Wedding
Sudava.
Di questo si sentiva abbastanza certo, per quanto non gli sembrasse di possedere una vera e propria cognizione del proprio corpo, in quello specifico frangente. A renderglielo noto, in aggiunta all'alquanto sgradevole contatto della camicia umida con la pelle, si sommavano i roventi raggi del sole morente di fine maggio, che fendevano la penombra sonnacchiosa della camera da letto, attraverso quell'unico, indomito spiraglio di luce sfuggito alle pesanti tende, nel quale mulinelli di pulviscolo vorticavano con disarmante lentezza, quasi stessero galleggiando nell'etere.
Per quanto, due rampe di scale più in basso, la musica seguitasse a suonare senza posa, alle sue orecchie non giungevano altro che sporadici suoni ovattati e assolutamente indistinguibili, di cui possedeva solo una vaghissima percezione. Il silenzio, al contrario, gli pareva assordante e totalizzante, quasi ne fosse avvolto, come da un'invisibile coltre di lino, rimboccata ben stretta.
Aveva caldo, tanto caldo da boccheggiare. Con un gesto quasi irriflesso, fece per allentare il nodo della cravatta, solo per realizzare, l'istante successivo, di non indossarla più. Non ricordava di averla sfilata. Gettò una rapida occhiata circospetta nei paraggi più immediati, senza tuttavia riuscire a scorgerne alcuna traccia. Si domandò, senza particolare convinzione, dove potesse essere finita, sebbene gli fosse ben chiaro che, in effetti, l'assenza della cravatta al momento costituisse l'ultimo dei suoi problemi.
Le palme delle sue mani aderivano perfettamente al gelido pavimento sul quale era seduto, teso sugli avambracci, ben esposti per via delle maniche della camicia più volte ripiegate. Sulla pelle chiara spiccava prepotentemente un intricato motivo astratto di sottili cicatrici lattiginose, pressoché impercettibili, intervallate da alcune più evidenti, tinte di vermiglio, tanto recenti e vive da dare l'impressione di essere sul punto di prendere a sanguinare.
Si decise, infine, a esaminare la parte inferiore del proprio corpo.
Trovò quasi subito che le gambe avessero assunto, probabilmente in maniera del tutto autonoma e ai limiti dell'anarchia, una posizione innaturalmente rigida, lunghe distese sul pavimento, le punte dei piedi (scalzi, sebbene avesse rimosso il ricordo di essersi, a un qualche momento, sfilato i logori mocassini che indossava) rivolte verso l'interno, quasi a sfiorarsi. Evitò accuratamente di posare lo sguardo sui propri pantaloni lisi e, più specificamente, sulla propria cintura, da tempo indefinibile non più serrata nei passanti, bensì bellamente slacciata, nonché di indagare più approfonditamente la questione.
Con la stessa, rigorosa meticolosità Remus Lupin si studiava di eludere in ogni modo il pressante sguardo indagatore che, dal lato opposto della piccola camera d'albergo, stava esaminandolo con fare scrupoloso. Percepiva di essere trapassato da parte a parte, si sentì miseramente nudo nella propria, mai realmente celata, vulnerabilità. La familiare sensazione di disagio, di viscere aggrovigliate, che inesorabilmente si generava in lui ogni qual volta qualcuno (chiunque fosse) osasse seguitare a osservarlo per un tempo più lungo di due o tre secondi, prese ad affiorare, accompagnata da un leggero senso di nausea. E il caldo umido e viscoso di certo non l'aiutava. Represse in gola a fatica un conato di vomito, invocando qualsiasi divinità fosse all'ascolto di non essere parso eccessivamente ridicolo.
Per quanto di fatto non potesse averne certezza matematica, dal momento che i suoi occhi ambrati ora sembravano di gran lunga prediligere una fissità apparentemente vacua, orientata verso un punto indefinito, avrebbe spergiurato che gli occhi chiari di Sirius Black, che gli sedeva di fronte, fossero ridotti a due fessure, che le sue labbra fossero ben contratte e la mascella rigida. Segni antichi e inconfutabili che potevano significare solo una cosa, per quanto ossimorica suonasse se accostata al nome di Sirius: ansia.
La camera risultava essere tanto pregna di senso d'attesa, che la stessa aria sembrava essersi fatta in qualche modo solida, palpabile e mortalmente greve. Remus era più che certo che Sirius stesse ingaggiando una furiosa disputa interiore, nel tentativo di non spezzare forzatamente quell'opprimente silenzio, facendolo riecheggiare di un qualche commento insulso, quasi certamente equivoco e assolutamente fuori luogo. Sembrava essere sedimentato nella sua natura, non tollerava in alcun modo che il silenzio si prolungasse per più di due o tre secondi, lo innervosiva in un modo singolarmente simile a quello sperimentato da Remus ogni qualvolta quest'ultimo si sentisse osservato, e pressochè immediatamente avvertiva un bisogno quasi primario di dar fiato alla bocca o, alternativamente, di adoperare una qualunque altra fonte di rumore quanto più acuto, molesto e disdicevole possibile. Tuttavia, Remus lo avvertiva con chiarezza pur senza guardarlo, Sirius sapeva bene di doversi costringere a tacere, quantomeno per il tempo che fosse stato necessario a entrambi per metabolizzare la cosa. O per sempre, se questo non fosse mai accaduto.
Dal canto suo, Remus era più che certo che la propria facoltà di proferire parola alcuna fosse andata persa, forse in eterno, impigliata in qualche angolo remoto e imperscrutabile, assieme alla sua cravatta, nell'indefinibile arco di tempo che era trascorso da quando aveva raggiunto Sirius nella camera che condividevano, sino a quel momento.
A un tratto si sorprese a domandarsi quante probabilità ci fossero che qualcuno, dal piano di sotto, dove la festa pareva procedere vivacemente, venisse inviato in perlustrazione, al fine di richiamare i due fuggiaschi all'ordine. Sirius restava pur sempre il testimone dello sposo, non gli sembrava così improbabile che fosse necessaria la sua presenza, sebbene le non compiante formalità fossero terminate da un pezzo, sostituite da un'ebbra e genuina baldoria, attività verso la quale, solitamente, il giovane Black si era dimostrato in più occasioni naturalmente incline.
James, riflettè Remus, per quanto estatico e ben poco lucido fosse stato, non sarebbe mai partito alla volta della propria luna di miele senza aver prima scambiato almeno un ultimo centinaio di spiritosaggini con il suo migliore amico. Era, dunque, imperativo affrettarsi a riacqusire lucidità e compostezza, industriandosi a celare la cosa, sotto strati di educata, a tratti formale, cortesia.
Trasse un ultimo, profondo respiro (puoi farcela), per poi decidersi a raccogliere, non senza un mal celato turbamento, l'occhiata che Sirius non si era arreso a rivolgergli. La figura seduta in terra che si stagliava immobile nella penombra davanti a lui gli parve innaturalmente tesa e impettita, quasi fosse all'erta, alla stregua di un cane previdente che fiuta l'avvicinarsi un pericolo in lontananza.
La camicia una volta candida, ben stirata e accuratamente riposta nei pantaloni scuri di Sirius, ora risultava essere completamente aperta. Anche la sua cravatta, che Remus ricordava essere stata color fiordaliso, pareva essersi volatilizzata. Il torace umido e ansante, rifulgente nella luce di un crepuscolo dalle tinte cremisi, denotava quanto anche lui stesse soffrendo il gran caldo. A differenza sua, Sirius sembrava in qualche modo essere stato in grado di preservare le proprie scarpe lucide da un destino analogo a quelle di Remus e ora, con la punta del piede destro, teneva il tempo di un motivo incalzante, che doveva star agitando i suoi pensieri.
Il pronostico di Remus pareva essersi, infine, rivelato vero: gli occhi azzurro chiaro erano, difatti, ridotti a due fessure tanto strette da dare l'impressione di essere chiusi, le labbra erano ben compresse tra loro, a convergere in un unico segmento netto, la mascella era contratta e rigida. Non cessava un istante di fissarlo con intenzione, sgomento, quasi fosse certo che di lì a poco si sarebbe infranto al suolo, in milioni di minuscoli frammenti vitrei e sferzanti. E, a onor del vero, Remus trovò che, quasi certamente, al mondo non ci fossero descrizioni del proprio stato d'animo più calzanti di quella.
Improvvisamente, il corridoio oltre la porta accuratamente chiusa della loro camera, muto e deserto sino all'istante precedente, risuonò di un vociare gioviale, crescente, punteggiato da fragorose risate sincere, unito a un frastuono di solleciti passi scalzi: pareva che fossero almeno in due e avessero una gran fretta. Sia Remus che Sirius furono pervasi dallo stesso, atavico e cieco terrore, condito da un livido senso di vergogna, che parve sciogliergli le budella e ridurle a niente più che un'informe poltiglia liquefatta. A entrambi parve di essere stati colpiti da una qualche fattura che impedisse loro ogni movimento: agghiacciati e pietrificati fissavano la porta, incapaci di qualunque reazione, con le orecchie ben addestrate a cogliere anche il più inudibile sussurro.
"Non mi prendi, non mi prendi!"
"Lo vedrai, se ti prendo!"
Alice e Frank Longbottom, giovani quanto capaci Auror, membri dell'Ordine della Fenice e neosposi, superarono di corsa la loro camera, apparentemente poco o per nulla interessati a indagare sull'eventuale presenza degli inquilini, e, in meno che un istante, le loro voci furono inghiottite dal fondo del corridoio, divenendo dapprima nuovamente indistinguibili e, successivamente, del tutto assenti. Lo stretto corridoio intessuto di linoleum, oltre la porta della camera, parve ritornare alla consueta placidità che vi vigeva.
Opponendosi con strenue energie all'impulso di rigettare sul pavimento quello che era stato il fastoso pranzo di matrimonio (assieme, ne era quasi certo, a qualche organo interno), Remus lasciò andare lentamente il capo contro la granitica parete. Avrebbe tanto desiderato avere le forze necessarie a tirarsi sù, rendersi tanto presentabile quanto il ricordo della cosa gli avesse concesso d'essere, e fiondarsi di sotto, chiudendosi prontamente la porta della camera alle spalle. Lo desiderava con ogni sua fibra, eppure non se ne sentiva in grado. Ed era perfettamente consapevole che la sua temporanea incapacità di allontanarsi da quel luogo fosse solo in parte attribuibile a quel senso di svilimento fisico che pareva trascinarlo in terra, come una nuova e più forte attrazione gravitazionale. No, Remus si sentiva imprescindibilmente, incorruttibilmente legato a quella camera e alla cosa di cui era stata teatro, tanto quanto percepiva (seppur senza averne una vera e propria coscienza) che nulla del suo rapporto con Sirius sarebbe rimasto invariato.
L'avrebbe ripudiato, ne era certo. Certamente già adesso stava scrutandolo con tanta costanza perchè lo inorridivano i gesti che aveva compiuto e lo inorridiva il pensiero che fosse ancora lì, che potesse replicare l'impresa. Quasi certamente lo temeva e ne avrebbe avuto ben ragione: chissà cos'altro avrebbe potuto fargli, cose indicibili, repellenti, terrificanti, cose che Remus neppure era certo di aver mai contemplato, nella propria vita, e di cui non avrebbe mai ritenuto di poter essersi reso colpevole, ora temeva che accadessero. Gli pareva di non avere controllo sul proprio corpo e sulle proprie pulsioni, quasi fosse trasformato. E, esattamente come in quei momenti di cui non gli restavano mai che vaghi ricordi dai contorni indefiniti, permeava in lui la familiare angoscia fosca e tetra d'aver perso il controllo e aver ferito un suo amico, o peggio.
Per quanto, dunque, Remus fosse più che certo che a nulla sarebbe valso e stesse già rassegnandosi all'idea di dover rinunciare, probabilmente in eterno, a entrambi i suoi migliori amici, perché Sirius non avrebbe certo tardato a rendere noto l'episodio a James (ma perché, per Godric, perché aveva fatto una cosa del genere?), scelse ugualmente di pronunciare quelle parole che sembravano quasi forgiarlo, quasi ne fosse interamente composto.
"Scusa, mi dispiace tanto." Scandì le parole con chiarezza, sforzandosi di assumere un atteggiamento quanto più solenne possibile e compenentrando lo sguardo ancora vigile di Sirius. Gli pareva che fosse venuto fuori più che bene, sincero e umile ma in un tono sufficientemente alto da poter essere inteso subito. Si riteneva piuttosto bravo nelle scuse, spesso si trovava a pensare che sì, se fosse esistita una qualche competizione agonistica monodisciplinare constistente nello scusarsi, avrebbe certamente conquistato il podio.
Sirius, di rimando, sbattè più volte le palpebre, in un moto di apparente incredulità, e allo stesso modo, aprì e richiuse più volte la bocca senza che ne venisse fuori niente più che un insieme di suoni incomprensibili, più simili alla lallazione di un neonato, quasi fosse tanto sconvolto dalle parole di Remus da essere regredito d'improvviso all'incapacità di articolare alcun vocabolo di senso.
"Non scusarti. Perché ti stai scusando? Perché mi sembra che ogni dannata volta che apri bocca sia per scusarti, Moony?" Replicò Sirius infine e il sollievo che si dipinse sul suo viso, per aver finalmente infranto quell'opprimente silenzio che pareva starlo atrocemente suppliziando, parve farlo risplendere di rinnovata luce. L'ombra di un consueto sorriso beffardo tornò a incurvargli le labbra.
E infine accadde.
D'improvviso, la mente di Remus, in un travolgente turbinio informe e di cui faticava a comprendere l'origine, lo proiettò lontano da quella camera d'albergo, traslato a un tempo che gli pareva infinitamente lontano, a una reminescenza remota, pressoché mai rievocata, prima d'allora, relitto marcescente sui fondali della sua memoria.
Il suo diciassettesimo compleanno doveva essere trascorso da non più che un paio di settimane, le tenui nevicate marzoline già lasciavano il posto alla primavera incombente, che pareva aleggiare su di loro in qualche modo pregna di un significato intrinseco che a Remus non pareva di afferrare, per quanto ne percepisse distintamente la presenza.
A differenza sua, che si sentiva pienamente soddisfatto della propria scelta di aver celebrato la maggiore età, sopraggiunta quasi all'improvviso in un piovoso giovedì di marzo, con nulla più che una candela sulla sua abituale fetta di crostata all'albicocca (con non poche proteste da parte dei suoi migliori amici), James aveva dichiarato che il suo imminente ingresso nella vita adulta avrebbe dovuto essere sancito da niente meno che la più grande, la più sfarzosa, la più meravigliosamente esagerata festa che Hogwarts avesse mai visto. Tre anni dopo, più o meno consciamente, avrebbe descritto il proprio matrimonio in termini pericolosamente simili.
E a ben poco erano valsi i tentativi di Remus di ricordare a James e Sirius (il quale, per qualche ragione non meglio precisata riteneva di dover ricevere un trattamento pari se non superiore a quello dell'effettivo festeggiato) che il suo essere un Prefetto l'avrebbe reso formalmente autorizzato nonchè moralmente obbligato a stroncare sul nascere l'organizzazione del party. "Moony, so che a te suonerà incomprensibile, dato che hai avuto la nostra età più o meno centocinquant'anni fa o giù di lì, ma questa festa è di vitale importanza e nulla di quello che dirai potrà convincerci anche solo a modificare il più piccolo dettaglio. E, per Godric, dov'è finito il tuo bastone da passeggio? Le tue gambe non sono più giovani come una volta, nonnino".
E a Remus non era venuto in mente nulla di sufficientemente arguto per poter replicare, ragion per cui si era limitato ad attendere, assediato dal senso di colpa, il sopraggiungere ineluttabile di quella dannata festa. Nulla avrebbe potuto lasciargli intendere che avrebbe rappresentato uno spartiacque di considerevole importanza, nel fluire degli eventi della sua vita.
Non ne possedeva ricordi particolarmente dettagliati.
Ricordava il Whiskey Incendiario sul pavimento, corpi di adolescenti accaldati compressi ben oltre il limite necessario alla respirazione, schiamazzi e musica, e la sua costante apprensione. Non era certo di ricordare le dinamiche che lo avevano condotto, sul finire di quella serata, a condividere un buio e alquanto angusto ripostiglio per scope con Mary McDonald. Ed era ancora più incerto se fosse qualcosa di consono a un Prefetto, aggirarsi furtivamente per il castello, nel cuore della notte, in compagnia di una collega di Casa con la quale si stava conversando amabilmente fino a poco prima.
Ma Mary correva e rideva forte (allo stesso modo di Alice e Frank Longbottom) e lo trascinava per un polso e a Remus non era parso opportuno dirle che forse non era il caso di infrangere le regole e opporre una qualche resistenza. E poi Mary aveva dei bei capelli, molto belli. Ricordava perfettamente quanto gli fosse sembrato assolutamente insensato, in quella forsennata corsa verso l'ignoto, avvenuta nella notte del 27 marzo di tre anni prima, che le regole della scuola dovessero essere valide anche per persone con capelli così belli.
E, d'improvviso, più in fretta di quanto avrebbe mai potuto immaginare, ogni cosa assunse una sfumatura di sogno e, al contempo, si fece incredibilmente vera, tangibile, e ogni cosa lasciava, del tutto inspiegabilmente, presagire che a lui sarebbe stato concesso toccare. Ricordava ancora come il profumo dei capelli di Mary l'avesse invaso, un istante prima che lei lo baciasse. Era un buon odore. E un bel bacio. Non che avesse avuto un qualche termine di paragone, all'epoca, ma gli era parso un bel bacio; indubbiamente doveva essere destinato a qualcun'altro, Mary doveva aver bevuto troppo, quella sera, certamente non era in sè, era suo dovere accertarsene.
"Sei sicura?" le aveva domandato un istante dopo (e ancora molte e molte volte gliel'avrebbe domandato), tremante d'ansia e di un'eccitazione che gli era stata fino a quel momento sconosciuta e che avrebbe spergiurato essere giustamente preclusa, a quelli come lui.
Non che lui fosse assolutamente certo di esserne a sua volta sicuro; in effetti la percezione che ne aveva avrebbe potuto essere definita più vicina al puro sgomento, condensato a un senso di colpa più o meno persistente, attribuibile in parte all'aver infranto le regole, in parte alla propria convinzione di aver, in qualche assurda e incomprensibile maniera, circuito Mary. Gli pareva, difatti, lampante che quelli come lui non meritassero nulla di anche solo vagamente simile e, per quanto la ragazza fosse naturalmente all'oscuro della sua reale quanto terribile natura, altrettanto certo gli pareva che, al solo guardarlo, nessuno avrebbe mai potuto reputarlo gradevole.
Al contempo, tuttavia, avvertiva con chiarezza in corpo un bollore vivido e innegabilmente crescente che, a differenza delle previe volte in cui gli si era inopportunamente presentato, non pareva accennare a dileguarsi e, al contrario, sembrava traslarsi in un indomito propulsore.
E Mary aveva annuito, presa dalla foga eppure decisa e più che lucida. La contrapposizione tra la determinazione impetuosa di lei e l'impaccio, neppure vagamente celato, di lui, pareva assumere un tono quasi ossimorico.
Non poteva star accadendo a lui, a Remus. Era Sirius quello solito a lasciarsi trascinare in angusti ripostigli, anche più volte alla settimana, non lui. Occasionalmente poteva esserlo James, ma certo non poteva essere lui. Persino Peter avrebbe potuto esserlo, ma non vi era alcuna ragione logica per cui sarebbe dovuto toccare a lui. L'imbarazzo per la sconveniente contingenza del proprio corpo, che gli pareva essere insospettabilmente conscio della dinamica che avrebbe seguito, lo raggelava, tuttavia Mary non pareva turbata; al contrario, afferrategli ben strette entrambe le mani, aveva preso a indirizzarlo dolcemente e al contempo carica di veemenza sul proprio corpo, come tracciandone un sentiero pregno di mistero, e liquidando con un cenno del capo ogni sua richiesta di conferma. Remus si lasciava guidare, estatico eppure agghiacciato, non osando imporre una pressione che fosse superiore a più che un lievissimo sfiorare la pelle vellutata di lei.
"Sei sicuro?" Aveva infine domandato lei, una singola, perentoria volta. Remus aveva annuito, con quanta decisione le sue gambe tremanti gli avessero concesso. "Seguimi" Aveva, dunque, intimato Mary, autoritaria eppure inspiegabilmente delicata. E Remus aveva obbedito. Gli pareva, in quegli istanti effimeri eppure tanto inspiegabilmente flemmatici da sembrare incapsulati all'interno di gocce d'ambra densa, che il proprio corpo si fosse d'improvviso reso autonomo dalla mente: assecondava quasi meccanicamente il ritmo che Mary aveva avviato, regolando allo stesso modo persino il proprio respiro. Aveva accuratamente evitato d'incrociare lo sguardo di lei, operazione resagli particolarmente agevole dalla scelta della ragazza di serrare accuratamente gli occhi scuri, allo stesso modo delle labbra.
Ricordava di essere stato certo, nello scrutare fugacemente quella visione (che sovrastava in modo assolutamente privo di senso e tuttavia così logico), che Mary stesse soffrendo, che stesse addirittura lacerandosi, che il suo peso la stesse opprimendo e che si contraesse in quella maniera innaturale quasi stesse affannandosi a reprimere eventuali rantoli di dolore. O, altrettanto probabilmente, di disgusto. L'impresa non doveva risultarle tanto facile: talvolta le sfuggivano alcuni sbuffi sommessi, che in fretta s'impegnava a ricacciare indietro. Al contempo, Remus non era stato altrettanto certo di essere in grado di troncare quel ritmo urgente, che gli era parso dettasse il suo stesso battito cardiaco: avvertiva come uno spiacevole quanto vivido presagio, al pensiero di ciò che si sarebbe potuto verificare, se l'avesse fatto; inoltre, lo trovava piacevole di un piacere crescente e irrequieto, che temeva e si studiava di reprimere e al contempo accoglieva, quasi lo avesse, certo inconsciamente, atteso da tempo.
Un istante dopo, tuttavia, tale questione aveva dovuto essere liquidata in fretta. Così come aveva esordito, quel folle, vitale ritmo s'era d'improvviso interrotto. Mary, come risvegliata da una sorta di trance, aveva aperto gli occhi e s'era affrettata a ricomporsi: non pareva fosse in grado di proferire parola e, se anche lo fosse stata, ogni indizio, dal suo sguardo sfuggente ai suoi gesti rapidi, lasciava intendere che non ne avrebbe avuto particolare voglia. S'era voltata in fretta, i bei capelli scarmigliati, avviandosi in direzione opposta a quella per raggiungere la Torre di Grifondoro e Remus l'aveva fissata in silenzio, turbato.
Dieci minuti dopo, nel buio del proprio dormitorio, ancora prevedibilmente deserto sebbene la festa fosse si ormai ristretta a un placido ritrovo di pochi nottambuli (perlopiù troppo poco lucidi per essere in grado di ritornare ai rispettivi dormitori sulle proprie gambe), Remus aveva pianto di un pianto muto e incredibilmente lungo. Metà aveva pianto di quel costante senso di colpa che pareva essergli cronico, se possibile accresciuto dalla mancata opportunità di fare a Mary le dovute scuse; ma metà (aveva poi realizzato) di irrazionale, genuina gioia.
E ora, sul finire di quella ridente domenica di fine maggio, ancora una volta (forse in virtù di una qualche perversa burla del fato) al celebrarsi di un grande evento nella vita di James, gli era accaduto ancora. Simile eppure profondamente diverso.
Puntellandosi sui gomiti, si chiedeva quanto tempo fosse trascorso da quando s'erano chiusi la porta alle spalle: il suo orologio dichiarava con assoluta certezza che la sala del ricevimento era stata disertata da lui e Sirius da neppure trenta minuti. Lo pervadeva la curiosa sensazione di essere lì da tutta la sua intera vita, che i vent'anni precedenti non fossero trascorsi che in quella camera, inerti e atrofizzati, incapaci di sottrarsi a quell'annichilente indolenza che l'aveva avvolto sino a quando, meno di trenta minuti prima, le dita di Sirius non avevano incontrato le sue. Seppure si fosse trattato di un contatto futile, apparentemente spoglio di qualsiasi significato e a cui difficilmente se ne sarebbe potuto attribuire uno più profondo della pura accidentalità, sebbene Remus fosse più che certo di aver incrociato le mani di Sirius innumerevoli volte prima d'allora e che a nessuna di esse avesse mai dedicato non più che la semplice registrazione dell'avvenimento, entrambi allo stesso modo ne avevano opportunamente percepito la gravità, palesatasi all'istante con la stessa irruenza di uno Schiantesimo.
Prontamente, come richiamati all'ordine da un'invisibile quanto possente entità metafisica, i loro sguardi si erano compenetrati: l'uno ambrato, invariabilmente velato da quell'insicurezza che proprio non gli riusciva di nascondere, l'altro di un azzurro chiarissimo, affilato, pregno di una fierezza che quasi la spuntava a mascherare lo smarrimento che tanto si studiava di sottrarre alla vista, ma certo non ingannava Remus, e Sirius ne era perfettamente conscio.
"Moony, tu..." Aveva esordito Sirius, in un tono tanto insolitamente lieve da risultare appena udibile, seguitando a piantare le proprie iridi in quelle del pallido ragazzo che aveva accanto, per poi interrompersi, in preda a un disorientamento a lui nuovo, destabilizzante. A Remus era parso immediatamente chiaro di star fortuitamente assistendo al verificarsi un evento di straordinaria rilevanza, tanto raro che James era solito affermare, con virtuoso puntiglio da profondo conoscitore della materia, che si verificasse solo una volta ogni tre generazioni, all'allinearsi di tutti i pianeti di tutte le galassie manifeste all'uomo e anche di quelle che gli erano ancora ignote: Sirius Orion Black non sapeva cosa dire e si vedeva costretto a un mesto e alquanto tetro silenzio.
E Remus stava giusto annotando mentalmente l'urgenza di notificare l'avvenimento a James, il quale di certo avrebbe saputo farne ottimo uso al fine di marchiare Sirius probabilmente sino al tramontare dei suoi giorni, quando era sopravvenuta quella cosa che mai, neppure nel più remoto dei suoi viaggi onirici, neppure nella più fugace delle sue fantasie, aveva supposto potesse sopravvenire. Eppure era sopravvenuta, sul finire di un giorno di maggio in una piccola camera, al secondo piano di piccolo un albergo in un piccolo villaggio ed era, in effetti, l'unica cosa al mondo che avesse senso, l'unica che avrebbe dovuto verificarsi in quell'istante, secondo l'ordine naturale delle cose, e l'unica che avrebbe dovuto proseguire in ogni altro istante. Sirius l'aveva baciato.
Per quanto gli risultasse estremamente semplice figurarsi, con estrema precisione, come quello scenario avesse dovuto apparire dall'esterno, a gli occhi di un eventuale, ignaro visitatore che da lì a un istante avrebbe spalancato la porta della camera incriminata (Remus era più che certo che sarebbe accaduto), per quanto penetrante e particolarmente autoritaria la voce della sua coscienza cercasse di ricordargli che aggettivi quali assolutamente disdicevole e inappropriato sarebbero stati più che adeguati a descrivere la cosa, il suo corpo non pareva essere stato dello stesso avviso.
Senza che ne avesse avuta reale cognizione, gettando al vento ogni ragionevole cautela, la sua mano destra si era affrettata, del tutto autonomamente, a carezzare il capo a Sirius, districando dolcemente quella sua chioma corvina, in un gesto tanto spontaneo da risultargli quasi ovvio e più che naturale, quasi possedesse una remota quanto infallibile certezza che non esistesse altro completamento a quell'incauto bacio, nonostante Remus fosse piuttosto certo di non aver mai azzardato a nulla di simile prima d'allora, neppure in un singolo caso. Eppure gli pareva, per qualche assurda e assolutamente inesplicabile ragione, che a Sirius non dispiacesse per nulla.
Doveva essere ubriaco, non c'erano dubbi. Si stava palesando ancora una volta la ben più che familiare inettitudine di Sirius nel distinguere con precisione quale fosse il momento più propizio a smettere di mandar giù Whiskey Incendiario. Doveva assolutamente essere andata così, ragione per cui Remus percepiva chiaramente la necessità di interrompere quel folle divenire che stava travolgendoli entrambi, con effetto immediato.
E in effetti era stato proprio sul punto di farlo, stava giusto apprestandosi lasciar andare la presa, adempiendo dunque, ancora una volta (non senza una punta di puro rammarico neppure del tutto celato), ai suoi doveri di persona schedata più o meno dall'unanimità sotto la voce responsabile, quando, in maniera del tutto priva di alcuna apparente ragion d'essere eppure così innegabilmente sensata, le braccia di Sirius avevano scelto di cingergli la vita e Remus s'era d'improvviso sorpreso a chiedersi per quale dannatissima ragione si fosse anche solo lasciato sfiorare dall'idea di troncare quella contiguità così chiaramente giusta.
"Moony" lo aveva invocato Sirius, in un sussurro affannato, mutilando la cosa d'improvviso: si stagliava ancora immobile nella penombra, uno sguardo fiero e più che lucido aveva fugato ogni dubbio di Remus circa un suo eventuale stato di ebbrezza, una singola ciocca d'ebano pareva intralciargli la visuale: da pochi mesi s'era impuntato a volersi lasciar crescere i capelli.
"Moony, noi non dovremmo" si era affrettato a proseguire, senza attendere alcun cenno di assenso da parte di Remus, il quale si era limitato, frattanto, ad abbassare le palpebre con disarmante lentezza.
"Ma in realtà so che dovremmo e so che anche tu sai che dovremmo. Perciò, dato che non c'è un reale motivo per cui non dovremmo, eccetto il fatto che non dovremmo, potremmo...".
"Sirius, ti assicuro che non ho la minima idea di cosa tu stia dicendo, neanche lontanamente. Tuttavia, potremmo..."
Potevano.
Remus non possedeva neppure il più vago, aleatorio sentore di cosa potessero, eppure, a quanto pareva (e di questo ne era più che convinto) potevano.
Ricordava Mary con vaghezza, i contorni di quel ripostiglio che aveva conosciuto milioni di anni prima gli parevano indistinti, impenetrabili alla conoscenza umana, eppure era assolutamente certo che neppure per un singolo istante, nella greve penombra della sua bacchetta accesa, le sue mani si fossero arrischiate a trascinarsi anche solo appena fuori dal sentiero da lei tracciato. In quegli istanti, al contrario, dovevano essere state infuse di uno spirito di iniziativa che Remus non era certo di aver mai posseduto e che non disdegnava, seppure gli fosse stato ignoto fino a quel momento; aveva vinto la strenua lotta intestina che costringeva con forza i suoi arti all'inerzia e ora aveva lasciato che questi si mobilitassero come ritenevano gli fosse più congeniale. D'altro canto, non gli era parso che Sirius fosse intenzionato a ricondurlo all'ordine in tempi brevi.
E ora, dopo un tempo infinitamente esteso che per qualche inesplicabile ragione si era tradotto in poco meno che una mezz'ora, seguitava a fissarlo attonito, seduto in terra, le lunghe gambe ora raccolte tra le braccia, martoriando nervosamente le proprie labbra, in un segno d'impazienza e impeto malcelato a Remus tanto familiare, tanto noto, da risultargli quasi intimamente condiviso. Era perfettamente conscio che fosse soggiunto, inesorabilmente, il suo turno di proferire parola, ed era altrettanto ben consapevole che tentare di sottoscrivere nuovi (quantomai plausibili, a sua detta) argomenti che accreditassero la sua necessità di chiedere perdono avrebbe generato, in Sirius, il consueto, quanto avvilente moto d'ira che sempre seguiva i suoi tentativi di scusarsi ogni qualvolta ne percepisse l'urgenza.
"Non dovremmo dirlo a nessuno, Sirius." Scelse infine di decretare, tentando di sopprimere con quanta forza di volontà avesse in corpo l'istinto quasi primario di aggiungere un rapido quanto incisivo mi dispiace, capirò se vorrai evitarmi. Gli angoli delle labbra di Sirius si sollevarono impercettibilmente, segno inconfutabile che l'intera situazione generasse in lui un'ilarità sincera. In quell'istante, Remus fu più che certo che qualsiasi cosa avesse scelto di replicare, sarebbe stata intrisa di umorismo tagliente almeno quanto la sua camicia era intrisa di sudore.
"Oh, certo, ti ringrazio infinitamente di avermelo suggerito, stavo proprio morendo dalla voglia di correre di sotto a spiattellare tutto a James, nel giorno del suo matrimonio. Davvero, te ne sono grato, Remus. E dire che stavo quasi per proporre un brindisi per raccontare la cosa, te lo immagini che imbarazzo, davanti a tutti i membri dell'Ordine? 'Ehi, voi! Vorrei brindare al fatto che io, Sirius Black, nel giorno più importante del mio migliore amico, assieme al qui presente Remus Lupin ho...' "
"Smettila di fare l'idiota" Lo interruppe bruscamente Remus, scegliendo tuttavia di eludere nuovamente il suo sguardo, fattosi repentinamente quanto gravemente gelido. Di colpo gli parve che il peso di quella giornata gli fosse piombato sulle spalle all'improvviso e ora lo stesse incurvando al suolo, rendendogli impossibile rivolgere la sua attenzione ad altro che non fosse una composta fila di formiche, intenta a marciare sul pavimento intriso di uno spesso strato di polvere.
"È stato chiaramente un errore. Non accadrà più." Stabilì infine e, per quanto il suo tono suonasse sufficientemente autoritario, era certo che a Sirius non sarebbe sfuggita quell'unica, fievole incrinatura che s'era tanto sforzato di comprimere.
"Un errore, certo, perché non esiste nessuna scelta volontaria nella vita di Remus Lupin, poverino. Un ragazzino tanto a modo... erano gli amichetti pestiferi a trascinarlo sempre nei guai, non certo lui di propria sponte a seguirli. Per te è sempre stato più comodo così, giusto? Dire che non era davvero qualcosa su cui avevi il controllo, dire che ti lasciavi trascinare, dire che era un errore" Ogni traccia di un eventuale sorriso sul volto di Sirius, pur fosse stato il più mordace, il più fintamente divertito, si estinse. La mascella era rigida e contratta, al pari dei pugni, ben serrati eppure come atrofizzati.
Remus fu certo che avrebbe urlato o che l'avrebbe colpito o entrambe le cose all'unisono, ma non lo fece.
"Per me non è stato un errore." Soggiunse invece, e la sua voce s'era d'improvviso riconvertita a poco più che un sussurro quieto, mentre Remus seguitava a fissarlo a breve distanza, sebbene non ricordasse di esserglisi avvicinato.
"Non so cosa sia stato. Non mi era mai successo." Proseguì Sirius e, sebbene il suo tono palesasse una, per lui quantomai inconsueta, titubanza, il suo sguardo neppure per un istante aveva ceduto. "Ma so che ho scelto io di farlo, che è stata una mia decisione. So benissimo cosa stai pensando, la tua faccia continua a urlare scuse perchè, per qualche assurdo motivo, ti sei convinto di avermi irretito con chissà quale presunto fascino ammaliatore, il che è in effetti un filino egocentrico da parte tua, non trovi, Moony?"
Remus avrebbe preferito persistere nella propria intenzione di non sbilanciarsi in alcun modo, eppure, pur affannandosi a trattenerle, le sue labbra si incurvarono impercettibilmente in un sorriso. Sirius gli sorrideva di rimando "Ed è stato bello. Con questo non sto dicendo che ora siamo innamorati o cose del genere, non allarmarti. Sto solo dicendo che per me è stato bello e che non ho assolutamente intenzione di definire un 'errore' qualcosa che, nella realtà dei fatti, non mi ha mai, nemmeno per un istante, dato l'impressione di esserlo."
Sirius tacque per un istante, accorciando nuovamente la distanza che li separava, che a Remus pareva aver curiosamente assunto una connotazione più emotiva che fisica. "E tu, Moony?" Sollecitò infine, accennando a un sorriso e scrutandolo a fondo, quasi cercasse di interpretare un'intelligibile risposta in qualche modo tratteggiata sul suo volto profondamente segnato.
"Io..." Ma Remus non ebbe il tempo di stabilire un degno, quanto perentorio prosieguo. Una sequenza di passi grevi, che parevano arrancare a stento sulla scala a chiocciola che conduceva al corridoio rivestito di linoleum, squarciò quel silenzio impregnato di senso d'attesa. Entrambi si voltarono di scatto, guardando fissamente la porta, certi che di lì a un istante un'ignara sentinella dal piano di sotto l'avrebbe spalancata.
"Maghi oscuri che circolano liberi per tutta la Gran Bretagna, sparizioni, assassinii, e questi qui pensano sia il momento per festeggiare un matrimonio. Un matrimonio, ah! Per quanto ne sappiamo potrebbero esserci spie anche qui, trai camerieri. E in effetti ce n'era uno che proprio non mi convince, con quella sua aria gioviale... misà che andrò proprio a dirgliene quattro... E voi due? Che diavolo state confabulando lì dentro?! Se per quando sarò tornato malauguratamente non vi trovassi di sotto come tutti gli altri, sappiate che mi sentirò più che legittimato a usare il Veritaserum per scoprire quali piani contro l'Ordine state architettando! Dannati giovani, una guerra alle porte e questi pensano a sposarsi, bisogna stare all'erta..."
Attesero inerti che la voce roboante di Malocchio Moody si allontanasse, inghiottita dall'estremità oscura del corridoio, oltre la porta ancora ermeticamente chiusa della loro camera. "Quel suo dannatissimo occhio magico! Dovrebbero sequestrarglielo, quello lì se ne va in giro a spiare la gente, Moony, te lo dico io. Muoviamoci, dai" Lo esortò Sirius, accennando a trarsi in posizione eretta, seppur con disarmante lentezza, quasi fosse stato in qualche modo conscio di quanto avrebbe seguito.
"Sirius..."
"Mmh?"
"Stammi vicino."
E, sebbene l'incavo del collo di Remus grondasse sudore esattamente come ogni singolo centimetro della sua pelle, Sirius eseguì.
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