acciambellato tra le mie gambe.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime alla vista del mio amico felino e iniziai a chiamare Billy contenta.
«Billy!». Non ci potevo credere.
«Sei qui. Sei qui!». Continuavo a ripetere.
Billy si alzò in piedi e si stiracchiò drizzando la coda. Accettò con ingordigia le mie carezze, cominciando ad emettere subito delle sonore fusa.
«Maledetto gattaccio. Mi hai fatto prendere un colpo. Non ti allontanare mai più così da me, Billy, o mi verrà un infarto». Ridacchiai mentre mi asciugavo le lacrime con un dito.
I palmi delle mie mani, notai, erano completamente fasciati. Smossi le lenzuola che tenevano stretto il mio corpo e mi resi conto di come lo fossero anche le mie ginocchia e la mia caviglia.
La garza bianca che le avvolgeva proveniva direttamente dal mio personalissimo kit di pronto soccorso che custodivo gelosamente in bagno in caso di emergenze.
Un forte odore mi costrinse a voltarmi verso la mia destra.
Sopra al piccolo comodino bianco adiacente al letto, giaceva un vassoio in peltro contenente una colazione che sembrava essere stata preparata da poco.
Qualcuno aveva cucinato per me delle uova strapazzate, del bacon croccante e del pane tostato.
Un tè caldo completava quel pasto di cui ero ghiotta.
Guardai quella colazione stupefatta chiedendomi se fosse stato proprio Aaron a prepararmela.
Sorrisi grata. Sì, era stato lui, ne ero certa!
Del resto, chi altro avrebbe potuto portarmi a casa? Chi altro poteva sapere delle mie ferite? Chi altro poteva riportarmi Billy?
Non c'era nessun altro a Barr quella sera oltre noi due.
Era tutta opera di Aaron, non c'erano dubbi.
Le mie guance si imporporarono imbarazzate: Aaron aveva veramente fatto tutto questo per me? E io non mi ero accorta di nulla?
Certamente ero esausta, ma per non accorgermi proprio di niente dovevo essere sprofondata in un sonno praticamente comatoso.
Provai a chiamarlo, ma di lui non vi era traccia. Se ne era andato nel momento stesso in cui aveva adempiuto il suo dovere.
La colazione, però, era ancora calda quindi non poteva essersene andato da più di una decina di minuti.
"Avrà dormito qui?" Mi chiesi.
Probabilmente Aaron, dopo avermi trascinata fino a casa e dopo aver medicato le mie ferite, era così tanto esausto ed infreddolito che si era coricato sul divano in soggiorno per poi alzarsi, prepararmi la colazione ed uscire.
Arrossii nuovamente. Gli dovevo veramente tutto. Non mi sarei mai aspettata che fosse così dolce e premuroso.
Presi la tazza di tè dal vassoio ed iniziai a sorseggiare il liquido che tanto amavo ringraziando mentalmente Aaron per avermelo preparato. Mi bastò un sorso per accorgermi di quanto Aaron avesse un ottimo gusto; il sapore che bagnava le mie labbra corrispondeva ad uno dei miei infusi preferiti: un tè nero aromatizzato al bergamotto.
Mi leccai le labbra per non perdermene neanche una gocciolina quando, a un tratto, il suono del campanello di casa catalizzò la mia attenzione sulla porta principale.
Mi domandai chi potesse essere. Io non ricevevo mai visite.
Riuscii a mettermi seduta a fatica e con uno slancio cercai di sollevarmi in piedi.
Appena poggiai la caviglia sul pavimento una scossa di dolore fermò il mio movimento.
Digrignai i denti frustrata, conscia del fatto che non sarei riuscita a raggiungere la porta.
«Chi è?». Urlai nella sua direzione.
«Tesoro, sono io. Sono Ann». Rispose una voce femminile urlante anch'essa per farsi sentire.
«Signora Agnew!» strabuzzai gli occhi sorpresa. «Prego entri pure. La chiave di riserva è sotto al vaso di ciclamini accanto allo zerbino. Io non posso muovermi, sono bloccata a letto».
Sentii la signora Agnew armeggiare un po' con la chiave prima di riuscire ad inserirla correttamente nella toppa per poi girare la maniglia e precipitarsi di corsa verso la mia cameretta.
«Cara, cara come stai?» mi chiese la signora Agnew piagnucolando. «Che cosa ti ha fatto quel buzzurro? Dimmelo, cosa ti ha fatto?».
La signora Agnew mi prese le mani tra le sue cominciando a scrutare le bendature che avevo.
I suoi capelli erano scompigliati e la sua fronte era madida di sudore, come se avesse appena concluso una maratona.
«Buzzurro?». Ripetei confusa. «Ma a chi si sta riferendo?».
«Ad Aaron ovviamente!» disse seccata. «Lo sapevo io che quel giovine avrebbe portato solo guai. "Ignoralo", fu il tuo consiglio. "Comportati in modo professionale", mi dicevano, ed ecco come ti ha ridotta. La mia povera Victoria! La mia povera cara, guardati».
«Ma di che cosa sta parlando? Guardi che Aaron non mi ha fatto proprio un bel niente».
«Tesoro, non c'è bisogno di mentire. Tanto ha già ammesso le sue colpe, quel lestofante. Vedi tesoro, stamattina mentre ero in negozio Aaron si è presentato al mio cospetto dicendomi che ti aveva trovata ieri sera in mezzo al bosco, e che ti eri presa una bruttissima storta alla caviglia, quindi stasera non ti saresti potuta presentare in negozio per lavorare. Ah, poi ha accennato qualcosa sul tuo gatto ma non ci ho prestato molta attenzione. Immaginavo che volesse semplicemente sviare la mia attenzione. Ho capito subito che qualcosa non andava. Una storta alla caviglia causata dal ghiaccio? Che idiozia. Dimmi la verità piccola, che cosa ti ha fatto? Ti ha aggredita? Dimmi che cosa ha fatto e insieme chiameremo la polizia».
Le scoppiai a ridere letteralmente in faccia. La sua teatralità, mista ad un'eccessiva preoccupazione mi divertiva troppo per potermi trattenere. La signora Agnew mi guardò stralunata, non capendo cosa ci fosse di così tanto divertente.
«Mi scusi, mi scusi signora Agnew. Non volevo offenderla, davvero. Semplicemente... beh. Non ha mentito. È tutto vero. E Aaron non mi ha aggredita. Aaron mi ha soccorsa». E la guardai decisa come non mai.
«Oh» esclamò la signora Agnew imbarazzata. «Beh, se è andata veramente così allora presumo che non ci sarà bisogno di chiamare la polizia, ecco».
«La ringrazio infinitamente per la sua premura signora Agnew, ma no. Non credo proprio che ce ne sarà bisogno».
La signora Agnew inforcò i suoi occhialetti a mezzaluna e mi guardò sospettosa.
«Victoria cara, non stai mentendo vero?».
«No signora Agnew, le sto dicendo la verità. Sto bene. Anche se...», mi guardai la punta dei piedi imbarazzata. «Dovrei proprio chiederle almeno un paio di giorni di ferie, per la caviglia».
Il viso della signora Agnew si illuminò e iniziò ad annuire concitata.
«Oh ma certo cara. Assolutamente. Prenditi assolutamente tutto il tempo che ti serve per riprenderti. Due giorni, una settimana, un mese. Tutto quello che ti serve, davvero».
Le sorrisi.
«La ringrazio tantissimo, signora Agnew!»
Mi diede un bacio sulla fronte e si congedò precipitandosi di corsa in negozio chiudendo con forza la porta dietro di lei. Quella donna era sfacciatamente prorompente, e la adoravo per questo. Nel giro di cinque minuti la signora Agnew sperimentava più emozioni di quelle che avrei vissuto io in un mese.
La mia pancia brontolò rumorosamente, ricordandomi come non avessi ancora messo niente sotto i denti. Presi in mano il vassoio in peltro contenente la colazione che mi aveva preparato Aaron e cominciai a mangiucchiarla.
Era deliziosa.
Non immaginavo che fosse in grado di cucinare così bene. Finì la colazione e guardai Billy soddisfatta.
Sì, Aaron meritava decisamente qualcosa in cambio, e io sarei stata più che contenta di esaudire qualsiasi suo desiderio.
Angolo dell'Autrice:
Ciao a tutti miei cari lettori!
Ecco a voi il sesto capitolo di "Moon Night: Novilunium".
Essendo il capitolo lunghetto non voglio dilungarmi molto stavolta.
Spero semplicemente che il capitolo vi sia piaciuto e che abbiate imparato ad apprezzare almeno in minima parte quelli che sono i protagonisti di questa storia.
Vi voglio bene,
Alis
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