7. Compleanno
Ogni compleanno merita di essere festeggiato.
«Quando è il tuo compleanno?» domandai incuriosita a Gabriel.
«Non te lo dico.» rispose lui con un sorriso malizioso, sorridendo.
«Dai, ti prego, voglio davvero saperlo!» lo pregai.
«Un giorno di marzo.» aggiunse Gabriel, vago e con aria furba.
«Quindi sei dello... quale segno zodiacale?».
«Dei pesci» rispose lui ridendo.
«Si, avrei dovuto capirlo.»
«Perché?»
«Sei molto socievole e sei un infermiere, aiuti il prossimo»
«E quindi?»
«La maggior parte dei pesci lavora nel sociale» dissi sicura, avendone le prove.
«E se io non fossi come gli altri?» domandò con un sorrisetto sghembo.
«Lo accetterei.» risposi facendogli la linguaccia. Di te accetterei anche i difetti, o forse amerei proprio quelli più di ogni altra cosa.
Arrivò marzo, continuavo a chiedermi con forte curiosità quale fosse la data precisa del suo compleanno.
Nonostante non fossi riuscita a conoscerla, decisi di creare una tazza in ceramica da regalargli, realizzandola durante l'ora di ceramica terapia con l'unica mano funzionante. Vi dedicai anima e corpo e un'incommensurabile fatica. Decisi la forma e i colori da utilizzare. Avrei usato l'azzurro e il rosso, come due facce della stessa medaglia. L'azzurro tranquillo e sereno dei suoi occhi, l'aura eterea che lo illuminava costantemente e il rosso della passione che metteva nel lavoro. La terapista, per la quale provavo un grande senso di gratitudine e di amicizia, mi aiutò in questo atto d'amore.
Qualche giorno dopo, chiesi di nuovo a Gabriel:
«È oggi il tuo compleanno?»
Lui rispose di no, muovendo la testa in senso di diniego, ma scorgevo come rideva sotto i baffi. Non me la racconta giusta
Molte ragazze avrebbero già perso la pazienza, io invece continuai a chiederglielo tutti i giorni senza mai stancarmi, preoccupandomi piuttosto che lo innervosissi per la mia petulanza. Ero decisa ad avere una risposta. Volevo saperlo a tutti i costi, ero testarda. Una mattina mi svegliai con il presentimento che fosse arrivato il momento giusto per scoprirlo, così glielo domandai ancora una volta, sperando fosse l'ultima.
«Non oggi, ma domani...» rispose finalmente. Alzò le spalle e scoppiò a ridere, diventando rosso.
Ero incredula.
Conoscevo il giorno del suo compleanno: il sedici marzo.
Un sorriso scivolò dolcemente sulle mie labbra. Quel pomeriggio mia madre e io andammo in centro. Non c'era ancora lo stato d'allerta a causa del virus e quindi era possibile uscire di casa e dalla clinica. Faceva molto freddo, ci coprimmo fino alla testa ed entrammo in un negozietto che vendeva di tutto; lì ci scaldammo e riposammo dal freddo pungente esterno. Comprammo dei tovaglioli gialli e una busta di carta da regalo dello stesso colore, sapevo che era una tonalità che gli piaceva. Quando tornammo in clinica passammo per l'aula della ceramica terapia per ritirare la tazza che era stata precedentemente infornata e che era ancora calda. Era bellissima e molto particolare. Tornate in stanza la riempimmo di Baci Perugina, portati a Lipsia dopo Natale. Un pensiero dolce quanto romantico. Lui probabilmente, non conoscendo l'italiano, non avrebbe capito il significato della parola "bacio", era un messaggio subliminale, che non avrebbe compreso in quel momento.
«Però lo incarti dopo, che hai ancora tempo» disse mia madre, che sapeva tutto e conosceva i dettagli del legame speciale creatosi tra me e Gabriel, anche se dubitava che fosse tutto reale. Anzi era sicura che fossero solo semplici allucinazioni romantiche, dettate dal sincero desiderio di essere amata da un uomo.
Il giorno seguente era il suo compleanno Non lo vidi poiché, per l'occasione, aveva preso il permesso.
Ero ugualmente al settimo cielo, non appena fosse tornato gli avrei dato il mio regalo. L'indomani, infatti, quando lo incontrai e gli diedi la busta, non stavo più nella pelle. L'aprì incuriosito e imbarazzato, strappando la carta, o meglio il tovagliolo dell'oggetto in esso contenuto.
Quando vide la tazza, la prese fra le dita attentamente per non rischiare che cadesse a terra e la osservò da tutti i lati, poi fece un'espressione di gioia in viso; al sole di marzo somigliava il suo sorriso.
«Questa avrà un posto speciale a casa mia» disse con tono affettuoso, prima di prendere e mangiare uno dei cioccolatini al suo interno.
Ingenuamente parlai di lui alla mia psicologa. Le raccontai della mia speciale relazione con l'infermiere, dei sorrisi, dei baci, dei sentimenti che iniziavo a provare, delle strette tra le braccia, delle carezze ricevute. Lei riferì tutto alla caposala, la quale, parlando a quattr'occhi con Gabriel, gli ricordò quale fosse il suo ruolo e gli proibì di avere con i pazienti rapporti diversi da quelli legati alle sue mansioni. Fu così che lui si allontanò da me lasciandomi nel dubbio di cosa ci fosse stato realmente tra noi. Il mio ex ragazzo, James, continuò spesso a farmi visita, regalandomi addirittura un puzzle con il quale passare il tempo. Un giorno mi prese per mano, anche se ero in sedia a rotelle, e mi portò nella sala comune dove desideravamo giocare a carte. All'ingresso di questa trovammo il "mio" angelo che mangiava un panino. Ci osservò con il fare interrogativo di chi si domanda: "e lui?" Ero nervosa, ma con aria diabolica gli feci un cenno di saluto e tornai a dedicarmi al mio visitatore, sperando che l'infermiere s'ingelosisse.
E così avvenne.
Gabriel, per tutto il tempo che Jamie rimase lì, non ci tolse mai gli occhi di dosso. La sua espressione era spaesata, probabilmente si chiedeva che cosa stesse succedendo e sembrava alla ricerca di un motivo valido per non odiarmi. Quando lo guardavo e notavo che lui faceva altrettanto, osservava subito un altro punto, muoveva, quindi, le pupille che erano fisse nella nostra direzione, non desiderava essere colto in flagrante, forse ingenuamente, perché ormai lo avevo scoperto e mi veniva da ridere. Le sue gote solitamente bianche si accesero di rosso come un semaforo. Mi si strinse il cuore al solo pensiero che lui potesse tenere a me in una qualche maniera impossibile.
Percepivo una sensazione di tranquillità e sicurezza quando lui era a lavoro come fosse lì a proteggermi, perciò mi sentivo bene e non avevo mai la paura di essere sola a combattere e abbandonata in quella clinica. Dopotutto lui era il mio angelo custode! Quando sentivo il suo profumo che impregnava i corridoi della clinica, lasciandolo dietro a sé come una scia, dal momento che se ne spruzzava un pochino anche prima di cominciare il turno, sapevo che era presente e lavorava quindi gioivo, quella fragranza sapeva di agrumi, erba appena tagliata e frittelle di mele, mi ricordava l'estate per via dei primi, la primavera per la seconda e il natale per le ultime. Aveva decisamente il profumo di marzo: la fine dell'inverno e l'inizio della primavera.
A volte mi sentivo in gabbia, come in uno zoo, forse perché ero un caso particolare di emorragia alla testa, non lo so, ma spesso venivo analizzata e presa come esempio in conferenze, come fossi un animale da osservare. Mi disturbava sentirmi così. Volevo uscire di lì, essere di nuovo libera, normale. Ero dannatamente stufa di quella condizione paradossale. Mi percepivo ordinaria, ma nonostante ciò non lo ero affatto. Si può vivere eternamente così? No. Dovevo combattere, stringere i denti e andare avanti, non c'era una via di fuga o una qualche strana magia a salvarmi: "Ci si salva da soli". Mi mancava spesso l'aria e mi veniva da piangere perché era una sensazione opprimente, come avessi un peso sul cuore, ecco la depressione, questi furono i primi sintomi. Non potevo uscire ogni fine settimana come la maggior parte dei pazienti e questo mi scoraggiava, lo stare rinchiusa in delle mura e in un edificio fa star male. C'era solo la sua presenza che alleviava il dolore, mi faceva stare di nuovo bene e dimenticare tale prigione. Mi rendeva possibile respirare di nuovo la libertà e forse anche per questo mi piaceva molto, mi metteva le ali all'anima. Ma non era una prigione comunque, era il luogo che mi avrebbe fatta tornare com'ero, era la speranza, ecco il significato incongruente che davo a quel posto.
Arrivò Pasqua e il virus si estese. Il lockdown aveva fermato il mondo, c'era silenzio ovunque. La paura gelava l'aria tra le vie di città e paesi. Non si respirava più un'aria genuina di fiducia nel prossimo, ma di paura. Dalla terrazza non si sentivano più le grida dei bambini che giocavano vicino alla clinica, passavano anche meno macchine.
Lockdown - Anderson. Paak
Sicker than the COVID, how they did him on the ground
Speakin' of the COVID, is it still goin' around?
Oh, won't you tell me 'bout the lootin', what's that really all about?
La struttura non concesse più visite e mia madre fu costretta a prendere una decisione:
«Esce e non vede più sua figlia per il periodo di ricovero oppure rimane dentro, decida lei» le dissero un giorno i dottori.
Così mi rimase accanto e si chiuse nella struttura con me, senza poter più uscire. Era come un leone in gabbia. La fecero dormire prima in camera con me, ma i controlli continui degli infermieri durante la notte, la svegliavano così decise di parlare alla caposala del suo disagio e la trasferirono in un'altra stanza.
Solo gli infermieri e i dottori erano liberi di entrare a lavoro e tornare a casa.
Il giorno di Pasqua mia madre cucinò una pasta per tutti con calamari e asparagi. Gli ingredienti vennero comprati dagli infermieri, i quali però non poterono mangiare con noi a causa delle nuove direttive per via del virus.
Un pomeriggio mia madre mi disse di aver incontrato Gabriel sulle scale dell'ingresso:
«Com'era vestito?» chiesi incuriosita. Mi sarebbe piaciuto sapere quali fossero i suoi gusti e il suo stile che non conoscevo, vedendolo sempre in divisa.
«Aveva un parca verde militare e i capelli sciolti» I capelli sciolti , pensai trasognata. Provai a immaginarlo e al solo pensiero mi vennero i brividi, poi feci un sospiro di sollievo e mi beai della mia galoppante immaginazione.
Da quel momento volli andare sempre sulla terrazza per contemplarlo mentre usciva dalla clinica a fine turno, per osservarlo da lontano muoversi liberamente nel mondo.
Un giorno lo vidi con un cappotto nero, i pantaloni neri. i capelli sciolti e grandi cuffie sulla testa. Fui folgorata, gli uomini vestiti di scuro mi attraevano moltissimo e per di più amava la musica! È lui quello giusto, costi quel che costi!
Mesi dopo, per Natale, mi mandarono a casa, camminavo con la stampella sulle mie gambe ed ero libera di muovermi, anche se solo con qualcuno accanto. Rincontrai tutti gli amici di vecchia data e cominciai a scrivere la prima tesina di due e, infine, al terzo anno, avrei consegnato la tesi magistrale, ma avevo difficoltà di concentrazione, dovevo fare spesso delle pause, per far riposare la mente.
La mia era una vita abbastanza monotona con pochi colpi di scena. Comunque in clinica continuai a scriverla e redigerla, fino a finirla. Riguardava il teatro nelle scuole steineriane, tema che mi stava particolarmente a cuore perché me ne ero già occupata quando studiavo a Roma, all'accademia teatrale, nella mia "vita precedente". Per elaborarla, avevo letto numerosi libri e avevo tratto molto dalla mia esperienza di tirocinio a scuola, con la quinta e undicesima classe che preparavano due pezzi teatrali, "Il piccolo principe" la prima, "Sogno di una notte di mezza estate" l'altra, dai quali avevo tratto ispirazione e feci correggere la tesi da mia madre, poiché di madrelingua tedesca. Fu un grande successo. Quando la consegnai mi sentii liberata di un grande peso, soprattutto perché mi ero impegnata molto. Mentre ero in Italia, Gabriel non si fece vivo, come previsto, Quando tornai in clinica fui molto contenta di rivederlo. Nei mesi successivi ci guardavamo di sfuggita e ci facevamo il segno con le dita di "ti seguo, ti controllo" come nel film Ti presento i miei.
Comunque non mi sentivo adatta a quella stazione, ero troppo lucida di testa e invece ero circondata da persone con problemi ben più gravi del non saper camminare. Il mio cervello era più o meno a posto mentre il mio fisico non lo era affatto, ingiusto il caso, non è vero? Il mio problema reale erano gli attacchi di pianto incontrollati, ma ero presente, sapevo esprimermi e dire ciò che desideravo, era il mio corpo ad essere assente e per questo, non avendo nessuno con il quale conversare nella stazione uno, mi sentivo nel luogo sbagliato. Ero circondata da gente completamente assente, fisicamente e mentalmente, era deprimente.
Sei mesi dopo, lasciai la clinica, per l'estate, finalmente libera di tornare a casa, in Italia, a casa mia, anche se mi ci sentivo principalmente a Lipsia. Era giugno e iniziava a fare caldo. La vegetazione era rigogliosa, il mondo pieno di profumi e di colori. Tutto mi ricordava i giorni precedenti quando, sulla terrazza della clinica, mi incontravo con Gabriel, che nelle pause di lavoro veniva anche lui a prendere il sole e ci scambiavamo sguardi furtivi da sotto gli occhiali scuri. Tornare in Italia significava anche lasciare Lipsia, Gabriel, gli amici e la stanza in cui vivevo prima dell'incidente e che adoravo. Mia madre organizzò il trasloco di tutte le mie cose in un deposito, pronte per il giorno nel quale sarei tornata a vivere in quella tanto amata città, la nuova Berlino, come la definivo io, sarei mai stata nuovamente autonoma? Poco prima di tornare in Italia, grazie all'aiuto dei miei amici, una mattina lei mi disse che nel nostro paese, a Bolsena, era stato organizzato un concerto in mio onore. Il sindaco aveva messo a disposizione il teatro comunale del paese e tutti i cari miei amici e di mia madre suonarono e cantarono. C'era anche chi aveva messo in vendita le proprie opere scultoree e quadri, il ricavato mi sarebbe stato donato in beneficenza. Fu un grande successo poiché vennero tanti amici e compaesani, il teatro era stato completamente riempito; c'erano anche molte persone rimaste in piedi dal momento che non erano più disponibili posti per sedersi, le emozioni non mancarono, ci fu addirittura chi pianse sia per la gioia che fossi ancora viva che per la suggestione che donava la musica. Mi commosse molto il fatto che ci fossero così tante persone che mi pensavano e mi volevano bene.
In un batter d'occhio arrivò il giorno della partenza. Mia madre e io saremmo andate con l'ambulanza fino al confine con l'Italia e da lì avremmo continuato il viaggio in macchina con mio zio. Scrissi una lettera a Gabriel e gliela diedi la mattina prima della partenza:
"Caro Gabriel,
sei un fantastico infermiere, fai il tuo lavoro seriamente e con amore, sei molto umano e hai molta empatia. Non esistono tanti infermieri come te, che fanno il loro lavoro con la dedizione e la passione che ci metti tu. I fatti sono andati così come immaginavo, all'inizio avevo molta speranza, ma ben presto ha cominciato ad affievolirsi, sei diventato sempre più freddo e distante. Che cosa ho fatto di sbagliato? Sono rimasta intrappolata in un vortice d'amore nei tuoi confronti, ma non ho mai capito se questo fosse corrisposto o se per te era solo un gioco. Quando sarò in Italia, tu farai parte del mio passato, farò finta di non averti conosciuto, perché ciò che non si conosce non può mancare. Comunque, peccato. Ci siamo sfuggiti e adesso è troppo tardi. Magari un giorno avremo modo d'incontrarci, di nuovo".
Scrissi la lettera, la misi in una busta con su scritto "Per Gabriel" e gliela diedi quando venne in camera, di nascosto dagli altri infermieri che avrebbero sicuramente spettegolato. Perché la scrissi? Ero convinta gli piacessi! Forse era vero, forse no. Comunque non gli era permesso un avvicinamento ulteriore, anche avesse provato qualcosa per me. Ero speranzosa e credevo che un'aperta dichiarazione cambiasse le carte in tavola, che stupida!
Penso lo amassi già allora. Difficile confondere un sentimento così forte, come quello che provavo io nei suoi confronti.
«Puoi anche buttarla via, se vuoi» asserii con falsa noncuranza.
«Assolutamente no, la metto con tutte le altre lettere» assicurò lui.
«Puoi aggiungerla a quelle che ti hanno scritto le altre pazienti, perché so che è così» replicai, con la stessa malcelata indifferenza.
Rimase in silenzio, come per annuire, facendosi subito serio.
Poco prima di partire, lo salutai per l'ultima volta.
«Hai letto la lettera?» domandai non stando nella pelle dalla curiosità.
«Non ancora» rispose facendo spallucce.
«Ci rivedremo al secondo ciclo di terapia» dissi, unicamente per trovare un po' di consolazione. Sentii gli occhi bruciare e distolsi lo sguardo da lui, inspirando profondamente il suo profumo, per non dimenticarlo.
«Purtroppo i fatti sono andati in questa maniera...» asserì con tono debole e poco fiato in gola.
Intanto all'università i professori avevano registrato gli audio dei loro seminari e mi offrirono tutto l'aiuto possibile. Non erano stati solo degli insegnanti, ma dei veri amici. Un professore in particolare, Thomas, mi aveva presa tanto a cuore. Era un vero amico, una sorta di nonno, mi voleva bene e io mi ero tanto affezionata a lui. Durante la degenza veniva a trovarmi più volte a settimana, portandomi sempre fiori, libri e dvd. Una volta mi aveva donato un sassolino con proprietà energetiche e una piccola bambola che mi avrebbe protetta e che misi subito sopra il letto prima in clinica, poi a casa. In seguito, quando ero in Italia, mi chiamava regolarmente per sapere come stavo.
SPAZIO AUTRICE
Avrà fatto bene Liberta a fare un regalo a Gabriel? Ne è valsa davvero la pena? Scopritelo, continuando la lettura della storia!
Avete mai fatto un regalo a qualcuno senza sapere se sarebbe stato apprezzato?
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