27. Perdersi e ritrovarsi
5 anni dopo...
Non ci eravamo persi veramente.
Stavo organizzando le ultime cose per il viaggio. Avevo prenotato l'hotel per le notti in cui sarei rimasta a Praga; quella di partire era stata una decisione dell'ultimo minuto. Era una pazzia e lo sapevo bene, ne ero all'altezza da disabile quale ancora ero?
Preparai lo zaino, infilando due maglioni, un paio di jeans, dal momento che quelli grigi li avrei portati addosso, degli slip, un pigiama in flanella, poiché faceva ancora freddo, un reggiseno senza coppa e dei calzini in lana. Presi anche un paio di collant neri. Chiusi tutte le finestre di casa, m'infilai il mio solito cappotto grigio topo, la sciarpa e un basco rossi; poco prima di uscire dalla porta di casa mi ricordai due oggetti di estrema importanza: il libro che stavo leggendo di Murakami e gli occhiali da sole, che infilai nella borsa velocemente. Oltrepassai la soglia e feci mente locale. Avrò tutto l'indispensabile con me? Il biglietto del treno! Rientrai velocemente e proprio accanto alla porta d'entrata sul comò bianco in legno avevo lasciato pronti il ticket per il viaggio e il mio passaporto, che afferrai subito. Feci nuovamente uno sforzo per ricordare di aver preso tutto il necessario. Aggrottai lievemente le sopracciglia, persa tra i pensieri; chiusi a chiave ed entrai nell'ascensore, scendendo al piano terra. Mi guardai un'ultima volta allo specchio dentro la cabina, illuminata da una fievole luce calda, per osservare che tutto nel mio aspetto fosse in ordine. Ero pronta per una nuova avventura dopo tanto, tanto tempo. Credo fosse il mio primo viaggio da sola da dopo l'incidente. Ero andata a trovare mia madre e alcuni amici sparsi in Europa, ma non ero più stata letteralmente sola in gita.
Non avevo trovato alcun uomo, Gabriel era stato l'ultimo ad aver posato le sue labbra sulle mie, tuttavia non ero triste, l'amore non corrisposto di un uomo non mi rendeva più debole, non soffrivo la solitudine. Ero una donna indipendente e felice di ciò che possedeva, anzi ne ero in modo assoluto grata. Avevo ricominciato a ballare lentamente, non mi muovevo più come prima, questo era chiaro, ma con le lezioni di swing che seguivo, ero riuscita a riallenare quel poco di ricordi fisici che avevo. E non importava come, ma ballavo! Ballavo! E non c'era più bella gioia di quella di tornare ad avere gli hobby di una volta. Avevo anche ripreso in mano il pianoforte, soprattutto con la mano sinistra che era ancora debole e lenta.
Mi avviai con la metro alla stazione centrale per prendere il treno che sarebbe partito alle 10:03. Di Gabriel non avevo avuto più tracce, da quello scontro in palestra smisi di frequentarla per non doverlo incontrare di nuovo, volevo evitarlo a tutti i costi. Forse sbagliando... ma lui non mi aveva mai amata e lasciarlo libero era la sicurezza più grande che avevo. Aveva bisogno dei suoi spazi, era evidente. Fu ciò che gli donai: tempo e libertà. Erano passati cinque anni, se avesse voluto avrebbe potuto contattarmi, ma non lo fece, l'ovvietà era chiara, anche per un'ingenua romantica come me: non mi voleva tra i piedi.
Se ripensavo a lui, non provavo rabbia, mi rammaricavo, provavo rimpianto per non essere riuscita a percepire il suo cuore battere amorevolmente al tempo con il mio, semplicemente non erano in sincrono, ma nella vita non si può avere tutto ciò che si vuole, e questo mi era stato insegnato più volte, solo con la forza e il coraggio potevo raggiungere i miei obiettivi. Il treno arrivò e si fermò, il tempo che i passeggeri scendessero e altri salissero. Presi posto nel vagone numero tre vicino al finestrino, quello accanto a me era libero, così avrei avuto più tranquillità, almeno per il momento. Il mezzo su rotaie partì dopo il fischio del capotreno, prese velocità e tirai fuori dalla borsa il libro che cominciai subito a leggere. Il sole che rifletteva dal vetro era caldo e piacevole, tuttavia mi abbagliava, così presi gli occhiali e me li misi. Due ragazzi molto alti passarono tra i sedili, uno moro e riccio, l'altro biondo in carne e robusto, con i capelli lunghi fino alle spalle. Poi un tonfo, qualcuno quasi cadde a terra. «Mi scusi, sono inciampato sulla sua valigia» Il signore seduto mugolò e io mi sporsi al di là del posto a sedere libero per guardare sul corridoio chi fosse iintoppato nel bagaglio del signore seduto dietro di me. Il ragazzo in questione era chinato con la testa in avanti, alcune ciocche di capelli fini e lisce gli ricadevano sul viso. Una folta crocchia si presentò davanti ai miei occhi di un colore così dolce, come il miele. La salivazione aumentò come se potessi sentirne il gusto in bocca.
Lui alzò per una manciata di secondi gli occhi, da poterne vedere solo le lunghe ciglia; il signore brontolò appena il giovane uomo propose di sistemare la valigia nel portapacchi in alto sopra le teste dei passeggeri. La voce metallica del ragazzo era gentile e candida, come quella di un principe...
Tornai a concentrarmi sul libro, d'altronde non erano affari miei, finché proprio lui non si rivolse a me, chiedendomi:
«È libero?» rivolgendo lo sguardo e l'indice in direzione del posto accanto a me. Feci un cenno di assenzo con il capo e lui si sedette vicino a me. La mia prima reazione fu guardargli le mani: erano curate, prive di calli, sembravano morbide, le unghie corte, troppo, come se tendesse a mangiarsele o strapparsele con i denti. Poi alzai gli occhi verso il suo viso. Un neo in mezzo alla guancia attirò la mia attenzione, era nascosto dalla barba, ma non passò inosservato, perché mi era familiare in qualche modo a me sconosciuto. Fissai i suoi occhi e pronunciai ad alta voce delle parole che in realtà si trovavano solo nella mia mente «I tuoi occhi...»
«Sono verdi» ridemmo all'unisono.
«Non sono cambiati, sono ancora così belli»
«Allora se credi di riconoscerli, guardali senza occhiali da sole» E così feci, li abbassai con un movimento lento e lo guardai dritto nelle pupille, asserendo «Porti ancora il colore del mare negli occhi» un sorriso sulle labbra mi sfuggì.
«Crescendo non cambia... anche tu porti sempre le acque marine nei tuoi, eppure mi sembri diventata adulta anche tu. Ci avviciniamo ai quaranta, eh?»
«Se faccio due calcoli tu sei già a quarantatré, eh!»
«Quarantadue.»
«Mr. perfettino, non è cambiato di una virgola»
«Anche la giovane sfrontata non può dirsi migliorata»
«Gabriel... quanto tempo, io-»
«Liby...» Non mi fece finire la frase
Lui non se n'era mai andato, d'altronde era il mio angelo e gli angeli ti proteggono sempre anche quando crediamo che se ne siano andati. Il suo sorriso di marzo riempiva ancora i miei occhi con una luce tanto forte da farmi brillare di vita. Rincontrarsi in realtà non vuole dire altro che non essersi mai persi veramente. Il filo che ci legava non si era spezzato, ma con la lontananza si era semplicemente allungato.
«Raccontami di te! Che fai? Dove vivi? Perché non ti ho più vista in palestra?» presi cinque lunghi respiri per calmarmi. Una sorpresa del genere fu talmente inaspettata da scombussolarmi del tutto. Era un segno del destino, dell'universo?
« Come puoi ben vedere sono indipendente, ho ripreso in mano le redini della mia vita, il braccio e la mano sinistri purtroppo sono ancora deboli, ma non perdo la speranza... ho lasciato la palestra perché non volevo più vederti dopo il pomeriggio in caffetteria, tu, invece? Vivi ancora nel quartiere di Plagwitz?»
«Non volevo farti lasciare la palestra!» esclamò con voce rotta, corrucciando le labbra
«Ne ho trovata un'altra, non preoccuparti.» replicai con un debole sorriso.
Lui inclinò la testa di lato, fissandomi e continuò «Sono stato appena lasciato dall'ennesima donna con la quale convivevo e sì, vivo ancora nello stesso edificio» fece un'alzata di spalle che lasciò ricadere subito dopo.
«È dura la vita, vero?»
«Non sai quanto...»
«Lo so bene, Gabriel, ma con coraggio e speranza si sopravvive a tutto.»
Durante il viaggio lui si mise ad ascoltare musica e io mi addormentai, successivamente la mia testa scivolò sulla sua spalla muscolosa, mi svegliai di soprassalto al tocco del mio orecchio con il tessuto del suo cappotto, mi voltai verso di lui all'istante, mi osservò e sorrise, i suoi occhi si fecero enormi con quelle lunghe ciglia che li incorniciavano. Mi guardò per davvero. Sentii precipitare lo stomaco e mi impietrii, stendendo lievemente le labbra in una linea; mi colorai di rosso, mentre sentivo il viso andare in fiamme.
Arrivati alla stazione centrale di Praga, scendemmo, lui accompagnato dai due alti ragazzi che erano passati nel corridoio tra i sedili a inizio viaggio. Si chiamavano Johnny e Sam.
«Dove dormite?»
«In un hotel fuori città, non ci possiamo spostare a piedi e tu?» sbuffò amaramente
«Al centro» feci un occhiolino maligno, scherzando.
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