24. Un abbraccio per un addio

Il tempo dice sempre la verità.

Fu il giorno prima della fine di quel ricovero, che lui venne in camera mia per salutarmi.

«Ho saputo che verrai dimessa e non tornerai più» sembrava triste perché teneva gli occhi bassi, che erano cupi come un funerale.

«Sì, è così, sono finalmente libera» annuii teneramente.

«E così le nostre strade si separano qui...» Il mio cuore diventò un macigno e le lacrime mi punsero gli occhi. I nostri sguardi s'incrociarono e restarono impigliati.

«Posso abbracciarti almeno un'ultima volta?» domandò con una punta d'imbarazzo.

«Sì, ma solo se posso farlo in piedi»

«A cosa ti servono altrimenti le gambe?»

«A camminare?» ero ironica, sapevo dove voleva arrivare.

«Errato. A guardare l'altra persona negli occhi, alla stessa altezza.» Replicò con dolcezza.

Si posizionò di fronte a me, che ero seduta, e mi pose il braccio per farci leva. Lo afferrai e, raccogliendo i miei sentimenti, mi alzai. I nostri visi erano molto vicini, quasi troppo. Gabriel conficcò le sue pupille nelle mie. Niente in quel momento riuscì a tenerci lontani. Eravamo in clinica, ma dal giorno dopo non sarei più stata una sua paziente, era arrivato per noi il momento di darci una possibilità. E forse un futuro? Lo avremmo scoperto solo con il tempo.

Allargò le braccia e io mi avvicinai. Il suo braccio destro mi avvolse le spalle, mentre quello sinistro la vita. Feci altrettanto, le sue spalle erano muscolose e robuste, ebbi difficoltà a racchiuderlo nella mia stretta. Per una volta, dopo un lungo periodo, mi risentii avvolta da quel calore di sicurezza e protezione, che mi era mancato a lungo. Il mio viso s'incastrò alla perfezione tra il suo collo e la sua spalla. Gabriel era vicino al mio cuore e io sentivo il profumo dei fiori nel giardino della sua anima; era un profumo inebriante, di quelli che ti rendono ebbra all'istante. Lui d'altronde era il mio sole di marzo, quello d'inizio primavera, del risveglio della natura, dei primi calori. E mi teneva salda a sé. Quando ci sciogliemmo da quella stretta come un nodo indissolubile, lo fissai negli occhi e lui divenne all'istante rosso in viso. Un colore che gli si addiceva e che ero abituata a vedergli stampato addosso. I suoi occhi brillarono, erano velati dalle lacrime.

«Non puoi piangere, non te lo permetto.» asserii.

«Perché? Mi mancherai, permettimelo» mi pregò con uno sguardo che mi fece tremare le gambe.

«Perché così non ne usciremo mai fuori sani e salvi.» Replicai risoluta

«E chi ti dice che io voglia uscirne?» domandò sfregandosi il viso con le mani, per nascondere l'incertezza e la vergogna; la sua voce era come il tocco di una piuma, delicata, fragile ed esile, che solleticava i miei nervi. I capelli ribelli lunghi fino alle spalle gli ricadevano spettinati sulla testa e i suoi occhi vitrei mostravano tutto il tumulto di un mare in tempesta. «Devo andare a casa adesso, fai la brava, continua a lavorare su te stessa e non perdere mai la speranza, sei a un passo dalla libertà assoluta» mi disse sostenendo il mio sguardo, mentre percepii una stretta al petto. Le sue parole mi pizzicarono le corde del cuore. «Sarò comunque a Lipsia, ti ho già detto che in autunno, tra un anno, mi trasferirò.»

«Poi ci rivedremo, ne sono sicuro» asserì, fissandomi

Sulla soglia della porta, si voltò un'ultima volta verso di me e mi fece un occhiolino, tamburellando con la mano sulla porta. Percepii la mia anima strapparsi in due e urlare senza voce. I miei respiri si allungarono per trasformarsi in singhiozzi. Subito dopo mi avvolse un soffice silenzio. La mia mente non volle spegnersi, perché i miei pensieri rimasero con lui.

Il giorno successivo, il venti dicembre, mi vennero a prendere mia madre con mio zio; andammo in giro per la città e a pranzo in un locale, dove presi un hamburger con formaggio halloumi e avocado accompagnato da un tè freddo al sambuco; successivamente facemmo qualche giro in città e andammo a trovare un'amica di mia madre, Ilma, Cenammo insieme a casa sua e del marito con anatra e patate al forno.

Poi tornammo in hotel per riposarci prima del lungo viaggio che ci avrebbe attesi il giorno successivo.

Andai a dormire, pensando a Gabriel, Quando fui distesa al letto sollevai gli occhi al soffitto e immaginai i suoi occhi marini. Mi voltai sul lato e affondai le dita nel cuscino. Sentii la paura di non vederlo più divorarmi lo stomaco. Il ricordo del nostro ultimo abbraccio si ripresentò davanti ai miei occhi, oscurati dal buio in cui piombava la stanza, ma durò un soffio, un respiro. Il ricordo della sua voce mentre affermava "Mi mancherai, promettimelo" mi fece stringere le viscere fino a farmi mancare il fiato. Non riuscivo a respirare, le lacrime sgorgarono dagli occhi con facilità come uno starnuto sul punto di esplodere.

Il viaggio per l'Italia durò un'eternità, una metaforica separazione da Gabriel che strappando lembo di cuore dopo lembo, come un chilometro successivo a un altro che ci lasciavamo alle spalle, ci smembrava, distaccava, allontanava.

È così che finiscono gli amori finiti contro volontà: dissanguati.

Non avevo neanche più la speranza di rivederlo una volta tornata a Lipsia, perché essa era soffocata con me.

Venni sopraffatta dalla stanchezza che lui fosse ovunque, nella mente, nei ricordi, sulla mia pelle, nei miei occhi così simili ai suoi, avremmo potuto essere fratelli, perché avevamo gli stessi lineamenti, gli stessi colori, solo le anime erano diverse: la sua turchese color del mare, la mia rosa antico, come l'anziana che pensavo di essere diventata.

In Italia frequentai una nuova clinica, per portare il braccio e la mano sinistri al funzionamento. Non potevo perdere le speranze! Quello è il fallimento più grande di un essere umano, perché non c'è niente che possa sconfiggere la paura più di essa!

Il tempo tra Roma e Bolsena passò velocemente e in men che non si dica passò un anno: era arrivato il momento del trasferimento.

Partimmo di nuovo in tre, alla ricerca di un appartamento a Lipsia, dove avrei potuto vivere.

I primi giorni cercai su internet annunci, visitammo quattro appartamentini, tutti con vasca da bagno, bella, ma scomoda per me che non riuscivo ancora a camminare bene, alla fine ne trovai con sorpresa uno nel quartiere dove un tempo avevo vissuto, Plagwitz.

Era il sette ottobre, da poco era passato il mio trentatreesimo compleanno. Affittai la casa e il giorno dopo aver firmato il contratto andammo a comprare i mobili. Si trovava all'ultimo piano, il quarto, ed era sottotetto. Aveva una spaziosa entrata con un comò bianco accanto alla porta al lato sinistro, al destro un appendiabiti con tutte le mie giacche autunnali. Un corridoio si stendeva a metà lunghezza dell'ingresso, introdotto da un accesso ad arco, che conduceva sulla destra alla mia camera da letto, sulla sinistra al bagno e al gabinetto separato. Al termine di quel varco, si raggiungeva una spaziosa cucina in legno bianca, provvista di un'isola alla quale erano accostati due sgabelli alti. Tre lampadine trasparenti e dalle sfumature scure e molto grandi pendevano dal soffitto. Sotto al ripiano erano riposte padelle e pentole. Il pavimento di tutta casa era un parquet in vero legno massello a spiga di pesce, il riscaldamento era a pavimento; il bagno era provvisto di una doccia a piano terra per facilitarmi l'entrata e avevamo montato un sedile all'interno di essa, nel caso mi sentissi stanca o non in grado di stare in piedi a lungo. Dal salone che si apriva proprio di fronte alla cucina, si usciva sul balcone, piccolo ma davvero carino. Avevo messo due poltrone in vimini e un tavolino fatto da bancali, sul quale tenevo sempre un posacenere. L'edificio era equipaggiato di ascensore.

Ci andai a vivere il giorno stesso della partenza di mia madre e mio zio, il dodici ottobre.

To build a home - The cinematic orchestra

'Cause, I built a home
For you
For me

Perché  ho costruito una casa
Per te
Per me

Inizialmente fu difficile riabituarsi a un nuovo stile di vita, sola, autonoma, responsabile per me stessa, non fu affatto facile, ma ci riuscii, tornai alla normalità.

Fu pochi giorni dopo che ricevetti un messaggio sorprendente:

- Ciao, sono Gabriel, il tuo ex infermiere, credo tu ti sia già trasferita, quindi ti va di vederci per un caffè? -

Risposi all'istante senza indugio:

- Volentieri! Dove? -

- Domani al caffè Phil, alle quindici -

- A domani. -

Urlai di gioia.

Avrei rivisto Gabriel.

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