Prologo
L'inverno nella valle del fiume Shogawa era crudele come a volte solo le cose belle sanno essere. Haruka ricordava l'ampio cielo grigio da cui cadevano i fiocchi di neve in una danza turbinosa. Da bambina spalancava la bocca per accoglierli e si immaginava di inghiottire libellule dalle ali traslucide, percorse da un ultimo fremito di vita dato dal vento. Le sentiva scendere giù, lungo le pareti morbide della gola, e si chiedeva allora se la neve potesse cantare. Lei la sentiva, mentre precipitava al suolo o quando batteva contro i vetri o quando si accumulava sui rami spogli dei cedri; la sentiva sussurrare una melodia nel suo idioma bianco e segreto. Aveva inventato dei nomi per quelle canzoni che nessun altro ascoltava.
Per quanto potesse essere duro, amava l'inverno, quasi quanto lo odiava suo fratello Aki, che da dietro il vetro della gassho zukuri contemplava il paesaggio con paura. Inverno significava immobilità, pericolo, a volte anche morte. La loro madre se ne era andata così, d'altronde, caduta tra le fredde braccia dell'inverno un giorno che entrambi non ricordavano.
Haruka aveva imparato a considerare la neve un'amica per non farsela nemica e quindi, quando cadeva abbondante, ricoprendo di un manto pesante tutta la valle, sentiva crescere in sé un'euforia infantile mischiata all'inquietudine. Certi giorni si alzava dal futon prima che sorgesse il sole, rabbrividendo nelle lenzuola fredde e trascinandosi fino alla stanza principale dove il focolare era ancora spento. Da dietro la finestra poteva vedere le montagne che emergevano nella notte, striate sulle pallide cime della prima luce rosata dell'alba. La luce si espandeva a poco a poco, prima rosa poi arancio e poi purpurea contro l'azzurro sempre più intenso del cielo; scintillava sui pendii nevosi e tendeva timide dita fino ai tetti spioventi dei villaggi appollaiati nella valle. La forma dei tetti faceva pensare a mani giunte in preghiera. Il mondo le appariva nuovo in quelle aurore fredde, contratto sotto il ghiaccio, bello e lucido come una perla incastonata in un'ostrica.
Quando veniva la primavera la valle sembrava uscire dalla crisalide dell'inverno, tornando alla vita in una forma più tenera. Era il tempo dedicato ad allevare i bachi da seta, che si schiudevano nell'ottantesima notte. Haruka e Aki passavano la maggior parte delle giornate nei piani superiori, gli ama, tra i graticci e le intelaiature dove erano contenuti i bachi. Chiamavano kaiko-sama il signor baco da seta e ôko-sama, madamigella, la femmina del baco, anche se non riuscivano a distinguerli. Quando diventavano traslucidi, veniva il momento di filare. Haruka svolgeva il filo bianco e sottile, che nella sua testa era il filo dei sogni di cui le raccontava la nonna: come la ragnatela di un ragno intrappolava i sogni cattivi per non far avere incubi ai bambini.
La nonna sapeva tante storie, le raccontava prima di andare a dormire; per molto tempo furono il suo unico serbatoio di una vita diversa da quella della valle coi suoi campi di gelso e gli inverni troppo lunghi.
Lei e Aki erano gemelli e nei primi anni di vita furono identici tanto che i nonni stessi non erano capaci di distinguerli. Entrambi erano nati con una strana macchia sul fondoschiena di un color bluastro simile a un livido, che si era sbiadita mano a mano. Secondo una leggenda era il segno lasciato da una nonna fantasma che, nel tirarli fuori dal grembo materno, sollevandoli e rovesciandoli, gli aveva dato un colpo per aprirgli il respiro, portarli alla vita.
Aki era nato aggrappato ad Haruka: era venuto al mondo stringendo la sua mano.
«Non amerai mai nessuno come tuo fratello» aveva sentito una volta dire sua nonna.
L'aveva preso come una sorta di dovere. Ama sempre tuo fratello, qualunque cosa accada. È la metà che non troverai in nessun altro.
Era stata così abituata a considerare Aki come una seconda parte di sé, il prolungamento di se stessa, in un certo senso, che quando iniziarono a separarli non capì. Fino a dieci anni stavano sempre insieme, sia ad allevare i bachi sia nei campi, poi Haruka dovette rimanere in casa perché una bambina non poteva giocare con monellacci o stare troppo a contatto con gli uomini. Sentiva di storie di ragazze poco più grandi di lei che venivano accarezzate in viso o erano oggetto di scherzi osceni, ne sentiva altre riguardo fanciulle ancora più grandi che "perdevano l'onore" – qualunque cosa significasse quell'espressione. Lei non pensava all'onore o ai pericoli, rimpiangeva piuttosto il tempo in cui poteva correre tra le risaie, giocando col fratello e con gli altri bambini.
Fu così che propose per la prima volta ad Aki di scambiarsi di posto.
Si somigliavano come due foglie di hinoki; soltanto osservando attentamente si coglievano le impercettibili differenze dei loro caratteri. Da bambini, prima che Haruka sviluppasse, erano identici. Sopracciglia fini, occhi di un nero profondo come i capelli, il mento lievemente a punta, quel tocco di testardaggine nella mascella, le orecchie piccole come conchiglie. Con indosso la casacca di Aki, Haruka passava per maschio con una facilità disarmante. Doveva solo ricordarsi di impostare la voce in un tono più basso e roco, simile al fratello. Imparò a portare i calzoni e la hakama, a sputare per terra e a resistere con virile stoicismo all'aria pungente del mattino che si insinuava negli strappi dei gomiti. Anche Aki imparò a passare per una ragazza, stando inginocchiato in composto silenzio durante la cerimonia del tè, gli occhi socchiusi, le ciglia folte che proiettavano un'ombra frangiata sugli zigomi alti.
Oh, lui – lei – era così bello. Più bello di Haruka, con più grazia e malizia; faceva la parte della ragazza meglio di lei. Gli piaceva stare in mezzo alle donne, vestito da donna, ingannando gli sguardi. Ne traeva un divertimento da gatto, sornione e quasi crudele. E c'era poi la possibilità di celarsi senza essere obbligato ad assumere atteggiamenti che si ritenevano indispensabili per un ragazzo della sua età. Dall'altra parte Haruka si sentiva libera soltanto nei momenti in cui interpretava il fratello, quando indossava abiti maschili, che non la nascondevano. Poteva vedersi le gambe, i piedi, poteva uscire quando voleva e apostrofare i suoi coetanei o essere interrogata da un adulto senza la supervisione di nessuno. Erano i momenti in cui si sentiva qualcuno.
A volte si chiedeva perché, quando faceva Aki, la trattassero in maniera diversa.
«Sono sempre io» diceva al fratello, la notte, quando si raccontavano quel che era successo durante i loro scambi. «E tu sei sempre tu. Cosa c'è di diverso tra noi due?»
Aki alzava le spalle. Al contrario suo non si interrogava troppo sulla faccenda, giocava e basta, anche se spesso una strana malinconia sembrava afferrarlo, un sentimento indefinito che aveva la stessa consistenza del riflesso della luna sulle acque agitate di uno stagno.
C'era in quei giochi, Haruka lo intuiva già allora, il germe di qualcosa che un giorno avrebbero dovuto affrontare – Aki più di lei. Un presagio, forse, dell'infelicità futura.
«La felicità è noiosa» usava dire suo fratello. «Guarda le storie che ci racconta la nonna: i protagonisti vivono sempre sventure, il dolore è la regola.»
«Ma poi passa.»
«Non sempre, non in tutte le storie c'è il lieto fine.» In quelle riflessioni si faceva pensieroso, assumendo un'espressione grave, che Haruka trovava un po' ridicola, anche se a volte ne rimaneva impressionata. «Sono quelle che mi piacciono di più.»
«Le storie che non finiscono bene?»
«Sì, non so perché.»
Lei col passare degli anni avrebbe capito perché. Guardava la felicità e la trovava spesso sfacciata e insensibile, volgare anche. Il dolore, sublimato dall'arte, era diverso: c'era nel dolore una rara, pudica bellezza che nessuna euforia passeggera poteva eguagliare.
Un giorno si trovava nei campi nei panni di Aki. Stava venendo il crepuscolo a lenti passi; la luce indugiava come una carezza ritrosa sulle cime delle montagne. L'inverno era passato, la neve sulle cime brillava di un vivido candore nella luce del crepuscolo. Quando nevicava forte, Haruka aveva l'abitudine di appallottolarsene un po' tra le mani finché le dita non le diventavano insensibili. Poi se le guardava, scoprendole livide, le unghie attraversate da venature bluastre.
«Se mangi un ghiacciolo, ti cade la lingua» dicevano gli altri ragazzi, ripetendo l'avvertimento delle madri che li redarguivano dal mettere in bocca i ghiaccioli che pendevano dai tetti.
Haruka stava tornando a casa, prima che il sole tramontasse, seguendo gli altri che vociferavano tra loro nel sentiero scavato tra le canne di zucchero. Dapprima non avvertì dolore, solo un leggero fastidio al basso ventre. Poi iniziarono le fitte. Dovette fermarsi un paio di volte, evitando di piegarsi in due. Non poteva urlare, né piangere: Aki non lo faceva mai. Però sentiva male, un male che non aveva mai provato. All'ingresso del villaggio avrebbe solo voluto correre di filato verso casa per scoprire se stava per morire o meno.
«Aki, andiamo alla Zinta?» propose un ragazzo di nome Taiko che era considerato un'autorità tra i ragazzi del villaggio per il fatto di avere già i peli sotto le ascelle e in faccia a tredici anni. Haruka ringraziava che Aki non avesse peli; non avrebbe più potuto impersonarlo nel momento in cui avrebbe cominciato a crescergli la barba.
«Ora non posso, devo tornare» disse, cercando di mascherare il dolore che sentiva. Le sembrava che un ferro rovente le stesse rimestando le viscere.
«Dai.» Taiko la prese per la spalla e la scosse. Era alto e robusto, pieno di forza vitale, la pelle cotta dal sole e gli occhi espressivi. A volte Haruka aveva pensato di esserne innamorata, anche se non sapeva esattamente cosa fosse l'amore.
«Non posso» borbottò, stridendo i denti, e i ragazzi attorno a lei cominciarono a prenderla in giro, dicendo che era un fifone e un debole. Insultavano Aki, non lei, pensava. Gli insulti avevano la consistenza di pellicole d'acqua; non potevano farle male.
«Lasciatemi!» protestò, quando iniziarono a spingerla.
Cadde tra le risa. Taiko le si mise davanti.
«Non ti piace quel che si vede alla Zinta?»
La Zinta era la botteguccia di una vecchia signora, la più vecchia del villaggio. Si chiamava Kaguya come la principessa Kaguya. Aveva la pelle simile a carta di riso tanto era sottile, le mani tutte rugose, la voce rauca di un corvo. Per Haruka avrebbe potuto avere anche più di cento anni. Abitava in una casetta nella sommità del paese, circondata da cinque alberi di melograno e da vasche dove maceravano i gelsi. La casa le serviva anche da bottega dove diceva di vendere spezie, in realtà faceva entrare uomini che introduceva alla nipote Saku. Haruka aveva visto Saku solo da dietro gli shoji della veranda dove i ragazzi del villaggio si intrufolavano per cogliere l'ombra della ragazza. Un'ombra snella, dai capelli ritirati, che indossava forse un kimono; era questo il massimo che si riusciva a intravedere. Tutti i ragazzi ne sembravano affascinati.
I maschi sono strani, aveva deciso da tempo Haruka, da quando li frequentava sotto mentite spoglie. Più stava a diretto contatto con loro più lo pensava.
«Perché non andate a parlarle se vi interessa tanto?» chiedeva.
«Ma sei pazzo?» rispondevano loro in coro. «È una svergognata!»
«Allora perché la guardate da dietro un pannello di carta...»
Seguivano borbottii e lazzi a quelle domande a cui, nessuno, però, sembrava avere una risposta precisa.
«Aki è uno smidollato, uno smidollato!» inveirono. Avevano formato un ventaglio attorno a lei, Taiko al centro, le spalle più grandi di quelle degli altri, accarezzate dalla luce del giorno che stava finendo.
«Sto male» sibilò.
«Cos'hai, ti sei fatto male al pancino?» Ridevano e continuavano a dileggiarlo, ma le risa si spensero quando uno di loro esclamò: «Ma sta sanguinando!»
Haruka non se ne era accorta. Quel ferro che sentiva al ventre doveva averle forato le viscere. Vide il sangue solo quando si alzò. Delle gocce, rosse e brillanti, inghiottite dal suolo. Sentiva le cosce fradice. Due ragazzi la sollevarono per le spalle e lei tremò violentemente.
«Sta sanguinando, sta sanguinando, sta morendo!»
Tutto divenne confuso, le voci come i volti attorno a lei. Il cielo sembrò capovolgersi, il sopra e il sotto si scambiarono di posto. Se non fosse stata sorretta, sapeva che sarebbe caduta.
«Dove ti fa male?» le chiese qualcuno, ma la sua voce si sfrangiò, sfilandosi come l'orlo tormentato di un abito.
Chiamate Aki, chiamate mio fratello, avrebbe voluto gridare, ma perse i sensi prima di poter articolare qualsiasi parola, sprofondando in un buio benefico, senza dolore.
***
Quando si risvegliò era sera inoltrata, il soffitto l'accolse col suo bianco inamidato percorso da lievi crepe. Di notte, col bagliore della luna che strisciava attraverso le fessure della finestra, sembravano ragnatele iridescenti; immaginava tanti piccoli ragnetti che calavano per rubarle i sogni. Era a causa di quell'immaginazione fervida che non riusciva a dormire bene.
Emerse dal letto, tastandosi la pancia. La sensazione che ci fossero mille aghi a trapassarle il ventre era passata. Piano piano i suoi occhi si abituarono all'oscurità, riconoscendo i contorni della propria stanza. Dovevano averla portata a casa quando era svenuta. Era ritornata Haruka.
Si trascinò in piedi, un poco incespicante. Ci fu un momento in cui rischiò di cadere, ma si resse alla parete e poi fece scorrere il pannello di carta di riso per uscire. Il corridoio era vuoto e freddo, la casa immersa nel silenzio. Continuava a tenersi un braccio avvolto attorno al ventre, mentre avanzava. Raggiunse le stanze da bagno e lì, calandosi le vesti, si accorse del sangue che impregnava un tampone di carta che qualcuno le aveva messo tra le gambe.
Sto morendo, realizzò con insolita calma. Guardò le macchie scure e si aspettò di morire in quel momento, cadendo sul posto, come fosse stata fulminata. Non ebbe neanche un principio di vertigini. Il dolore era andato a coagularsi in un angolo, risuonava come una risacca, debole, smorzato; aveva lasciato solo la scia del suo ricordo.
Quando capì che non stava morendo, uscì dal bagno e incespicò nel corridoio. Fu il rumore di un gemito a spingerla ad avventurarsi di sotto. Il tatami era freddo sotto le palme dei piedi. Si strinse nelle vesti e raggiunse la soglia della stanza principale. Scostò il pannello di uno spiraglio, buttando un'occhiata dentro, presa da una strana paura. I gemiti si erano fatti più forti; ora sembravano urla soffocate.
Suo fratello stava seduto sul tatami, in ginocchio, torso e schiena scoperti. Il sangue ruscellava su quella schiena bianca, magra, le forme ancora morbide, da bambino sulla soglia della pubertà. Le spalle erano tese, contratte, il capo incassato, ciocche di capelli scuri che ciondolavano, creando un ulteriore contrasto col candore della pelle. Haruka ingoiò il fiato. Un'ombra si proiettava sulla sagoma raggomitolata di Aki: era suo nonno, in piedi, il volto irrigidito in una maschera severa e come affranta. Insieme alla rabbia un alone di dolore gli offuscava lo sguardo. Teneva una canna di bambù in mano, di quelle che usava per intagliare i bastoni, e quella canna gocciolava sangue, il sangue di Aki, rosso e scuro come inchiostro in una notte senza luna.
Non si trattenne: entrò d'improvviso, frapponendosi tra il fratello e il nonno, le gambe tremanti.
«Sofu, no, ti prego.»
Si sarebbe quasi inginocchiata. Sentiva tutto il sangue che aveva perso, ora, ribollirle tra le tempie.
«Haruka.» La voce del nonno era gelida. «Spostati. Poi ce ne saranno anche per te. Mi avete disonorato.»
Da dietro di lui venne il rumore di un singhiozzo.
Così presa dalla scena di Aki che veniva picchiato, Haruka non si era accorta della presenza della nonna. Stava in un angolo, inginocchiata con le mani strette in grembo, e piangeva sommessamente. Non alzò gli occhi verso di loro.
«Era solo un gioco» balbettò. «Non volevamo...»
«Travestirsi da donna e travestirsi da uomo.» L'espressione del nonno esprimeva tutto il suo doloroso disprezzo. «Come avete potuto compiere uno scempio simile? La nostra casa è stata ricoperta di vergogna a causa vostra.»
«Nonno...»
«È stata una mia idea.»
Aki si era alzato. Girandosi, Haruka lo vide in piedi, solo le spalle un po' tremanti. Fissava dietro di lei, guardava dritto il nonno, i pugni chiusi lungo i fianchi snelli.
«Era uno scherzo, solo uno scherzo. Lei non c'entra. Non toccare lei.»
«Ma Aki...»
«Stai zitta» gli sibilò. «Dovevi insistere che non ti andava.»
«Sono io che ho voluto!» Haruka quasi iniziò a piagnucolare. Si voltò verso il nonno e cercò lo sguardo della nonna, che però lo teneva basso. «Ho iniziato io, non picchiarci, per favore. Nonna, nonna, diglielo anche tu, ti prego digli...»
Si sentì strattonare all'indietro e quasi le sfuggì un urlo per la prepotenza del gesto. Aki le aveva afferrato un braccio, la fece indietreggiare. Si mise davanti al nonno, superandola. Haruka non poteva vedergli il viso, ma la sua voce suonava dura e atona, senza inflessioni di sorta.
«È colpa mia» asserì.
«Non è ve...»
«Punisci solo me.»
Sembrava una supplica e al tempo stesso un ordine.
Il volto del nonno era un reticolo di rughe indurito dalla severità. Mosse le labbra, facendone uscire un sibilo: «Almeno in questo ti comporti da uomo.» Guardò Haruka. «Ritorna in camera tua.»
Lei tentò una protesta. «Ma io...»
«Vai in camera tua, ci resterai fino a quando non deciderò che rimeriti la nostra fiducia.»
«Nonno» singhiozzò forte, trattenendo le lacrime. «Non volevamo fare nulla di male.»
«Vai via» ordinò per l'ultima volta, battendo la canna di bambù contro il tatami.
Piangendo, Haruka sgattaiolò via. Evitò di guardare la sagoma inginocchiata di sua nonna. Ritornò in camera e si buttò sul futon, soffocando le lacrime contro il cuscino. Pianse per quelle che le parvero ore intere. Fuori la luna era uno spicchio freddo dall'alone bronzeo e sembrava lontanissima. La stanchezza venne a reclamarla, ma cercò quanto più possibile di non cedere al sonno. Doveva rimanere sveglia per Aki. Si stava prendendo anche la sua punizione e non era giusto, pensava con angoscia, non era giusto, non era giusto, non era giusto.
Si era forse appisolata quando sentì suo fratello rientrare. Sbarrò gli occhi e si accorse di essere scivolata quasi a terra. Emerse coi capelli scompigliati e gli occhi gonfi. Gli occhi di Aki invece erano asciutti. Zoppicava.
«Aki...» mormorò, il suo nome tremante quanto le labbra. Senza aggiungere altro si alzò e lo raggiunse, provò a cingergli la vita, ma il tocco sulle ferite alla schiena lo fece sussultare.
«Va tutto bene» le disse lui, ma la sua voce suonava smorta, arrugginita in sottofondo, come una foglia che scricchiolava calpestata da una scarpa.
«Ti ha fatto tanto male?» gli chiese Haruka, prendendolo per mano e accompagnandolo al suo futon.
Non sapeva che ore erano, ma doveva essere molto tardi; non era mai stata sveglia così tanto prima d'ora. Quella le sembrava una notte infinita, che si trascinava alla fonda senza speranza di attracco.
«È solo un po' di sangue» bisbigliò Aki e si distese a pancia in giù.
Lo vide stringere i pugni, le vene in evidenza alla luce della luna.
Disse una frase che le suonò strana e che non capì: «Se devo credere a un Dio... se dovrò mai crederci, crederò soltanto a un Dio che sappia sanguinare.»
Haruka inarcò entrambe le sopracciglia, fortemente perplessa, ma Aki non rispose alle sue domande. Scivolò nel sonno con una facilità inaudita, sopraffatto dalla stanchezza. Quando fu certa che si fosse addormentato con le dita gli sfiorò la schiena, piano, pianissimo. Sentì i bozzi delle bende e l'odore dolciastro di un unguento, quello che la nonna usava quando si facevano male giocando in giardino. Posò un bacio sulla sua nuca, sperando di prendere quel dolore su di sé.
La luna era ancora alta in cielo, in quel cielo nero e screpolato di stelle, alta e pallida, avvolta da una rada foschia. La fissava dietro il vetro, impotente.
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