17. Voglia di stare con te
Stare con te o non stare con te è la misura del mio tempo.
Jorge Luis Borges
Alle dieci passate andammo nella sala comune per fare colazione; il mio müsli con yogurt naturale e miele, che lui aveva già preparato con dedizione, mi attendeva già bell'e pronto. Mi lasciò al mio solito posto al tavolo accanto alla televisione, mentre lui si sedette con gli altri pazienti e la sua collega Laura. Dopo poco, guardandomi attorno, mi accorsi di essere completamente isolata e che al tavolo, dove erano seduti tutti c'era ancora posto per me; Gabriel mi fece cenno con la testa di aggregarmi a loro, così seguii la sua proposta senza pensarci due volte. Con la sedia a rotelle, li raggiunsi alla tavolata, facendomi prima un altro caffè nero con latte di riso, che mi era stato comprato proprio da lui, data la mia intolleranza al lattosio.
Iniziammo a giocare a Uno con altri due pazienti; erano dei ragazzi di vent'anni, molto solari e simpatici.
Contro ogni aspettativa, vinsi io. Sfortunata in amore, ovviamente.
«Hai avuto solo fortuna con le carte!», brontolò ironicamente
Non diedi retta alla sua battuta; «Ho un gioco che potrebbe fare al caso nostro» dissi solare, cambiando argomento.
«Ah, sì?»
«Wizard.» lo informai sornione
«Non lo conosco, in cosa consiste?» corrucciò le sopracciglia con un leggero fremito impercettibile
«Nel prevedere quante mani si vincono, solo che non ho ancora capito come si calcolano i punti.» Picchiettai l'indice sul mento.
«Ci sono le istruzioni?» mi fissava sfacciatamente.
«Sì, eccole» affermai, mostrando un foglio di carta colorato, ripiegato su sé stesso.
«Be', magari una volta le le leggiamo insieme e vediamo di capirci qualcosa.»
Il tempo era volato e si erano fatte già le undici e trenta; distribuì il pranzo e mi portò il vassoio giallo con il cibo ordinato, riso al curry e verdure, fu posato al mio solito posto, che raggiunsi in una manciata di minuti. Prima che si allontanasse da me, sorridendo, esclamai:
«A proposito, alla fine mi ricordo come si calcolano!» mi guardò con aria interrogativa e spaesata, non capiva a cosa mi riferissi. «I punti di Wizard!»
«Ah» rispose. «Dopo pranzo vediamo.» replicò con tono professionale e con espressione seria e concentrata.
«Non dobbiamo leggere le istruzioni! Capisci?» insistetti, innervosita.
«Va bene, ma dopo pranzo» controbatté lui con aria disinteressata.
Perché fa così adesso? Non lo capisco. Un attimo prima mi chiede di unirmi al suo tavolo con aria dolce e quello successivo è freddo e distaccato.
«Ok, ma non trattarmi come una bambina!» sbraitai, incrociando le braccia al petto e lasciando cadere la testa all'indietro.
Dopo aver mangiato, me ne andai in camera lentamente, senza fretta, d'altronde perché rimanere? Non ha senso... lui non ha interesse nella mia presenza. Che delusione, e io che pensavo gli facesse piacere, non ci ho capito niente!
Dovevo parlargli. Così feci l'unica cosa che potesse attirare la sua attenzione: suonai il campanello d'allarme del letto.
Si fece attendere un po' più del solito, ma alla fine arrivò.
«Quando ce lo vediamo il film?» domandai con il fiato corto, socchiudendo gli occhi.
«Martedì o mercoledì» mi rispose con un sorriso a trentadue denti, sembrava felice. Lo è per davvero?
Se ne andò dal lavoro verso le diciannove, ma prima mi riportò in camera e mi osservò fare il transfert, ovvero il passaggio dalla sedia a rotelle al letto. Mi guardò negli occhi con un guizzo d'eccitazione nel vedermi stare in piedi; mi fissava attento e mi sentii troppo osservata, le gambe cominciarono a tremare e frantumarsi, E se ora perdessi equilibrio e cadessi? Cominciai ad agitarmi e innervosirmi, mi sentivo a disagio.
«Non guardarmi con quegli occhi, mi deconcentri.» dissi tutto d'un fiato con un sussurro.
Mi lasciò in camera con un occhiolino scherzoso, che ricambiai, facendogli la linguaccia.
Una mattina delle seguenti, mentre ancora avevo gli occhi chiusi, mi sussurrò con voce dolce e vellutata «Buongiorno», aprii prima un occhio, poi anche l'altro e quasi storzai vedendo quell'angelo che mi guardava con quegli occhi oltremare che mi lasciavano sempre senza fiato. La mia prima reazione fu un sorriso, che lui naturalmente ricambiò. Ci fissammo per una manciata di secondi, finché non distolse lo sguardo. Quella mattina mi avrebbero cambiato il gesso, quindi venni lavata alla bell'e meglio e fui portata all'ospedale accanto. Il tirocinante mi spinse fino a una stanza completamente bianca, muri e pavimento dello stesso colore, come anche il lettino sul quale venni sdraiata. Il gesso venne tagliato e vidi per la prima volta le cicatrici ancora fresche nette, chissà se si vedranno ancora tra uno o due anni? Sembrava che il dottore avesse fatto un ottimo lavoro, era tutto pulito. Mi tagliarono i fili neri che tenevano insieme i lembi di pelle e venne rimesso un nuovo gesso.
Una volta fatto, venni riportata in clinica ed entrai subito nella sala comune
«Ta-daaa!» esclamai, molleggiando la mano destra a mezz'aria.
«Nuovo?» domandò Gabriel indicando il mio piede.
«Sì, adesso ho solo bisogno di un pennarello indelebile per scriverci sopra! Dici che posso farlo?» ero entusiasta e in realtà gli feci questa domanda perché non volevo interrompere la conversazione.
«Certo, il gesso è tuo, puoi scriverci quello che vuoi!» rispose lui alzando le spalle come se fosse una cosa ovvia.
«Ok, allora devo procurarmene uno.» asserii con un guizzo negli occhi per l'eccitazione; non ne avevo mai messo uno in vita mia.
«Lo cerco a casa e, se lo trovo, te lo porto!» affermò, prendendo la penna dal taschino per grattarsi dietro la nuca. Il martedì successivo fece di nuovo la notte. Eravamo rimasti d'accordo che avremmo visto il film insieme; così, appena c'incontrammo, ci facemmo un cenno per capirci.
Propose di andare al secondo piano, dove nessuno lo avrebbe controllato e così facemmo.
Ci mettemmo comodi, io in sedia a rotelle e lui stravaccato su una sedia in legno dal cuscino in pelle.
«Dici che lo capisco anche guardandolo una sola volta?» domandò, scrollando il capo in segno di disappunto.
«Non lo so, io l'ho dovuto vedere almeno tre volte!» risposi, ridendo imbarazzata.
«Se vuoi rivederlo, te lo posso prestare» gli dissi, stiracchiandomi per essere rimasta tanto a lungo nella stessa posizione.
Mi portò in camera per mettermi al letto, e poi cominciarono i dolori a tartassarmi, dolori al piede inimmaginabili. Se avessi potuto mi sarei strappata di dosso quel gesso pesante e doloroso. Non mi rimase che chiamare gli infermieri con il telecomando. Gabriel non tardò ad arrivare.
«Hai messo gli occhiali!» Ero molto sorpresa e gli stavano benissimo, era ancora più sexy, era il massimo, aveva quell'aria da dottore intellettuale che faceva impazzire i miei ormoni, come sprizzassero di gioia.
«Sì...» Fece una smorfia di disgusto, non si piaceva, questo mi era chiaro. Assurdo! Se ti potessi vedere con i miei occhi!
«Li adoro, ti stanno benissimo.» dissi con la voce più sincera e delicata che avessi.
«Smettila di prendermi in giro!» divenne paonazzo e se li sfilò portandoli tra le mani davanti agli occhi. «Da bambino mi prendevano sempre in giro perché dicevano che portavo dei fondi di bottiglia, mi vergognavo e ho finito per detestarli....
«Non ti sto prendendo in giro, ti trovo davvero sexy con questi» continuai, reprimendo una smorfia di dolore per via della gamba.
Gli presi gli occhiali dalle dita e accidentalmente gli sfiorai una guancia, mi sentii avvampare dall'imbarazzo. Posizionai le lenti davanti agli occhi e ci guardai dentro, non vidi nulla
«Accidenti! Ma sei cieco!» esclamai quasi urlando.
Divenne all'istante rosso Ops, stavolta ho esagerato
«Quante dita sono?» E ne alzai tre.
Fece una finta risata e poi esclamò: «Lo vedi che allora ti piace prendermi in giro!»
«Quindi, se rido, non vedi che lo faccio?!» controbattei maliziosamente
«Sì, ma devo avvicinarmi tanto» mi sfidò, avvicinandosi al mio viso
Le nostre ciglia erano a un millimetro di distanza dallo sfiorarsi e le labbra altrettanto se non fosse stato per la mascherina che portava sulla bocca; in questo soffice e piumato silenzio, l'aria era densa, i miei respiri si allungarono, mentre una vampata di calore mi saettò lungo tutto il corpo.
Si allontanò in quella pace esterna, impregnata d'imbarazzo, mentre dentro di me tremavo come una foglia e il torace era palpitante. Quando si trovò alla porta, lo guardai un'ultima volta e con una voce incrinata dalla delusione, sospirai e dissi:«Buonanotte, Gabriel».
Il venerdì successivo andai con l'infermiere vice- capo dello staff, Paul, sulla sessantina, piccolo di statura, con occhiali rettangolari e una capigliatura rada, a teatro a vedere suo figlio recitare. Partimmo alle sedici del pomeriggio in macchina. Mi misi un paio di pantaloni antracite a palazzo e una camicetta svolazzante turchese. Una volta parcheggiato, mi spinse con la sedia a rotelle fino all'entrata dell'edificio. Ad aspettarci c'erano altre due infermiere: Laura e Paola. Lui mi pagò il biglietto d'entrata, entrammo e di fronte a me si presentò una sala molto grande, fornita di poltrone e al centro un grande palco chiuso da tende bordeaux. Lo spettacolo si trattava di "Piccole donne" sottoforma di musical. Fu delizioso e mi ricordò molto il periodo in cui anche io andavo in scena e naturalmente mi fece tornare con la memoria al giorno del mio incidente, avvenuto durante le prove generali di uno spettacolo. Fu inevitabile che gli occhi mi si bagnarono di lacrime, ma non ne versai neanche una.
Fu verso le ventidue che arrivammo di ritorno in clinica; ero molto emozionata perché sapevo che Gabriel era di turno, salimmo in ascensore e percepii il cuore saltellare di gioia e poi, quando si aprirono le porte, il primo sguardo intercettato fu proprio quello dell'uomo che amavo. Mi sorrise e gli occhi gli si illuminarono di una luce solare e calda, era bellissimo, come sempre. Con Paul ci avvicinammo al bancone e lui mi fissava come imbambolato, forse era l'effetto che facevo con il trucco, non saprei spiegare la sua espressione; era affascinato, ma con sguardo perso, confuso.
«Com'è andata?» chiese la sua collega, Meredith
«Bellissimo! Sono felice.» E lo ero per davvero. Percepivo la gioia avvolgermi completamente.
«Ho il film Jeux d'enfants che volevamo vedere insieme!» urlai entusiasta. Vediamo se ha voglia di passare del tempo con me.
«Ma lo vedremo un'altra volta, immagino» disse in maniera disinteressata, come non gliene fregasse niente.
«Perché? Possiamo vederlo anche stasera! Tanto domani è sabato e non ho terapia.» replicai per non perdere completamente le speranze di non poter passare del tempo con lui.
«In realtà sì, hai terapia!» intervenne la sua collega, con un'occhiata ammonitrice. Accidenti! Ma tu zitta, no?! Potresti farti gli affari tuoi, senza rompere le scatole agli altri! Non era colpa sua, ma la delusione mi aveva resa irascibile e acida.
«Cavolo. Non ci voleva proprio!» dissi infine con il broncio sulle labbra e gli occhi incurvati verso il basso, triste e arrabbiata.
«Allora, lo vediamo un'altra volta?» domandò, probabilmente per non farmi deprimere poco prima di andare a dormire e permettermi di passare comunque una notte tranquilla e spensierata.
«Ci devo pensare su, magari invece lo facciamo stasera. Prima fammi struccare, mettere il pigiama e andare al bagno. Mi scappa la pipì da ore!» risi, impacciata, diventando rossa in viso. Quando venne in camera per controllare, mi trovò già sotto le coperte.
«Alla fine hai deciso di andare a letto! Quindi lo vediamo un'altra volta» affermò, ridendo con un cipiglio; il suo sguardo mi provocava uno strano e piacevole sfarfallio nello stomaco.
«Sì... anche se avevo voglia ancora di una sigaretta» conclusi.
In realtà avrei voglia di passare del tempo con te.
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