18. La favola della vita
Qualche giorno dopo venne mia madre a trovarmi, entrò in camera dopo aver bussato, per non disturbare la mia vicina di letto, che, a sua insaputa, non era in stanza, ma a terapia. Entrò e, dopo avermi baciata e abbracciata, si sedette al tavolo sulla sedia in legno.
«Mamma, devo fare una cosa» mi guardò con un cipiglio, non capendo affatto a cosa mi riferissi. Suonai il campanello del letto, sperando venisse Gabriel, avevo bisogno di lui in quel momento. La porta era aperta, così lui si affacciò alla soglia e gli lanciai un cenno per farlo entrare. «Dimmi, di cosa hai bisogno?» Lo vidi lanciare uno sguardo a mia madre che era perplessa quanto lui.
«Visto che sei qua, ecco due pezzi della mia torta e i due film che devi vedere: Before Sunrise e Before Sunset» dissi con il sorriso sotto i baffi.
«Grazie» rispose, rosso in viso. «Ma non devi suonare il campanello per queste cose.»
Feci spallucce e un occhiolino.
Quella sera stessa, eravamo al bagno quando gli posi quella domanda ridicola:
«Ma io, in realtà, ti molesto?»
Trattenne una risata. «No, no» rispose, soffocando uno sghignazzo.
Provai a credergli, ma nella mia mente rivedevo il suo sorriso sghembo mentre mi rispondeva e ogni mia sicurezza crollava.
Lui, però, notandomi strana, mi pose una domanda per fuggire dai miei pensieri che mi avevano tolto il buonumore dal viso.
«Vuoi andare a letto in sedia a rotelle o a piedi?»
«Voglio camminare.» gli presi il braccio, di mia iniziativa, per appoggiarmi, e cominciai ad andare. «Cammino come un robot rotto!» dissi, ridendo nervosamente e faticando a trovare le parole; mi tremava la mano, per lo sforzo, sì, ma anche per lui che mi era così vicino da farmi barcollare e tremare le gambe. Mi voltai verso di lui e proprio in quell'esatto istante lui fece lo stesso, i suoi occhi combaciarono con i miei e il tempo si fermò, tutto si bloccò, il mio cuore, i respiri, qualunque suono, movimento, tutto divenne statico come un blocco di ghiaccio.
«Lo stai facendo benissimo, invece» affermò, interrompendo la sospensione di movimenti, suoni e pulsazioni, facendo riprendere tempo e ritmo alla vita che pensavo si fosse riposata per respirare, perché la sua presenza così vicina al mio corpo, faceva andare in panne ogni singolo nervo del mio corpo e luogo-temporale. Ogni forma di vita e di movimento si addormentava. Persino la polvere si fermava come inchinandosi a quell'angelo senza ali.
Arrivammo a letto e mi sedetti sul bordo poi lo guardai, perché volevo lui lì, in quel momento, desideravo con tutta me stessa un bacio, solo un misero bacio.
Ma non arrivò, anzi mi fece stendere per dirmi:
«Adesso è arrivato il momento che ti piace di meno», prendendo in mano la siringa antitrombosi.
«La odio!» farfugliai arrabbiata, perché non capivo come si potesse passare dall'idea di un romantico e utopico bacio a un ago piantato nella coscia. La vita mi prendeva in giro!
«Facciamo una cosa: poggia una mano sul mio braccio, e se senti dolore, stringi la presa, così saprò che ti sto facendo male.» L'hai voluto tu!
E, oltre ogni aspettativa, non ebbi motivi per serrare il suo avanbraccio, non fece male, non sentiii nulla...
Accidenti, erano le tre e quaranta quando dovetti andare per forza al bagno, cercai di trattenerla, ma più mi sforzavo, più sentivo premere e non riuscivo a muovermi, alla fine mi decisi a suonare il campanello: Arrivò subito, entrando con velicità in camera, preoccupato:«Cosa succede?»
«Devo andare al bagno» mugugnai, scoprendomi e mettendo di lato le coperte pesanti, perché avevo sempre molto freddo. Mi aiutò a mettermi seduta sul letto e mi fissò con occhi stanchi. «Camminare o sedia?» chiese con un sorriso dolce.
Nella penombra, si piegò sulle ginocchia proprio di fronte a me e il mio cuore fece un tuffo; no, non credevo mi stesse per chiedere di sposarlo, non era neanche alla lontana pensabile. Alzò il suo sguardo verso di me per fissarmi e rimasi senza parole di fronte ai suoi occhi marini, incorniciati da lunghe ciglia, che mi osservavano con la classica naturalezza di chi non sa di essere bello da mozzare il fiato. Si avvicinò di qualche centimetro alla mia bocca e le sue pupille ricaddero sulle mie labbra così gonfie di desiderio; prese un lungo respiro e capii all'istante che voleva baciarmi, lo desiderava quanto me, ma non gli era permesso. Lo vidi in bilico, per la prima volta sul punto di cedere in assoluto, ma non lo fece, scosse il capo come parlando con sé stesso e si fermò all'istante. Bloccò i suoi pensieri "peccaminosi".
Decisi d'interrompere quel momento imbarazzante per entrambi con una semplice domanda:
«Che c'è?»
«Niente, sto semplicemente aspettando che tu mi risponda.».
«Non lo so!» sbuffai, delusa di avere sempre aspettative troppo alte.
Rise. Ma cosa ci sarà di tanto divertente?
«Camminare!» urlai poi e mi portai subito una mano alla bocca per zittirmi, avevo dimenticato la presenza della mia vicina di camera, che stava dormendo.
Mi accompagnò e mi riportò al letto. La mia mano sempre stretta alla sua calda e vigorosa. Quelle mani... Le sognavo su di me, toccarmi ogni centimetro della mia pelle, segnarmi, marcarmi. Quel suo calore lo desideravo impresso nella carne.
«Sei stata bravissima!» si complimentò con un sorriso dolce.
Tornai a dormire e mi lasciai cullare dal ricordo dei suoi occhi magnetici.
Durante l'estate, ci avvicinammo moltissimo. Era sabato e come al solito stavo guardando un film in sala. Lo avevo già intravisto al suo arrivo con il suo solito zaino sulle spalle, mentre si dirigeva agli spogliatoi per cambiarsi, appena tornato in divisa azzurra, mi venne a salutare come sempre, portando accanto a me un signore anziano in sedia a rotelle. Be', e adesso devo parlarci?
L'uomo cominciò a raccontarmi della sua famiglia, di sua figlia che aveva appena partorito un neonato meraviglioso, Jan si chiamava. Di suo figlio che si era appena laureato in architettura con il massimo dei voti e di lui, che invece in tutta questa meraviglia aveva avuto un incidente sul lavoro, cadendo dal tetto di una casa.
Tornò Gabriel, che fissandomi con tranquillità, m'informò:
«Stasera sono al piano superiore».
«E che ci fai qui, allora?» domandai ingenuamente.
«Aiuto i miei colleghi, dal momento che sono solo in due» rispose. Ha ragione. E io che pensavo fosse qui per me! Aaargh
«Allora, stasera, forse vengo a fumare una sigaretta sul balcone superiore e ti faccio un po' di compagnia» asserii.
«Molto volentieri.» E mi sorrise come solo lui sapeva fare, con quella morbidezza ed eleganza che mi faceva tremare le ginocchia.
Se ne andò a fare un giro di controllo tra i pazienti.
Quando tornò, stavo disegnando e avevo già una pila di fogli al mio lato;
«Mentre non c'ero hai fatto tutti quei disegni?»
«Perché? Ti sorprende?» gli lanciai uno sguardo di sfida, mentre ne piegavo uno con sdegno.
«Me lo butti, per favore?» gli chiesi indifferente.
«No! Lo tengo io, se devi gettarlo via!» disse, imbarazzato, come non si aspettasse di dirmi una cosa del genere.
«No, puoi sceglierne uno migliore tra questi» replicai decisa, indicando il muro di carta che ci separava.
«Scegline tu uno per me.» Alzai gli occhi al cielo, sbuffando a mezz'aria.
«Scordatelo! Lo devi desiderare tu! Prendi una decisione!»
«Ok,» disse, stanco, alla fine. «Ne porterò via uno in seguito.»
«Se non lo fai subito, rischierai che quello che desideravi non ci sia più!», esclamai insoddisfatta e puntigliosa. Il solito pigro!
«Perché, hai intenzione di buttare anche gli altri?» chiese ironico.
«No, ma potrei regalarli!»
«Allora significa che avrò avuto sfortuna.» mi sorrise, calmo, mentre io sbuffai. «Ho un'informazione!» affermò sarcastico, per cambiare argomento.
«Cosa?!» domandai incuriosita, alzando le sopracciglia, aspettandomi chissà cosa.
«È arrivato qualcosa per te» disse, nascondendo l'oggetto dietro la schiena.
«È la puntura anti-trombosi, vero?» chiesi, con l'aria tutt'altro che sorpresa.
«Esatto» sogghignò, mentre io, come al mio solito, me la facevo sotto dalla paura.
«E io che pensavo fosse un tuo regalo.» arricciai le labbra.«Hai superato cose ben più gravi di una semplice punturina, Liby, dai, togliamoci il pensiero» mi esortò.
Quindi me la fece, mentre io tenevo gli occhi chiusi e le labbra serrate.
«Fatto! Allora, sali con me o vieni da sola?»
«Con te!» Sorrisi, raggiante, ero felice, potevo passare dell'altro tempo con lui! Questo era un regalo del destino!
Mentre lui portò l'altro paziente in camera, Gabriel mi disse:
«Tu intanto avviati sul balcone!» Mi fece un occhiolino.
Prima di uscire all'aria aperta, mi preparai un succo di frutta ai
lamponi, perché si sa, quando si fuma la pressione può calare e acqua e zucchero sono proprio la soluzione; dopo avermi raggiunta, mi spinse fuori, aprendo la porta scorrevole che dalla mensa portava all'esterno;
Presi il pacchetto di sigarette, e ne sfilai una e la incastrai tra le labbra sulle quali i suoi occhi si posarono; me la accesi, presi un tiro, soffiando poi fuori il fumo trattenuto nel petto, percepii la nicotina spandersi nel corpo, come macchie d'olio su una tela, mi sentii meglio, appagata. Mi guardò e io feci altrettanto.
«Ne vuoi una?»
«Sì» rispose, un po' insicuro e impacciato. La prese e se la mise in bocca.
«Ti ringrazio adesso, perché in seguito riderai di sicuro appena mi strozzerò con il fumo».
«Ti prometto di non ridere» dissi, incrociando le dita della mano destra dietro la schiena, perché non avrei mantenuto la promessa. E infatti, al primo tiro cominciò a tossire e io, divertita, di fronte al suo palese imbarazzo, dimostrato dal fatto che fosse diventato un peperoncino in viso, scoppiai in una fragorosa risata crudele.
«Scusa...» affermai, abbassando lo sguardo sulle mie scarpe.
«Puoi guardare un film quassù?»gli chiesi in seguito.
«Certo, sono solo di vedetta, la notte non c'è molto da fare al secondo piano»
«Vogliamo vederci un film insieme?» provai a chiedere imbarazzata mentre rientravamo nell'edificio.
«Si può fare» rispose cauto.
«Ci prendiamo una boccata d'aria fresca, prima di iniziare?» domandai, lanciando un cenno verso il balcone.
Annuì e mie spinse in sedia fino alla balaustra.
«È strano quanto io sia cambiata dall'incidente, prima ero timida, adesso sono sfrontata, diretta e dico tutto quello che penso. Un po' te ne sarai reso conto, immagino» affermai ridendo giocosamente.
«E non riesci a controllarlo?» chiese, incuriosito.
«Ci provo, ma mi esprimo ancor prima che me ne renda conto, e ci rifletta» Mi morsi il labbro inferiore, perché non mi piaceva parlarne, non amavo discutere del passato e del presente, di come ero e dell'essere che sono diventata, perché non mi piacevo più da dopo l'incidente, e ancora oggi, che sono passati anni, faccio fatica ad accettarmi, ad approvare la persona diversa che sono diventata, con la mia cicatrice in fronte e le mie mancanze neuronali, tra cui il negleckt. Sono un'altra persona, ormai, è così e questo è quanto. Non c'è niente che possa cambiare;
«Comunque, me ne sono accorto», ribatté, diventando sempre rosso. «Anch'io prima ero timido, adesso sono cambiato un po', dai trent'anni in poi.» Ma chi vuole ingannare? Non è cambiato di una virgola!
«Cambiato? Ma se diventi continuamente paonazzo!»
«Andiamo a vedere il film, simpaticona!
«Che film ci vediamo? Meet Joe Black o Call me by your name?»
«Quello con Brad Pitt.»
Una volta posizionati davanti al pc, sparì per cinque minuti e tornò con un bicchiere pieno di orsetti gommosi
«C'è un altro film che potrebbe piacerti!» dissi poi, presa da un'illuminazione e piena di adrenalina per avere l'ennesima scusa per poter passare dell'altro tempo con lui.
«Sarebbe?»
«La forma dell'acqua.»
«Già visto e mi è piaciuto molto» rispose.
«Mmmh, ok! Allora ne troverò un altro che non hai ancora visto.»
Internet smise di funzionare
«Ci andiamo a fumare un'altra sigaretta?» domandai, conficcandogli le mie pupille nei suoi occhi. Con tono caldo e premuroso rispose: «Ok, ma io non fumo» era un bugiardo. Uscendo all'aria aperta, una folata di vento tiepido ci scompigliò i capelli; si sedette sulla panchina accanto a me che ero in sedia a rotelle, successe in un attimo di silenzio, mi tolse una ciocca che mi cadeva sugli occhi e si era impigliata nelle lunghe ciglia, spostandola dietro all'orecchio. Rimasi ammutolita; un leggero, dolce sorriso s'insinuò tra le sue labbra, il mio respiro andò in frantumi e una sua scheggia si conficcò nella gola.
Entrò cinque minuti nell'edificio e nel frattempo, non vedendolo arrivare, mi avvicinai alla panchina, posai la sigaretta nel posacenere in metallo, sistemai i piedi paralleli di fronte a me in maniera larga per avere più stabilità, presi uno slancio e mi alzai sulle gambe; sorrisi a me stessa perché ero riuscita a compiere quell'azione, per molti insignificante, ma per me un vero atto di resilienza. Mi alzavo perché dopotutto avevo vinto io contro la brutta sorte e la sfortuna, io l'avevo scampata ed ero viva. Mi poggiai con la mano destra al bracciolo della panchina e ci feci leva per girarmi con il sedere verso di essa, poi con lentezza mi piegai sulle gambe e mi accovacciai fino a sedermi.
Lui riuscì e con occhi sgranati sotto gli occhiali da vista mi osservò, picchiettando l'indice sul mento.
«E tu che ci fai lì?» mi chiese, andando a sedersi accanto a me.
«Mi sono messa comoda» dissi, fiera di me stessa e con un ghigno compiaciuto.
«E sei a tuo agio?»
«Molto più che in sedia a rotelle! Vuoi una sigaretta?» «Ok, ma solo due tiri»
«Ti sto portando sulla cattiva strada, me lo sento» dissi, sentendomi in parte, o forse affatto, in colpa.
Mi sorrise, senza dire in maniera sfacciata che avevo ragione, la sua era più un'espressione di complicità.
«Mi sono sempre chiesta cosa ci sia al di là del balcone, puoi descrivermelo?»
Lui rimase un secondo a pensare, fissandomi e analizzandomi, sentivo i suoi occhi su di me, quindi mi voltai a guardarlo e le nostre pupille s'incastrarono di nuovo.
«Dammi la mano e fai qualche passo, voglio che tu lo veda con i tuoi occhi». Mosse allusivamente le sopracciglia; era il momento più bello della giornata: il tramonto, da dietro le colline s'intravedeva un dipinto di colori ad acquarello. Il rosa delle nuvole delineate da un velo oro che le incorniciava si mescolava all'arancione e al rosso del sole sciolto come dal suo stesso calore. L'azzurro del cielo aveva sfumature più scure e la luna era già sovrana del suo spazio, circondata da qualche punto luminoso come qualche cigno attorno a Odette.
Swan Lake, Op. 20, Atti II - Tchaikovski,
Si alzò in piedi e mi propose il suo braccio, quindi feci altrettanto e mi meravigliai della mia altezza, adesso che ero in piedi di fronte a lui, non risultava più così alto da sentirmi piccola, piccola. Ero una testa più bassa di lui e, quando ci guardammo la prima volta alla stessa altezza degli occhi, lui mi sorrise e accennò un «Wow». I lampioni fuori dalla clinica illuminavano il suo viso e notai la luce dei suoi occhi, brillavano.
«Appoggia le mani qua» disse, indicando il corrimano del balcone, «e guarda di sotto.» aggiunse. Mi si strinse il cuore al poter osservare con i miei occhi quel paesaggio a lungo immaginato e disegnato nella mia mente.
«Che edificio è questo?» domandai, indicando con l'indice di fronte a me. Mi tenevo in equilibrio, con la schiena dritta e le gambe divaricate; fiera e combattiva. Mi sentivo bella dopo tanto tempo e speravo lui pensasse lo stesso di me.
«Sai cosa mi manca più di ogni altra cosa?» balbettai, perché era un argomento molto doloroso che volevo confidargli. Mi tirai su con le spalle e strinsi la presa sul piccolo cilindro in metallo del corrimano, vidi la mia mano destra tingersi di bianco di polvere poi alzai gli occhi nei suoi,
«Cosa?» domandò, carezzandomi con lo sguardo
«Ballare.» Lo dissi con un leggero sorriso che mi scivolava tra le labbra con timidezza.
Lo vidi crollare in parte emotivamente, perché il chiarore dei suoi occhi si offuscò di lacrime, che non sgorgarono però.
«Ma tu ballerai di nuovo!» Mi posò una mano sulla spalla per incoraggiarmi; mi avrebbe abbracciata se avesse potuto, lo sapevo, me lo sentivo. Lo vedevo con lo sguardo perché mi sentii avvolgere dalle sue iridi marine e stringere dalle sue pupille; era commovente.
«Mi sai spiegare perché? Perché proprio a me?» sussurrai, quasi scoppiando il lacrime, ma non volevo metterlo in imbarazzo, dopotutto anche lui era un essere umano sensibile e non desideravo urtarlo con le mie lacrime; non ero una che si piangeva spesso addosso, o forse sì...
«È la vita, Liberta, sono cose che succedono...» incurvò il lato destro del labbro in un mezzo sorriso per sdrammatizzare la situazione.
«Ti prego non ne parliamo, altrimenti mi metto a piangere», dissi con voce rotta Ma che diavolo affermo? Sono stata io a introdurre il discorso!
«Non dirlo a me!» rise anche per me, per toglierci dall'imbarazzo.
«Il mio corpo è come uno strumento scordato, o meglio, compone sempre lo stesso accordo in bemolle, tetro, una melodia per la morte, devo ritrovare l'accordo giusto in diesis, per comporne una dedicata alla vita. Devo ritrovare il La nella giusta tonalità!»,asserii, fissandolo per convincerlo.
«Gabry...stai piangendo?» distolse lo sguardo da me, per non farsi vedere e fece finta di sistemarsi la divisa addosso.
Perché sono sempre così sfrontata e diretta?
«No! Non è vero!» controbatté, paonazzo, cercando di difendersi.. «C'è un po' di vento e mi sarà finito un moscerino nell'occhio.»«Non ci sono moscerini, siamo quasi al buio e a meno che tu non abbia della frutta nella tua tasca, di sicuro non saranno qua a farci compagnia! È la scusa più stupida che abbia mai sentito» risi così tanto da avere difficoltà a smettere.
«Sei stanca di stare in piedi?» Era ovvio che voleva cambiare argomento.
«Un po'...» risposi, insicura, perché stare dritta sulle gambe mi faceva risentire "umana" e non rotta, spezzata come un ramoscello secco.
«Sediamoci, allora.» mi offrì il braccio e mi dispiacque, perché sarei rimasta ancora in quella posizione a lungo, fino al bacio che mi avrebbe risvegliata da quell'incubo della mia vita distrutta; mi rimisi in sedia a rotelle e dovevo essere sincera, era una piacevole sensazione tornare al mio nido, il mio luogo sicuro. Poggiai le spalle sul cuscino morbido dello schienale e inspirai profondamente, chiudendo gli occhi. Quel luogo, per quanto odioso, perché legava all'incidente, mi abbracciava e cullava, era la pace.
Ci avevo preso gusto a porgli domande che lo mettessero a disagio, quindi continuai a infierire con strategia e curiosità; non so esattamente che risposta mi aspettassi o desiderassi:
«Quali sono le cose che ti piacciono maggiormente sulla Terra?» Lo vidi poggiare l'indice sulla fronte per riflettere, ma non arrivò alcuna risposta, il silenzio. Lo presi in contropiede e risposi io per lui: «Per me la musica, il ballo e viaggiare sono in cima alla vetta» era la verità, credevo fervidamente a ogni singola parola pronunciata. Poi improvvisamente disse la sua:
«Per me è lo stesso!» Mi sta copiando per farmi felice?
«Mi aspettavo una risposta più ovvia...» alzai un sopracciglio ammutolita e delusa.
«Del tipo?» sgranò gli occhi sorpreso
«Del tipo... a cosa penserebbe un uomo nella norma trentenne?» scrollai la testa incredula
«Non lo so... ai bambini?»
«Ma che veramente?» feci cadere la fronte sulla mano senza parole.
«No, davvero, non lo so, aiutami...»
«Allora ascoltami, sei un uomo medio, trentenne quindi con gli ormoni ancora con le palpitazioni... allora?»
«Al-al sesso?» sembrò balbettare, forse l'avevo messo sotto pressione. Abbassò lo sguardo sul pavimento
«Santo Cielo che parto!» risi e gli diedi una spintarella sulla spalla per vedere quegli occhi di marzo sorridermi.
«Per me non è tra le cose più importanti.»roteò gli occhi, poi mi fissò per convincermi.
«Perché tu sei strano!» sgignazzai, mentre lui rimase serio.
«Che vuoi dire? Che non sono un uomo?» aggrottò le sopracciglia snervato.
«No, lo sei, ma fuori dagli schemi, sei l'eccezione alla regola» gli sorrisi dolcemente, non volevo litigare e forse avevo esagerato.
«Mi sta dicendo che sono speciale?» incurvò il lato destro del labbro.
«Anormale, Gabriel, strano.» specificai guardandolo accondiscendente.
«Poi ci sono io che vorrei dei figli, presto» Possibilmente da te, aggiunsi mentalmente
«Tu ne vuoi?» continuai con speranza
«No... non credo di poter essere un buon padre» Ma che sta dicendo? Ma si è mai visto o percepito dall'esterno?
«Tu, Gabriel, saresti un ottimo padre, il migliore in assoluto» replicai con certezza. Doveva capirlo! Lui era un angelo... perfetto per dei figli... e non lo dicevo perché ero innamorata di lui, ma perché ci credevo davvero, ero sicura delle mie parole e lui doveva saperlo.
«Hai così tante qualità, che andrebbero sprecate, puoi dare tanto»
«No, invece e non ho intenzione di cambiare idea.»
Sei uno stolto! Era la mia delusione nella testa che parlava...
Lui non replicò e il silenzio rimbombò tra di noi, lasciando una sola nota ancora accesa come quando al pianoforte si usa il pedale e il suono viene allungato, come un eco.
Le sue parole risuonavano all'infinito nella mia testa
Non ho intenzione di cambiare idea, idea, idea, a, a
Tentai di cambiare argomento con un'altra domanda:
«E cosa odi di più?» puntellai il gomito destro sulla coscia e ci posai la testa sopra, poi lo imprigionai con i miei occhi.
Volevo sapere tutto di lui, conoscerlo centimetro per centimetro, annusare il suo spirito, potergli dare un colore, dipingere la sua aura. Io desideravo avere più informazioni possibili su Gabriel, volevo imprimerlo nella mia anima, legarmi a lui spiritualmente, perché fisicamente con molta probabilità non sarebbe mai successo, ahimé.
Lo volevo dentro di me metaforicamente. Sognavo che il suo cuore battesse al ritmo con il mio in ogni momento della nostra vita. Il mio cuore voleva essere abbracciato dal suo, perché è così che finiscono le favole. E io volevo viverne una, la più bella di tutte: la favola della vita.
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