Mondo, resisti

Che a poche centinaia di metri da casa mia vivessero assembramenti di “gente poco raccomandabile” lo sapevo bene. E da molti anni. Quando mi trasferii in questa città (un'anonima, silenziosa cittadina del Sud Italia, affacciata su un mare che sembra estendersi all'infinito e accarezzare il sole, prima che si eclissi tra le sue fauci), tutti sapevano che il palazzo giallo ("la palazzina degli incubi", come era stato ribattezzato dopo l'agghiacciante scoperta dei cadaveri di due neonati, nel lontano 1984) sarebbe stato destinato agli scarti della società. Tutti tranne il mio agente immobiliare, a quanto pare. Un ragazzotto sui 25 anni, poco più alto del metro e settanta e fin troppo loquace, quando si trattava di parlare di partite di calcio o scommesse da piazzare. Ma mi andava bene. A dirla tutta, non mi importava particolarmente di chi vivesse o cosa succedesse al di fuori della porta di casa mia. Ciò che mi serviva era solo un po' di silenzio, e sapevo che quello era il posto ideale in cui trovarlo. O almeno immaginavo che fosse così. Di giorno la gente andava al lavoro (per lo più lavoro in nero) per poche decine di euro all'ora; di notte si dedicava alla - ben più proficua - attività del furto d'auto o all'elaborazione di questa o quella rapina a mano armata. Mi importava poco, come ho già detto. In casa mia non avevano molto da rubare e la mia vecchia auto se ne stava tutto il giorno a dormire al sicuro dentro al garage. Quando decisi di traslocare, non avevo tempo né voglia di cercare di meglio. Così avevo detto di sì al primo appartamento (ero un “tipo da primo appuntamento”, aveva commentato, ridendo, l’agente immobiliare. Una specie di squillo degli alloggi, insomma) e in meno di una giornata mi ero sistemato lì. Mi ero preparato da tempo a questa fase della malattia. Astenia, inappetenza, calo di peso e dolori diffusi erano solo la punta dell'iceberg. Ciò di cui più sentivo la mancanza era l'autonomia, che aveva inabissato con sé anche quel poco che rimaneva della mia dignità. “Arbeit macht frei”. Il lavoro rende liberi, prendendo in prestito l’infelice frase-mantra stampata a caratteri cubitali all’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz, e la sua mancanza mi rendeva un prigioniero. Prigioniero della mia pensione di invalidità civile. Non ero più un uomo. Non nel senso stretto della parola. Mi sentivo qualcosa di più simile a un verme, o a un qualsiasi altro animale che si trascini strisciando. Scivolavo da una stanza all'altra - da un divano a un letto -, buttando giù pillole alla stessa velocità con cui un tempo divoravo patatine fritte e sentendomi perennemente uno schifo. Al mattino, a darmi il buongiorno erano gli schiamazzi disperati di bambini che non volevano andare a scuola, seguiti, a breve distanza, dalle altrettanto disperate urla delle giovani (giovanissime) madri. Di notte, capitava spesso che i miei sogni (se mai ne facevo) venissero bruscamente interrotti dal pianto di un neonato affamato o dalle sirene di un’auto della polizia. O di un’ambulanza. Qualche volta avevo rischiato di cedere alla tentazione di prendere in mano il mio vecchio smartphone e digitare il numero di Anna. C'ero andato molto vicino. Per fortuna mai abbastanza vicino. Mi aveva trattenuto quel minimo di dignità che ancora conservavo, sepolta come il dannato calzino gemello di una coppia sotto a una cesta di indumenti da stirare. O un ago in un pagliaio. Quando lo cerchi, raramente accade che lo trovi. Comunque resistetti. Mi facevo bastare le sue fotografie. Le loro fotografie. Mi tenevano compagnia, emanando un tepore quasi umano. L'ultima era stata scattata poco più di tre anni prima, in occasione del nono compleanno di mia figlia. Capitava spesso che la tirassi fuori dal vecchio album dalla copertina consunta in cui l'avevo riposta e me la rigirassi tra le mani. Ne tastavo la superficie, accarezzandone i bordi sfrangiati, soffermandomi con le dita per qualche secondo sul suo faccino felice. Mi sembrava così quasi di poterlo toccare. Sentivo sotto i polpastrelli la sua pelle calda, bollente, in quel lontano pomeriggio di agosto, e riuscivo ad avvertire l'odore penetrante dello zucchero filato, che si spargeva tutto intorno a me. Il rumore dei palloncini che esplodevano sotto le grinfie di questo o quel bambino, l’odore acre di plastica che seguiva al “bam” dello scoppio. Il deejay faceva partire "Just my imagination", la canzone preferita di Anna, e noi due ci mettevamo a ballare, mentre la piccola Sofia rideva come una matta e sottraeva - con un'abilità che poteva aver ereditato solo da me (Anna era estremamente imbranata, uno dei motivi che mi avevano fatto innamorare di lei) - le piccole meringhe bianche che il pasticciere aveva distribuito sulla glassa della torta. Il sapore dolce della torta nella mia bocca. Qualche volta mi scappava una lacrima, e più d’una ne versavo di notte, quando i ricordi prendevano in mano il timone della nave chiamata vita. Una nave, la mia, che viaggiava da anni su un mare perennemente in tempesta. Ah, se esistessero davvero stronzate come le palle di vetro in cui puoi vedere il futuro, o magari macchine del tempo, come quelle descritte da Wells, Dickens, Twain, Asimov... di certo sarebbe stato diverso. Tutto molto diverso. Ero arrivato a rimpiangere persino il giorno in cui avevo conosciuto Anna. Era il 2006. L’anno in cui vincemmo i mitici campionati mondiali di calcio a Berlino contro la Francia di Zidane, l’anno del rigore di Fabio Grosso, delle olimpiadi di Torino. Della morte di Marissa Cooper in “The O.C.”, anche. E di molti altri eventi, più o meno rilevanti. Conobbi Anna il 22 luglio del 2006, mentre Bob Sinclar cantava "World, hold on. Instead of messing with our future, open up inside” e io me ne stavo sdraiato in spiaggia a preparare uno degli ultimi esami per l'università. Ricordo lei che mi veniva incontro, presentandosi timidamente, e io che, incantato, le chiedevo dove fosse stata nascosta per tutto quel tempo, perché non ci fossimo incontrati prima. Tornando indietro, avrei potuto cambiare lido quell’estate, o canzone sull'ipod (a proposito, dove diavolo era finito quell'aggeggio? Dovevo averlo lasciato nel vecchio appartamento). Avrei potuto alzare il volume del brano, girarmi sull’altro fianco e ignorarla. Avrei evitato di farla soffrire. Di farle soffrire tutte e due. E invece no. Iniziammo a sentirci. Scoprimmo di frequentare lo stesso corso di laurea. Una cosa tira l’altra e, insomma, finimmo sull’altare. Qualche mese dopo nacque Sofia e, se esiste davvero un evento spartiacque nella misera vita di ognuno di noi, di certo per la mia fu quel lontano giorno d’agosto.
Pensavo a questo quella sera di marzo. Avevo cenato da poco e me ne stavo sdraiato sul letto a fissare il soffitto e rigirarmi tra le mani la solita fotografia del nono compleanno di Sofia. In tv avevano iniziato a trasmettere una conferenza stampa da Palazzo Chigi. All'esterno di quell’enorme palazzo, solo cinque anni prima io, Sofia e Anna avevamo preso un gelato (Anna si era macchiata il vestito bianco e aveva passato cinque minuti buoni a rovistare nella sua borsetta, nella disperata ricerca di un pacchetto di fazzolettini, salvo poi accorgersi che avevo svuotato l’unica bottiglia d’acqua che avevamo e non c’erano fontane a portata d’occhio. Avevo passato cinque dei successivi trenta minuti a ridere e gli altri venticinque a comprare una bottiglietta d’acqua e fingermi dispiaciuto per quanto accaduto). Scacciai quel pensiero dalla mente. Ed ecco che appariva Giuseppe Conte. Mi colpì l'immagine del nostro primo ministro, seduto su una scrivania dietro alla quale si stagliavano uno sfondo azzurro e due bandiere, italiana ed europea. Sembrava quasi in procinto di raccontare una fiaba. “Papà Castoro, raccontaci una storia. Anche due storie”, pensai. Sentivo di stare vivendo, anche se solo da comparsa, un momento che sarebbe passato alla storia. "Comunico che abbiamo adottato una nuova decisione...", aveva iniziato a dire il premier. A intervalli regolari si toccava le mani o le usava per sistemare i due microfoni neri che aveva davanti, uno per lato. "Siamo ben consapevoli di quanto sia difficile cambiare tutte le nostre abitudini", proseguiva, impacciato. Forse era anche un po' arrossito. Lo so bene, Giuseppe, quanto sia difficile. Fino a tre anni fa avevo una famiglia e una bella villa sul mare (con tanto di cane e giardino ben curato, da fare invidia a Bree Van De Kamp in persona), mentre adesso sto in una topaia, circondato da una schiera di malviventi e neonati perennemente affamati. Proseguiva dicendo, per farla breve, che la minaccia rappresentata da un nemico chiamato "Coronavirus" era più reale e terrificante di quel che inizialmente si pensava e decretando la chiusura (per quanti giorni aveva detto? Quindici? Trenta? Non ricordo) di tutte le attività non necessarie. Insomma, in pratica chiudeva tutto tranne ospedali, forze dell'ordine, edicole, benzinai e poco altro. Fortuna che erano passati da tempo gli anni in cui facevo il dottore: fu quella la prima cosa che mi venne da pensare. Mi meravigliai di me stesso e del mio egoismo. Sapevo del primo caso autoctono di infezione da nuovo Coronavirus nel nostro Paese. Un ragazzo di poco meno di 40 anni, proveniente da Codogno, un comune lombardo di cui non avevo mai sentito parlare e che mi fece pensare, di primo acchito, a un programma per bambini che mio fratello guardava alla tv nei primi anni 2000. Scoprii poi, con le mie ricerche, che era la seconda città più popolata di Lodi e il principale centro storico ed economico della provincia, dopo il capoluogo. Il ragazzo - Mattia - sembrava aver contratto il virus nel corso di una cena con un amico proveniente dalla Cina, ipotesi poi smentita. Chi fosse realmente il paziente zero non si scoprì mai. Certo era che il virus aveva iniziato a circolare a Wuhan, in Cina, sua terra d’origine, già da ottobre dell'anno precedente e probabilmente era arrivato in Italia molto prima di quel che allora si pensava. Quella sera, dopo il discorsetto di Conte, spensi il televisore e uscii sul balcone a fumare una sigaretta. Due uomini stavano portando i rispettivi cani a fare i bisogni, ancora ignari di tutto. Se ripenso a quel giorno, me li immagino con la mascherina e un paio di guanti a entrambe le mani. Che strana, la mente. Uno dei due indossava il tipico completo da anziano: pantaloni e giacca scuri, calzini bianchi, coppola e bastone di legno. Era magrissimo e aveva un bel paio di baffi bianchi (si intravedevano attraverso la mascherina che non indossava). L’altro sembrava leggermente più giovane, sui sessanta, esibiva un buffo paio di orecchie a sventola ed era decisamente più in carne. Visti lì, per strada, dall’alto del mio balcone al secondo piano (e senza occhiali), entrambi vestiti di nero, mi ricordarono Stanlio e Ollio. Peccato che solo uno dei due indossasse un cappello (e quel cappello non fosse una bombetta, ma una logora coppola marrone).

«Buonasera» li salutai, sollevando una mano.

Sembravano brave persone, nonostante la nomea del quartiere.

Risposero con un cenno del capo. Uno dei due si toccò il cappello, gesto ancora molto diffuso nel meridione.

«Belli i due cani. Come si chiamano?»

Erano un bassotto nero e un bastardino il cui pelo, rado, aveva un’indefinibile sfumatura di grigio-marrone. 

«Toby e Minerva» disse uno dei due. «Lei è nuovo della zona? Non l’ho mai vista in giro, e io esco tre o quattro volte al giorno per i bisogni del cane».

E difficilmente mi vedrà in giro nei giorni a venire, visto quanto ha appena decretato il nostro governo. Ma ancora non lo sapevano, e di certo non sarei stato io a rovinare loro l’uscita serale.

«Non esco molto, è vero» mi giustificai. «Ho problemi di deambulazione e sto facendo…»

Una terapia, una dannata terapia che mi rende vulnerabile a qualsiasi batterio o virus circoli da queste parti e mi sta uccidendo come un veleno, quasi più della malattia che dovrebbe curare?

«… delle ricerche. Sto cercando di scrivere un libro» scelsi quella, tra la vasta gamma di bugie che mi vennero in mente nei pochi nanosecondi di pausa. In fondo, era sempre stato il mio sogno nel cassetto. Fin da quando, da ragazzo, avevo acquistato il mio primo romanzo in libreria e scoperto che, se la mia vita non mi soddisfaceva completamente, avevo sempre la possibilità di viverne molte altre. E stando tranquillamente seduto sulla poltrona di casa mia.

«Un libro?» ripeté il più giovane dei due. Il tono che aveva usato era tra il perplesso e il divertito

«Sì, un libro» confermai. «Sono fatti di carta e li vendono nei negozi per poche decine di euro. Difficilmente li rubano. Sa come dicono in Iraq? “Un lettore non ruba, un ladro non legge”».

Mi pentii di ciò che avevo detto appena finii di formulare la frase. Stupìdo, mi dissi.

«E sa come diceva Einstein?» osservò Stanlio. «“È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio”».

Colpito e affondato. Doppiamente stupìdo.

«Non volevo che suonasse così, io…» tentai di giustificarmi.

Ero terribilmente imbarazzato. Eppure Anna me lo ripeteva in continuazione: conta fino a cinque (meglio se fino a dieci) prima di parlare. L’impulsività era da sempre il mio tallone d’Achille.

«Sono stato un idiota e vi chiedo umilmente scusa».

I due estranei risero di gusto.

«Non deve scusarsi» mi rassicurò Ollio. «Sappiamo cos’è un libro. Forse l’ha indotta in inganno il mio tono di voce. Non sapevo vivesse tra di noi un potenziale Stephen King, tutto qui».

«“Dai diamanti non nasce niente”» aggiunse Stanlio, sollevando le spalle. «Visto il quartiere e lo schifo che ci circonda, mi sembrava una citazione appropriata».

Abbozzai un sorriso.

«Scrive thriller? Se sì, immagino le ricerche di cui parla si riferiscano alla “palazzina degli incubi”» si interessò Stanlio.

«C’è qualcosa di vero in quel che si dice in giro?» domandai, interessato.

«Cosa si dice in giro?» chiese a sua volta Ollio.

«Sono qui da poco» mi giustificai. «E sto cercando di ricostruire la vicenda ascoltandone ogni versione. Sembra che l’uomo che viveva in quell’edificio…» sollevai un dito per indicarlo «... abbia avuto una specie di raptus omicida e assassinato tutti i membri della sua famiglia. O almeno così ho letto su qualche articolo online. Voi due cosa ne sapete di questa brutta storia?»

Mi importava veramente qualcosa di quel fatto di cronaca avvenuto negli anni ‘80? Be’, non avevo di meglio da fare al momento, come del resto sarebbe stato nei giorni a venire. Ed era da molto (troppo) tempo che non conversavo con qualcuno. Ci avevo perso l’abitudine, e un po’ mi mancava. 

«Non tutti» dichiarò Stanlio, laconico. «Un padre non dovrebbe mai fare del male ai suoi bambini: questo è quello che sappiamo».

Mi diede le spalle e imboccò il marciapiede in direzione di casa, stringendosi nella vecchia giacca. Ollio mi fece un cenno col viso, a mo’ di saluto, e seguì l’amico.

Un padre non dovrebbe mai fare del male ai suoi bambini… ripensai a quelle parole per tutta la notte, la fotografia di Sofia sul cuscino accanto al mio. 

Nei giorni a venire passai a una forma di quarantena più condivisa. Direi anche più socialmente tollerata (e tollerabile). La globalizzazione porta anche a questo, signori. Quando mi alzavo, al mattino presto, non c'era più nessuna risata di bambino (erano risate quelle che sentivo un tempo?), né urla isteriche di madre o padre, a darmi il buongiorno. Le scuole erano state chiuse, ovviamente. Gli uffici... be', a breve prese piede il cosiddetto “smart working”. L’unica cosa che non cambiò furono le sfilate delle auto di polizia e carabinieri sotto al mio condominio (oh, vuoi pretendere che gente così perbene riesca a sfamare i suoi figli quando si nega loro la possibilità di lavorare onestamente?). Ogni tanto mi affacciavo sul balcone dopo il tramonto. Dicevo a me stesso di aver bisogno di fumare una sigaretta, ma spesso dimenticavo il pacchetto dentro casa. Capitava talvolta – più volte - che scambiassi qualche parola con Stanlio e Ollio, che adesso indossavano due vere paia di mascherine (chirurgiche, verde acqua, perché “le FFP3 sono da egoisti”) ed erano stati costretti a ridurre drasticamente il numero delle loro passeggiate. “Abbiamo l’autocertificazione, tranquilli!” urlavano alle volanti della polizia, che col tempo impararono a conoscerli (e riconoscerli). “Stampata stamane, fresca fresca. Dovreste evitare di modificarle così spesso”. Per il resto del tempo mi sembrava tutto così silenzioso e surreale… ma perché, mi chiedevo, se le case erano piene (stracolme, sovraffollate, nel caso del mio vicinato), c’era tutto quel silenzio? Arrivai a detestarlo. Portava alla luce troppi pensieri. Pensieri sgraditi, fino ad allora sepolti sotto a una coltre di polvere. Non volevo spazzare via quella dannata polvere e scoprire ciò che nascondeva e, diamine, fino ad allora era stato così facile! No, non è mai stato facile. Ogni tanto questa vocina si faceva prepotentemente strada tra le mie riflessioni e mi sbatteva in faccia la nuda e triste verità. Non era mai stato facile. Facile era un aggettivo inutile, stupido, che mai avrei potuto usare per descrivere la mia vita. Una sera mi affacciai sul balcone e Ollio non c’era più. Stanlio sollevò lo sguardo nella mia direzione, entrambi i cani al guinzaglio, esitò qualche istante e finse di non vedermi. Non voleva rischiare di dover rispondere a domande che comunque non ero intenzionato a porgli. Non sempre vogliamo sapere. Quasi mai ne abbiamo veramente bisogno. 
Così accadde. E accadde un pomeriggio di aprile. Forse era il 25 aprile, o forse no. Il concetto di festività penso non sia stato mai così relativo come allora. Comunque accadde. Quando sentii il telefono squillare, mentre ero intento a lavare qualche stoviglia, non risposi subito. Aspettai. Probabilmente speravo che, chiunque fosse, desistesse. Quasi supplicavo mentalmente Dio che accadesse. Quello squillo, quella suoneria, quel numero di telefono, non potevano promettere nulla di buono. E poi... sapete come accade, alle volte, che scatti un segnale di allarme dentro di noi? Potrei chiamarlo sesto senso, ma forse è solo uno strato d'ansia radicata e onnipresente a un livello subliminale, che ogni tanto decide di fare capolino. Risposi. Quel che sentii mi raggelò il sangue (ma non era in realtà già gelido? Il mio cuore non aveva già saltato uno o due battiti, prima che sentissi la voce di Anna?). Aveva fatto un tampone quella mattina, mi stava dicendo, perché sul lavoro aveva visitato senza protezioni (la solita, avventata Anna) un paziente con polmonite. Polmonite interstiziale, aggiunse. Come se ce ne fosse bisogno.

«Sai che non posso muovermi di casa».

Mi stupii non poco di averle risposto così. Ancora oggi, ripensandoci, mi sento un verme (cosa avevamo detto degli animali che strisciano?)

«Sei un medico» osservò lei.

Non sembrava preoccupata, e la cosa mi stupì non poco. Non era mai stata quella “forte” della coppia.

«Ero un medico. Adesso ho un carcinoma polmonare con metastasi dappertutto. Direi che sono un paziente» puntualizzai.

Mai che contassi fino a cinque prima di parlare. D’impulso lanciai un’occhiata al pacchetto semivuoto di sigarette sulla mensola della cucina. 

«Il tampone è positivo. Ne dovrò fare altri. Ho fatto anche una radiografia toracica, e poi una tac. Polmonite bilaterale».

«Saturazione in aria ambiente?»

Sentivo il fischio dell'ossigeno ad alti flussi attraverso il telefono come se fossi lì accanto a lei, ma non potei fare a meno di chiederlo.

«92. Ho una Venturi, ma sto bene».

Non sembrava affatto. Pronunciare ogni parola sembrava costarle parecchio. Evitai di contraddirla.

«Ti ho chiamato per Sofia. Qualcuno deve prendersi cura di lei mentre starò in ospedale».

«Come posso prendermi cura di una bambina? Io ho bisogno di qualcuno che si prenda cura di me, Anna».

Cercai di usare il tono più brusco che mi riuscì di ottenere. Diamine, avevo fatto di tutto per farla allontanare da me, perché mi accantonasse e dimenticasse, come si può fare con un brutto incidente di percorso, ma a quanto pareva non era servito a nulla.

«Non è una bambina. Ha 12 anni, e non ha nessun altro. Non ho tempo di discutere, Alessandro. Per adesso l'ho lasciata a casa di Deborah...»

Feci meccanicamente un colpo di tosse e sussurrai l'eco del suffisso del nome della sua amica del liceo. Deborah. "Ahhhhhhh". La detestavo. E lei detestava me. Per anni aveva ripetuto ad Anna che poteva avere di meglio ("di molto meglio") di me. Be’, a quanto pare alla fine aveva ragione. Cosa che non avrei mai detto a voce alta, chiaro.

«Okay» cedetti.

Stava per riagganciare, quando le chiesi, esitante: «Come stai? Cosa dicono i medici?»

Lei sorrise. Non potevo vederla, ma qualcosa mi diceva che stesse sorridendo.
Forse il tono della sua voce. O forse quel dannato sesto senso, quello che mi faceva sempre pensare al film horror con Bruce Willis e Haley Joel Osment.

«Starò benone».

Ma non stava già bene?

Non controbattei. Da medico, sapevo che siamo una brutta - pessima - categoria di pazienti. La peggiore, in effetti.

«I colleghi dicono che, visto il quadro radiologico, devo fermarmi in ospedale. In più, non voglio neppure rischiare di contagiare Sofia. Farò il solito cocktail di antivirali, clorochina, eparina… quel che serve. Non vedo l’ora che tutto questo sia finito». 

Anche in quel caso non seppi cosa dire. Optai per cambiare argomento.

«Avresti dovuto indossare camice, mascherina, guanti… diavolo, Anna, sei sempre stata così imprudente». 

«E tu non avresti dovuto iniziare a fumare, Ale. Siamo pari, mi pare».

Silenzio.

«Io...»

Se non fosse caduta la linea, forse avrei detto che l'amavo ancora. Che desideravo più di ogni altra cosa trascorrere con lei gli ultimi giorni, mesi della mia vita. Che non c'era notte che non mi addormentassi pensando lei, a loro due, e mattina che mi svegliassi trovando il cuscino intriso delle lacrime versate nel sonno. Forse avrei detto quello, e molto altro. Ma cadde la linea.
Fu in quel momento che scoppiai in lacrime.

"Se mai incontrerai la tua anima, non piangere. Dille che tutto andrà bene".

E così feci, la prima volta che rividi Sofia.

Non cantava questo Bob Sinclar nel 2006?

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