8. Una divisa per una paziente

Sono felice quando sono me stessa ,

e sono me stessa quando sono con te


The passenger, Iggy Pop

Questa è la canzone preferita di Gabriel, l'ascoltavo quando volevo sentirmi più vicina a lui.

Ogni mattina accendevo l'altoparlante e mettevo play, lo sentivo con me, come se, tenendomi la mano, cantasse con me.

«Le circostanze purtroppo erano queste, ma ho una cosa per te, vieni, devo dartela di nascosto!» disse lui poco prima della mia partenza, ed entrò nella stanza dei film, dove mia madre e io eravamo solite guardarcene uno ogni sera.

Tirò fuori da una borsa in tela la divisa azzurra degli infermieri, che avevo tanto desiderato. La dispiegò e me la mostrò, era proprio quella e profumava di pulito e di lavanda.

«È la tua?» chiesi a bocca aperta per la sorpresa inaspettata. 

«No, ne ho presa una nuova dal distributore, la mia avrebbe puzzato» disse lui ridendo.

"Peccato, avrei voluto portare via il tuo odore, così saresti rimasto con me!", pensai.

Ero senza parole, era un gesto meraviglioso il suo. «C'è uno squarcio sulla spalla purtroppo. Ho dovuto togliere il chip»

«Non fa niente, sono comunque felicissima, grazie!» Aveva voluto farmi capire che per via di quelle circostanze non ci eravamo potuti avvicinare ulteriormente, la legge al riguardo era severa, si trattava di abuso di potere avere una relazione con una paziente. Avrebbe potuto perdere il lavoro o pagare una multa salata. Prima o poi ci saremmo rivisti, ne ero certa. Magari fuori dalla clinica.

Comunque era stata tutta colpa mia e delle mie allucinazioni, che pensavo fossero la verità, ad avergli recato danni. Erano i medicinali che mi facevano perdere il senso della realtà. Una volta, per esempio nella mensa vidi una ballerina di danza classica fare qualche passo con le punte e un' altra un gatto tigrato arancione appollaiato su una sedia che dormiva profondamente, facendo le fusa; mi accorsi di sbagliarmi quando un paziente si sedette proprio lì.

Il giorno prima della partenza mia madre finì di fare le valigie, portammo via per la maggior parte vestiti estivi perché sapevamo che in inverno sarei stata di nuovo là in clinica, così mi avevano informata poco prima di partire; i restanti abiti li mettemmo nel deposito. Prendemmo anche qualche libro e un paio di maglioni per l'autunno.

"Ci rivedremo un giorno, Gabriel, e nulla potrà impedire di amarci" pensavo ingenuamente e stupidamente, come se fossi certa che lui provasse un intimo sentimento nei miei confronti.

Prima che partissi i dottori e la caposala vennero un'ultima volta in camera e mi diedero un regalo, la maglia degli infermieri, ne avevo due adesso! Avevo vissuto così a lungo lì dentro da sentirmi parte del team, come se fossi inserita nel loro gruppo e fossi anch'io un'infermiera. Le ringraziai calorosamente e mi venne quasi da piangere per la forte emozione, ma riuscii a trattenermi.

Quando partii pioveva copiosamente, era tutto bagnato e il cielo era triste e grigio, forse addirittura arrabbiato, indossava il colore del mio cuore. Il viaggio andò molto bene, ma il temporale non ci abbandonava. Per le prime ore di viaggio che ero seduta in fondo al furgone della croce rossa e nessuno mi vedeva, piansi, non volevo allontanarmi da lui, perché dovevo farlo? La vita non mi aveva tolto abbastanza? Doveva prendersi anche lui? Ero disperata, ma i paesaggi intorno a me distolsero la mia attenzione dalla tristezza. Al confine salimmo in macchina di mio zio e continuammo il viaggio. Dopo due ore, facemmo una pausa caffè, poi, continuando, ascoltai delle canzoni dall'iPod, che mi erano state passate da James, e che mi resero ancora più depressa, giocai un poco al cellulare, ma perlopiù dormii. Mio zio e mia madre fecero la spesa nel supermercato di un paesino di passaggio, comprarono pesto, pasta, pomodorini ciliegini, delle uova, una marmellata di lamponi, delle fette biscottate del latte e dei biscotti per il giorno seguente, mentre io rimasi in macchina a riposare non potendomi muovere liberamente senza qualcuno accanto, mi sentivo una nullafacente e avrei tanto voluto uscire fuori dall'auto all'aria aperta e sgranchirmi un po' le gambe. Quando, dopo il lungo viaggio, finalmente arrivammo, verso le ventidue, cucinammo la pasta con il sugo comprato e i pomodorini, una cena semplice perché eravamo stanchi e affamati, ma comunque gustosa, per me era qualcosa di particolare poter mangiare nuovamente del buon cibo italiano. Andammo a dormire molto presto, mio zio si fermò addirittura a casa nostra per la notte.

L'indomani il sole splendeva e faceva luce sul giardino per la maggior parte arido. Facemmo colazione di fuori al tavolo di legno sotto la pergola con caffè, biscotti e uova. Un raggio di sole risplendeva sulla marmellata che avevo spalmato su una fetta biscottata, che luccicava alla luce. Mia madre era talmente dispiaciuta nel vedere tutto secco che, quando mio zio se ne andò, si mise subito all'opera per annaffiarlo, rinvigorirlo e tagliare i rami secchi. Dopo qualche ora aveva già un aspetto migliore. Mi misi a leggere su una sdraio al sole, avevo portato con me molti libri che mi erano stati regalati durante la convalescenza. Cominciai "Kafka sulla spiaggia" di Haruki Murakami, godendomi l'aria fresca; il libro mi piaceva molto e mi aveva completamente presa, tanto d'aver letto cento pagine in un batter d'occhi. Tutto profumava di verde, di natura, di erba appena tagliata. Sentivo volare attorno a me api e calabroni. Si posò addirittura una coccinella sulla mia mano, chissà se avrebbe portato fortuna... Erano odori che non sentivo da tanto tempo, ma il mio pensiero era rimasto con Gabriel, d'altronde come potevo dimenticarlo? Non avrei potuto, ne ero completamente ebbra e folgorata, se non addirittura innamorata, anche se non lo conoscevo affatto. Era un infermiere, bassista, caratterialmente altruista e sensibile, intelligente e premuroso, ed ero convinta fosse l'uomo perfetto per me, l'uomo dei miei sogni, della mia vita. Avevo sognato spesso di lui, era una sorta di ossessione, convinta, esagerando e segretamente, che sarebbe stato il padre dei miei futuri figli, se ne avessi avuti dopo la lunga riabilitazione che mi attendeva. Con mia madre avevamo trovato uno pseudonimo per Gabriel, Sully, perché assomigliava all'uomo in "La signora del West", aveva gli stessi capelli lunghi e folti e gli occhi marini, profondi come l'oceano. Il nome si trasformò poi in Sunny, perché lui rappresentava un sole per me, mantenendo la stessa iniziale e finale e cambiando di conseguenza solo le consonanti centrali del nome. Siccome illuminava la clinica al suo passaggio, quando passava per i corridoi canticchiavo allegra:

Sunny - Bobby Hebb

[...]Yesterday my life was filled with rain

Sunny,

you smiled at me and really eased the pain".

Ieri la mia vita era piena di pioggia

Soleggiato

Mi hai sorriso e hai davvero allietato il mio dolore.

Adesso ero in Italia, il lockdown era terminato, anche se non lo avevo percepito affatto perché chiusa in clinica. Noi pazienti avremmo dovuto portare la ffp2, ma nessuno di noi lo faceva, venivamo testati ogni settimana e non ci preoccupavamo molto di ammalarci. Le persone fuori di lì, però, l'indossavano quotidianamente, ma almeno erano libere di muoversi all'interno del proprio paese o città, il blocco era solo tra le regioni, come in Italia d'altronde. 

Ora ero lontana da lui e disillusa dall'idea di poter iniziare una seria e stabile relazione con Gabriel, prima o poi lo avrei dimenticato, chissà quando. Intanto avevo cominciato a fare fisioterapia con tre diversi specialisti, Mirco, Davide e Josephine. Facevo progressi ogni giorno e ciò rendeva me e mia madre molto felici e orgogliose. Ogni passo era uno verso la guarigione, questo m'impauriva e, al tempo stesso, mi rendeva felice. Ero terrorizzata all'idea di fallire, m'impegnavo molto, ma per me non era mai abbastanza, pretendevo troppo da me stessa: volevo riconquistare l'autonomia persa, prima del tempo dovuto. Anche il solo andare al bagno o potermi fare la doccia da sola, potendo rimuginare sulla mia vita in silenzio e libertà, ascoltando solo il rumore dell'acqua che cadeva nella doccia, erano un sogno e una prospettiva importanti nella mia vita, chi lo avrebbe mai detto! Non avrei mai pensato di affermare o chiedermi molte cose. D'altronde la vita non è un grande mistero? È come una canzone, pensi di conoscerne la melodia e la fischietti insieme al suono che proviene dalle casse o dalla radio, ma poi ti rendi conto che non stai cantando la stessa armonia e ti accorgi che l'originale ha fatto un cambio di direzione e modificato, per esempio, tonalità. Così è la vita, piena d'imprevisti. Non puoi calcolarla, nasconde in sé diversi lati, positivi e negativi, attimi felici e altri tristi. Ma non puoi conoscerla se non la vivi a pieno e con tutta te stessa, tralasciando la paura, che rende immobili. È come avere equilibrio nel mio stato, un attimo prima sei sulle tue gambe e un attimo dopo ti ritrovi a terra o tra le braccia di chi ti sta accanto. Così era per me e Gabriel, mi teneva stretta ma appena vacillavo, come con una folata di vento e una foglia mi staccavo dalla sicurezza o dall'albero al quale ero aggrappata con tutta me stessa, in quel momento lui mi sosteneva con le sue braccia e mi guardava con quei suoi grandi occhi marini, sorridendo come un sole, dandomi fiducia e tranquillità, ma lui non sarebbe stato sempre lì per me a tenermi al sicuro, in quel preciso istante, per esempio, lui non c'era, ero sola in sedia a rotelle o in stampella ad affrontare la vita con le mie forze, dovevo avere fiducia in me stessa, dovevo credere nelle mie capacità ed energie, non avevo altra scelta, se volevo uscire da questa vita buia e tetra. Dovevo stringere i denti: "Ci si salva da soli" e così "Si guarisce da soli".

Inizialmente camminavo solo con il terapista accanto, che era pronto a sostenermi nel caso avessi perso l'equilibrio, poi, man a mano che il tempo passava, migliorai sensibilmente. Con il primo fisioterapista ero solita scherzare molto e confidarmi, era come un fratello maggiore, spiritoso e divertente. Con il secondo parlavo della vita e dell'universo e lo trovavo piuttosto attraente, ridevamo spesso e c'era in lui qualcosa che dava un senso di pace e benessere. A quest'ultimo avevo chiesto addirittura di uscire insieme, ma aveva rifiutato sia perché impegnato che per motivi di deontologia professionale e probabilmente perché ero disabile, assurdo che me ne dimenticassi di continuo. Entrambi gli specialisti erano bravissimi e dedicavano tutto loro stessi in questa avventura; non perdevano mai la pazienza, che mancava invece a me e che dovetti imparare a conquistare. Desideravo camminare ancor prima di fare qualche passo e mi davo dei termini difficili da rispettare. Immaginavo di correre e le aspettative, che non potevano essere reali, non venivano esaudite.

Mi rendevo conto che ero tornata a essere come una bambina che desiderava avere tutto e subito senza voler aspettare e dicevo ciò che mi passava per la testa, senza peli sulla lingua, spesso facendo imbarazzare i miei interlocutori. Ero diventata sincera, anche troppo, dire la verità non sempre è un bene, a volte mette in difficoltà chi si ha di fronte. Questo cambio di personalità in me procurava spesso depressione, non mi riconoscevo più. Chi ero diventata? Chi sono? Una disabile, una ragazza in sedia a rotelle o in stampella, no, ero e sono semplicemente Liberta, una nuova Liberta. 

SPAZIO AUTRICE

Liberta parte per tornare a casa e non conosciamo ancora i sentimenti di Gabriel, che sia interessato? Le ha fatto un regalo pazzesco, dovrebbe significare qualcosa, no? Ma allora perché non si sbilancia?

Avete mai ricevuto un regalo inaspettato da una persona altrettanto inaspettata?

Liberta e Gabriel si rincontreranno? Scoptitelo leggendo i prossimi capitoli!

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