16. Del tempo insieme

Il paradosso del donare il proprio tempo a un altro: regali un pezzo della tua vita che non sarà più tuo, ma che proprio per questo non andrà perduto.

Fabrizio Caramagna

I primi di agosto, fui operata al piede; mi vennero a prendere una mattina nella clinica e mi trasportarono con una barella all'ospedale proprio accanto. Mi portarono subito in una stanza condivisa con altri cinque letti, ero a digiuno e mi attaccarono a una flebo, probabilmente per farmi addormentare prima di essere operata, perché da quel momento in poi non ricordo nulla fino al giorno successivo, quando mi risvegliai; mi vennero allungati tutti i tendini: sei tagli, uno dei quali lungo fino a metà polpaccio, il tendine d'Achille.
Tornai cosciente la mattina dopo, lentamente, pranzai sola e mi accorsi che fuori il sole illuminava la giornata, le finestre brillavano alla luce. Faceva molto caldo, il mio pigiama era sudato e il gesso al piede non migliorava la situazione, anzi sentivo un calore insopportabile.
Non mi lavai, né vestii, rimasi in pigiama a letto. Non vedevo l'ora di tornare nella mia stanza in clinica, non mi piaceva stare lì e gli infermieri non erano neanche particolarmente simpatici, ma molto distaccati e freddi, non mi sorprese affatto, di Gabriel ce n'era solo uno, il mio, il sole di marzo. Quando, dall'ospedale, venni ritrasferita nuovamente in clinica, lui era di turno.

«Qual è il tuo primo desiderio, dato il tuo ritorno?» sogghignò, e i suoi raggi di sole primaverili mi accecarono e accarezzarono la pelle di calore affettuoso.

«Una doccia!» feci un sorriso che scivolò velocemente in una risata.

Così mi accompagnò a farmene una e fu la prima volta dopo tanto tempo che mi rivide nuda sotto il getto d'acqua. E io mi chiesi a cosa stesse pensando, guardandomi, perché passò la lingua sulle labbra, mentre io deglutii rumorosamente per il disagio. Se fossimo stati fuori da quelle mura, probabilmente sarebbe stato il momento adatto per un bacio e chissà forse per qualcosa in più, ma inutile pensarci, perché adesso eravamo lì e purtroppo c'erano delle regole da rispettare. Non potevamo fuggire, io ero una paziente e lui il mio infermiere.

Dopo quell'evento fuori dalla norma, lui riprese le solite distanze e mi chiedevo perché, ma io sapevo. Lui era un sole di marzo, a volte oscurato dalla pioggia, altre raggiante e presente in cielo. Dovevo capirlo: lui era fatto di presenza e assenza, di luce e oscurità.

Qualche settimana dopo, comparve dal nulla come al solito, la sua apparizione e condivisione di interesse nei miei confronti era qualcosa di saltuario; mi invitò nella saletta a vedere il suo film preferito: L'esercito delle 12 scimmie. Era la cosa più vicina a un appuntamento che potevamo permetterci in quelle circostanze.

«Ti è piaciuto?» mi domandò, mentre guardavamo i titoli di coda.

«Difficile da capire, ma sì, non è male. Ora dobbiamo vederci uno dei miei preferiti» asserii, mentre una strana espressione gli attraversò il viso, come se fosse preoccupato.

«E sarebbe?» chiese, inarcando un sopracciglio con finta disapprovazione.

«Donnie Darko» alzò gli occhi al cielo, facendoli prima roteare.

Rovesciò la testa all'indietro con indignazione, a me non comprensibile; «Ah, bene, la volta che ho provato a vederlo, mi sono addormentato» affermò, ridendo. Non capivo come ci si potesse perdere l'attenzione guardandolo. In effetti mi stranii e mi morsi la lingua per non reagire in maniera sgarbata.

«Come hai fatto ad addormentarti? È successo solo perché non l'hai guardato attentamente!» dissi, corrucciata, con aria presuntuosa. Mi ero innervosita. Avevo visto con attenzione il suo film preferito, perché lui non poteva semplicemente fare altrettanto senza lamentarsi?

«Può darsi...», convenne finalmente, probabilmente solo per darmi il contentino.

«Comunque, quando lo vediamo?», non me lo ricordavo bene e non vedevo l'ora di rinfrescarmi la memoria.

«Non saprei...» Rispose, insicuro, grattandosi la fronte con l'indice.

«Quando hai di nuovo il turno di notte?» domandai con un sorrisetto confabulatorio.
Fece un'espressione perplessa, come non avesse capito di cosa accidenti stessi parlando. Eppure parlo in italiano! Pensai indispettita

«Perché solo quando hai il turno di notte possiamo vederlo,

altrimenti hai sempre tanto da fare» aggiunsi, per rendere più comprensibile il mio piano.

Scrollò la testa in segno di disappunto. Davvero ti da così fastidio? Ma allora perché perdeva ancora tempo con me? Tentai di reggere il suo sguardo indagatore. Cosa non ti è chiaro? Che voglia passare del tempo con te? Quanto sarebbe più semplice se nei rapporti umani ci si confidasse apertamente i propri pensieri e sentimenti? Almeno in quel momento avrei saputo se avesse senso continuare questa lotta insistente per inseguire i miei sentimenti, messi perpetuamente a rischio.

Ma lui si decise a rispondermi finalmente, dopo una lunga attesa: «Fammi pensare... mi pare martedì, perché devo sostituire un collega.»

Feci un gran sospiro di sollievo, perché finalmente aveva capito. «Ho tanta voglia di...» dissi poi. «... di?» domandò con un ghigno disegnato sul viso. Restai in silenzio per qualche istante. Non riuscivo a smettere di sorridere, conoscendo già la sua reazione e d'altro canto mi rendeva felice la possibilità di rimanere sola con lui.
«Di una sigaretta, che andrò a fumare, credo» affermai, risoluta, affrettandomi a chiarire, per evitare doppi sensi non desiderati.

Cinque minuti dopo, però, ero ancora lì all'entrata, perché l'idea di andare sola mi deprimeva, così lui infranse il silenzio assordante: «Allora, questa sigaretta?»

«Non ho voglia di andare da sola.» Replicai, sperando si decidesse ad accompagnarmi.
«Allora non hai poi così tanta voglia di fumare» controbatté con sguardo deciso. «Mi accompagni tu?» domandai poi, con un pochino di malizia.
«Solo perché sta cominciando un temporale, e io li adoro.»

Ma dai? «Anche io amo la pioggia estiva.»
«Lo so» affermò, solare.
Mi chiesi come facesse a saperlo, quindi lo guardai con occhi smarriti, mentre con le dita della mano destra mi sistemai nervosamente una ciocca di capelli dietro il mio orecchio

«Me lo avevi già detto» disse con un sorriso dolce , per tranquillizzarmi, mentre si portava entrambe le mani dietro la nuca per stiracchiarsi.

Finalmente mi accompagnò sulla terrazza, e mentre cercavo di uscire di fuori, lui teneva la porta aperta per farmi passare, rimasi in carrozzina, mentre lui si sedette temporaneamente su una sedia di legno con il cuscino verde in pelle, posta su un lato del muro. Mi accesi una Marlboro touch nera e sistemai in bocca la sigaretta con il filtro incastrato tra le labbra; risucchiai un dolce e lungo tiro da essa, mentre la mia mente non voleva spegnersi e lasciarmi in pace. Gabriel era stravaccato sulla sedia e io lo guardavo di sottecchi, incantata da quella visione così poetica, come si poteva essere così belli? Feci uscire il fumo bianco dalle narici e dalla bocca e con essi qualche pensiero che mi martellava la testa. Gli domandai se ne volesse una, ma, con ogni aspettativa, rispose: «No, grazie, non fumo». Fui presa da un senso di delusione, perché speravo avessimo potuto condividere insieme quel momento tutto nostro.

Il buio si fece ancora più intenso e profondo. Cominciò a piovere a dirotto e il rombo dei tuoni si avvicinava regolarmente, incutendo una strana sensazione cupa e depressiva, anche se in quel momento con lui, mi sembrava tutto fuorché triste. Io ero felice, lo avevo tutto per me!

Il suono della pioggia creava un'atmosfera rilassante e unica; era meravigliosa. Avevo, ho, un legame unico con l'acqua, è il mio elemento preferito insieme all'aria.

«Dovrebbe piovere amore, invece di acqua» dissi come una vera sognatrice, guardando in alto verso il cielo e stendendo di fronte a me il braccio destro con la mano aperta fuori daala parte coperta dal tetto. Mi bagnai, ma fu una sensazione meravigliosa il massaggio che mi provocavano le gocce di pioggia che cadevano sulla mia pelle. Erano fredde e mi provocavano un lieve solletico che fece rizzare immediatamente la peluria sulle braccia. Il profumo di umidità era intenso e ci circondava completamente. L'aria era afosa e densa.

«Quando hai finito, ti porto a fare un giro» mi informò tranquillamente e con aria serena e protettiva.

«Come un giro? Piove!»
«Appunto» ribadì e il sorriso s'insinuò tra le sue labbra, mentre io mi voltai a guardarlo sbalordita.

Si alzò dalla sedia in maniera decisa, camminò sotto la pioggia e rovesciando la testa all'indietro per guardare il cielo, emise un urlo acuto di liberazione. Ma da cosa?

Lo osservai con gli occhi sgranati, con molta epinefrina nel corpo, non sapevo neanche dire perché, non lo conoscevo così, non lo avevo mai visto diverso dal suo solito fare professionale e improvvisamente mi resi conto che lui era sorprendente e imprevedibile ed era proprio questo che mi piaceva di lui. Quando spensi la sigaretta per terra, arrotolando il filtro spento in un fazzoletto di carta che avevo in tasca. Lui con un po' di genuina eccitazione e adrenalina, mi chiese:

«Vuoi raggiungermi?», una vampata di calore mi saettò dentro e lui mi inchiodò con lo sguardo. Con il fiato corto feci un cenno di sì con il capo. Mi spinse con la sedia a rotelle sotto la pioggia, dove lui era in piedi un momento prima e guardai nella direzione dove prima ero accostata sotto il tetto dell'edificio e immaginai la mia espressione sbalordita nel vederlo gridare, pensai a come risultassi dall'esterno e non mi piacque affatto.

«Adesso, movimentiamo un po' la serata...»

Non ebbi il tempo di fare domande, che lui cominciò a correre, spingendomi sotto la pioggia per le varie terrazze della clinica. Ridevamo a crepapelle. Si può morire di felicità? Ero un uragano di gioia, le sue attenzioni mi facevano bene. Lui era il mio angelo, venuto per salvarmi e la gioia salva sempre.

Avevo la pelle d'oca, perché il vento fresco estivo mi schiaffeggiava la pelle, quindi rientrammo. Una volta in camera con lui, gli posi una domanda particolare e mi meravigliai io stessa di avere avuto il coraggio di porgergliela.

«Se non avessi avuto l'incidente, e non fossi finita in clinica, saresti venuto con me a Praga?»

Rimase in silenzio per due minuti interminabili, duranti i quali il cuore era bloccato in una morsa e aveva smesso di battere, poi rispose tutto d'un fiato:

«Se non fossi stata ricoverata, non ci saremmo conosciuti, Liberta».Vero. Ma se fossi stata normale, probabilmente si sarebbe innamorato di me. Ne ero sicura. Perché ero bella, piena di energie, un uragano.

«Chi lo sa, magari in una piazzetta o in giro a Lipsia, o lungo il fiume; tutto è possibile» controbattei, senza speranze.

Ti è mai successo di incontrare una persona che pensi di aver già conosciuto altrove? Ecco, con lui avevo la sensazione di averlo già visto al supermercato.

«Certo, tutto è possibile», rispose con un sorriso unico, da far venire immediatamente le farfalle nello stomaco.

Quel martedì, seppur avessimo deciso di vedere il mio film preferito insieme, non lavorò; lo aspettai per ore inutilmente, finché non vidi che i tre infermieri del turno notturno erano già all'opera, era chiaro che non sarebbe venuto. Quella notte mi resi anche conto di essere dipendente da lui, se c'era ero felice, se lui era assente, non aspettavo altro che il suo ritorno. Era forse anche lui un'ossessione? Possibile, probabile, ma non m'importava, io ero sicura di amarlo, perché anche se non avesse scelto me come compagna, lo speravo felice e in salute, desiravo stesse bene con o senza di me.

Al suo ritorno, del quale non conoscevo il giorno, mi venne a svegliare, accarezzandomi i piedi, la domenica mattina di ferragosto. Aprii un solo occhio per capire chi fosse e, una volta intravista la sua figura alta, slanciata e muscolosa, mi voltai nel letto arrabbiata, allontanandomi dalle sue dita.

«Lo so che sei sveglia, Liberta, non mi freghi!» Sghignazzò e iniziò a farmi il solletico sulla pianta, non potei trattenermi, scoppiai in una risata isterica, urlando: «Basta, basta!»

«Vuoi fare l'arrabbiata con me, ma non ne sei capace!» Mi fissava sfacciatamente con un ghigno

«Io sono arrabbiata!» Corrucciai la fronte, alzando di due toni la voce

«Non sembra da come ridi...» Mi prese in giro, ci fu un breve silenzio, poi ripresi l'attacco.

«È perché giochi sporco, tu!» Lo guardai di sbieco, mentre lui s'incupì.

Per cambiare argomento e sdrammatizzare, domandò dolcemente:

«Quando vuoi fare la doccia?»

«Più tardi, voglio dormire ancora un pochino» lo informai, stizzita e ancora rancorosa.

Tornò in stanza un'ora dopo per la mia compagna di stanza, una signora anziana, ex ballerina. Poi asserii:

«Voglio alzarmi, non riesco più a dormire».
«Vuoi farla subito la doccia? Perché adesso avrei tempo.» «Va bene, ma con un po' di musica in sottofondo!» Gli sorrisi maliziosamente. Mi era passata la rabbia, ero tornata serena, perché dopotutto ero felice di rivederlo.«Se posso deciderla io, va bene!» Fece una smorfia sghemba. «La decidiamo insieme, visto che è mia l'idea.» Dissi, concludendo per non dargliela vinta.

Mi fece alzare lentamente dal letto e mi accompagnò al bagno, camminando poi mi mise seduta sulla sedia pieghevole della doccia, che aveva ricoperto con un asciugamano per farmi stare più comoda, perché le pieghe della tavoletta di plastica s'imprimevano sulla pelle, facendomi male, poiché avevo pochi muscoli sulle natiche e le ossa spingevano nella carne. Mi coprì il gesso con una busta di plastica, per non rovinarlo, perché avrei dovuto tenerlo ancora un po' di tempo.

Mi passò il doccino in mano e aumentai la temperatura per far scorrere l'acqua sul corpo. La mia pelle diventò in parte rossa per il calore, forse esagerato.

«Adoro fare la doccia la domenica mattina, calda e rigenerante» asserii con il calore incollato al corpo.

Cominciò col mettere la prima canzone, "The passenger"- Iggy Pop; poi fu il mio turno con "Loser" - Beck.

Compiva tutti i passaggi con cura esagerata, come ci si occupa di una pianta delicata, un'orchidea. Mi asciugò, mi aiutò a mettermi il deodorante, alzandomi il braccio sinistro che non riuscivo a far muovere. Mi passò il profumo "La vie est belle" di Lancôme, che mi spruzzai abbondantemente e alla fine mi aiutò a vestirmi e a passarmi il phon.

«Ho mal di pancia, mi deve venire il ciclo tra quattro giorni» mi lamentai, portandomi una mano sul punto in cui si trovava l'utero.

«Ecco perché mi sembri strana! Se non dovesse passare il dolore, dimmelo che ti procuro un antidolorifico» mi disse, serio e professionale.

Ovviamente non poteva fare a meno di preoccuparsi per me. Mentiva?

Gli domandai della vacanza, ma rispondeva a monosillabi e brevemente, come fosse in imbarazzo. Che non voglia dirmi tutto?

Ognuno ha un segreto, che spesso è meglio non conoscere, non tutto deve essere visibile a ciascuno. Ci sono segreti che dovrebbero rimanere tali. Noi eravamo uno.

SPAZIO AUTORE

Che ve ne pare di Gabriel? Partiranno mai insieme? Non vi resta che continuare la lettura!

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