Capitolo 5

- Sonno leggero -

🍣

Lanciai il telefono lontano da me.

Non volevo vederlo, non volevo guardare nulla. Non so cosa avrei dato per tornare a pochi minuti prima, a quando mi rigiravo nel letto, ignaro. Il dolore che sentivo nel petto era lancinante. Mi sentivo incastrato in quel lembo di tempo.

Mi sentivo soffocare.

Mi misi a sedere. Il cuore m'era salito in gola. Non cercai neppure le pantofole, andai direttamente in salotto, tremante, con gli occhi sbarrati. Ero deluso, arrabbiato, frustrato. Che cosa voleva dire tutto quello? Perché Shoto non me ne aveva parlato?

Deglutii. Avevo le spine nella gola, ogni volta che mandavo giù un po' di saliva quella bruciava come acido. In salotto era tutto buio. Hachiko dormiva ai piedi di Katsuki. Mi avvicinai senza sapere perché. I miei muscoli agivano, io li seguivo. Lui dormiva tranquillo, la fronte rilassata, le palpebre morbide, chiuse. Le ciglia bionde gli sfioravano gli zigomi.

Volevo sentirgli il respiro.

Mi chinai, attento a non far nessun rumore.

Il corpo di Katsuki era immobile. Accostai la bocca alla sua. Volevo sentire il suo fiato bollente solleticarmi la pelle.

Tuttavia, accadde tutto molto velocemente. Una mano mi cinse il polso, mi sentii strattonare all'indietro. D'istinto attivai il quirk. Mi ritrovai a rotolare a terra, sopra al suo corpo, intrappolato dal mio. Avevamo il fiatone e non smettavamo di lottare.

«Kacchan-» mormorai quando sentii le sue dita tirare più forte la presa. Solo allora schiuse gli occhi, mettendomi a fuoco.

Smise di dimenarsi. Disattivai il quirk, cercai di calmarmi. Non aveva levato le dita dal mio polso e la morsa sembrava un morso. Bruciava.

Hachiko era saltato su e ci osservava come se fossimo impazziti. Non intervenne, non abbaiò. Guardò e basta.

«Izuku.» soffiò. Fu lieve come un battito. Mi guardò, un frammento di tempo sospeso tra di noi, occhi negli occhi. Poi gli si aggrottò la fronte. «Ma che cazzo fai?» sbottò.

Arrossii. Di colpo mi sentii in colpa. Cosa stavo facendo? Non avrei saputo dirlo neppure io. Sapevo solo che avevo bisogno di assicurarmi che lui stesse bene. Tra tutte le cose che mi erano capitate in quei giorni, volevo che almeno Katsuki riuscisse a stare bene.

«Io-» iniziai, ma non seppi come proseguire. Chinai la testa. Mi resi conto della situazione in cui ci avevo cacciato. Gli stavo sopra, le cosce strette ai suoi fianchi, le mani che si erano posate sul suo petto. Dormiva senza maglietta e di conseguenza quella che stavo toccando era la sua pelle, non il cotone della maglietta.

«Ti sei fatto male?»

Mi posò una mano sulla spalla e di riflesso gemetti. Il punto dove il suo polpastrello mi stava sfiorando, mi doleva.

«Sto bene, scusami.»

Lo sentii sospirare. Flebili luci esterne filtravano oltre la finestra e rimandavano sul suo corpo ombre giallastre. Sembrava fatto di marmo. Era sempre stato bello, ma di una bellezza lontana dalla mia portata. Era un quadro in un museo in cui io sapevo di non poter mai entrare. Shoto era diverso da lui. Più alla mia portata, più-

Shoto.

Il solo suo nome mi faceva venire i crampi. Abbassai la testa, mi spostai dal corpo di lui.

«Izuku.» mi riacciuffò dal polso. Ero certo che quando mi avrebbe lasciato andare, su quella parte, ci sarebbe rimasto un segno rossastro. «Che ti prende?»

Lo guardai senza riuscire a nascondere il dolore. Scossi la testa. Avevo gli occhi lucidi e se c'era qualcosa che avevo imparato era che con Katsuki non si doveva mai sostare o aprirsi troppo. Mi barricai, lo spinsi via.

«Non è niente. Ho solo-» sospirai, tirai su col naso. «Ho solo fatto un incubo.»

«Izuku-»

«Sto bene.» ripetei. Mi liberai della sua presa scacciandogli le dita con le mie. Mi rimisi in piedi. «Vado a prendere un po' d'aria.»

Mi avvicinai al balcone e prima che potesse fermarmi o richiamarmi, andai fuori. Accostai le finestre ma non abbastanza velocemente da impedire ad Hachiko di raggiungermi.

Avevo timore e lui lo aveva capito. Mi misi in un angolo e gli lasciai  spazio. Mi guardava. Mi fissava con quei suoi occhi troppo profondi, mi tagliava in piccole parti.

Chissà cosa pensa lui di me. Chissà se mi vede come un'idiota.

«Hey.» mormorai, timidamente. Parve capire che gli stavo parlando. Inclinò la testa di lato, sbatté le palpebre.

Aveva la coda che si muoveva qua e là, allegra. Era così carino che mi reputai uno stupido. Non sembrava un mostro. Era solamente... solo. Solo come me.

«Sembro uno stupido, vero?» gli chiesi non riuscendo a trattenere le lacrime. Mi sedetti allo sgabello nell'angolo, attento a non sbattere la testa contro la scatola di lamiera della caldaia. Singhiozzai e subito mi tappai la bocca con le mani.

Hachiko si avvicinò, cacciò fuori la lingua e me la fece scorrere sulla pelle del viso. Leccò via la lacrima.

Lo guardai incredulo. Lui ricambiò. Mi fissò e nei suoi occhi mi parve di scorgere qualcosa di Katsuki, dei suoi modi solitari e bruschi. Avevo letto da qualche parte che gli animali sono come i padroni, ma fino ad allora non ci avevo mai creduto. Hachiko, però, era la copia precisa di Katsuki. Li temevano tutti per loro violenta, ma nessuno si piegava davvero a chiedergli come stessero, nessuno li trattava come umani.

Allungai una mano, gliela feci odorare. Lui me la leccò. Mi sciolsi in un sorrisetto. Lo accarezzai. Affondai le dita nel pelo e ci caddi dentro con tutto il palmo. Era morbido, candido come ovatta.

«Credi che qualcuno ci osservi da lassù?»

Il lupo mi guardò con i suoi grandi occhi azzurri. Latrò e si chinò sulle mie gambe.

Mi piaceva il tepore che il suo corpo infondeva nel mio. Era tenero. Se ne stava lì, immobile ai miei piedi e pareva aspettare che lo accarezzassi ancora. Sorrisi, per un attimo, i pensieri scomparvero. Poi però, tornai a guardare insù e l'immagine di poco prima mi trafisse dentro.

Shoto.

Ero sicuro di essere innamorato di lui. Ne ero certo. Shoto era stato il mio primo in tante cose. Lui era quello a cui chiedevo consiglio quando c'era qualche problema, quello a cui affidavo il cuore quando si trattava di farsi male, quello che cercavo nel letto accanto a me, appena sveglio.

Shoto non poteva avermi tradito.

Almeno non lo Shoto che credevo di conoscere, non la persona che faceva battere il mio cuore come il motore di un'auto a seicento cavalli. Shoto era la mia tranquillità, un porto a cui tornare sempre.

Ma quell'immagine mi aveva gettato uno sconforto addosso, che per i successivi minuti - o ore, non so dirlo con certezza - non potei far altro che guardare fuori e sperare che ciò che provavo non rappresentasse una condanna definitiva. Shoto mi voleva bene, Shoto non mi avrebbe mai fatto una cosa del genere. Non sapendo quanto ci avrei sofferto, non sapendo quanto tenevo a lui.

Mi arresi a quella convinzione e per qualche minuto riuscii perfino a guardare la notte con una prospettiva diversa. Avevo sempre pensato che il buio non fosse altro che un lenzuolo. Un lenzuolo che il Sole si sollevava addosso quando ha bisogno di riposare. Anche lui ha bisogno di fermarsi, riflettere.
Attorno a me le case iniziavano a svegliarsi. C'erano qua e là piccole luci giallognole, lo sbatacchiare delle porte, lo sfrigolio dei fornelli. Quei suoni accesero in me una strana, dolorosa, fame. Volevo sentirmi pieno, volevo saziare il male che sentivo nel petto con una bella manciata di panchetta, con il riso, con il katsudon. Volevo solo sentirmi così sazio da avere la nausea. Perché solo sentendomi pieno sarei riuscito a zittire i mostri che ruggivano nella mia testa. Stroncarli di netto.

Spostai Hachiko dalle mie gambe, tornai dentro. Il lupo mi seguì, scrutandomi con i suoi grandi occhi chiari. Nella stanza poco illuminata, quelle iridi mi parvero fatte di ghiaccio, solide. Mi avvicinai ai fornelli. Non osai guardare in direzione del divano. Mi era bastato l'evento di prima. Katsuki era ancora carne fresca per me, sale sulle ferite.

Distolsi la testa dai quei ragionamenti e aprii il frigorifero. L'odore di fresco, di pulito, di lime, mi colpì le narici. C'era in sottofondo qualcosa che mi ricordava i cibi preparati da mia madre. Il loro sapore speziato, la forma ovale delle uova sode. Socchiusi gli occhi, la mano aggrappata allo sportello e un piccolo sorriso ad aleggiare sulle labbra. Mi mancava mia madre. Non la vedevo da mesi. Un po’ per via del lavoro, un po’ per via della mia vita, degli impegni. Lei viveva nel suo piccolo trilocale, - nonostante la mia insistenza sul prendergli una casa più grande, più ariosa, più vicina a me - annaffiava le sue piantine sul terrazzo, preparava i piatti migliori di tutto il quartiere, e mi guardava ancora col cuore in gola e il fazzoletto stretto tra le mani ogni volta che combattevo il crimine.

Non importa quanto grande ti fai, mi aveva detto quando le avevo chiesto perché fosse così preoccupata, tu resti sempre il mio bambino.

Sbirciai tra gli scaffali, spostai qualche confezione di salsa di soia, ricacciai fuori la carne, le uova, le erbe. Mi misi al lavoro. Un grembiule bianco con la fantasia a fiorellini mi proteggeva dagli schizzi. L'olio nelle padelle sfrigolava, la carne si stava rosolando, il riso si cuoceva. Giravo distrattamente quella matassa di chicchi bianchi quando mi tornò in mente la foto. Shoto, il mio Shoto che teneva la mano a Yaoyorozu. Sorridevano. Lui le sorrideva come se in mezzo alla sua fronte ci avesse visto il Sole. Strinsi più forte il mestolo tra le dita e la forza che ci misi fece sì che quello finisse spezzato a metà. Con rammarico lo tirai fuori e lo gettai nella spazzatura. Lo sguardo mi cadde sull'orologio attaccato alla parete. Segnava le sei e un quarto, le lancette argentate continuavano a scandire i secondi. I numeri segnati erano grandi come diamantini. A quest'ora è sveglio, pensai. Conoscevo a memoria la sua routine. Si alzava presto, diceva addio al caldo tepore del letto per dedicarsi a una lunga corsa lungo tutto il quartiere. Al ritorno faceva la doccia, si sistemava i capelli, si faceva la barba, si vestiva. Non sprecava un solo secondo della mattinata e quando era stanco evitava di farmelo capire. Si comportava come se in quei giorni dovesse spremersi anche di più di quanto già faceva di solito.

Recuperai il cellulare, mi accostai al balcone e feci partire la chiamata.

Squillava.

Il suono acuto mi fece venire l'emicrania. Diedi la colpa alla mancanza di sonno e portandomi le dita a massaggiare la fronte, attesi. Squillò, squillava piano e debolmente, ma nessuno mi rispose. Partì la segreteria telefonica.

"Questa è la segreteria telefonica di Shoto Todoroki, se non ti ho risposto è probabile che sia impegnato o che sia a lavoro. Per favore, lascia un messaggio dopo il bip."

Il suo cinico tono registrato mi fece saltare un battito. Mormorai poche parole, il cuore che mi faceva sempre più male e qualcosa di simile al dolore delle ossa rotte dall'One For All, mi si stava raggrumando in pancia.

Richiamami, Sho’, per favore, conclusi e dovetti risultare patetico, perché la voce mi tremava e il nervosismo mi aveva reso la bocca asciutta. Tossii, cercando di schiarirmi la gola, ma la segreteria s'interruppe. Riattaccai, un principio di rabbia si fece spazio nel mio petto. Dove diavolo è? Perché non può rispondermi? Aveva detto che mi avrebbe chiamato appena poteva e mi sto mettendo in pericolo - me e la missione - per cercare di contattarlo. Forse è nel letto di lei, forse le sta baciando le labbra che sanno di rose. Dopo essersi rotolato tra le lenzuola costose e-

No, scacciai quei pensieri scrollando la testa, Shoto non mi avrebbe mai fatto una cosa del genere. Mi voleva bene e i sentimenti che erano affiorati nella mia testa, non erano altro che pensieri cattivi, pensieri dettati dall'insonnia e dalla frustrazione. , doveva per forza essere così. Misi da parte il cellulare, rientrai in casa.

Frammenti agrodolci mi raggiunsero le narici, un olezzo vanigliato mi si fermò sotto il naso. Inspirai, confuso, cercando di capire da dove veniva. Attorno a me c'era il divano intatto, la tv sintonizzata sul tg, il tavolino ancora lindo dalla sera precedente, la cucina, i fornelli-

I fornelli.

In un istante mi tornò in mente il mio intento di preparare la colazione e prima che potessi realizzare, mi stavo già lanciando in prossimità delle pentole. Cercai di afferrarne un manico. Mi protesi in sua direzione, lo tirai via, ma per via della fretta e del nervosismo, persi l'equilibrio e la pentola mi cadde di mano.

Immaginai il bruciore che mi avrebbe avvolto il piede, i muscoli, prima ancora di subirlo. Feci per spostarmi, strizzai le palpebre, persi un battito.

Un paio di braccia mi circondarono i fianchi, una stretta, l'aria che si infrangeva contro le mie guance e un brivido. Lo avvertì entrarmi sotto pelle. Il suo profumo boschivo, qualcosa che non ero mai stato in grado di dimenticare e che avevo finito per ricercare in qualunque altra persona, dopo di lui. Nulla però riusciva ad eguagliarlo. Nulla riusciva a sostituirlo.

In lui c'era qualcosa che negli altri non avrei trovato neppure dopo anni. Era dentro la sua pelle, si mischiava alla nitroglicerina e mi impediva di pensare a quello che accadeva. A quello che dicevo o facevo quando mi era vicino.

Un po’ più hero di chiunque avessi incontrato prima e dopo di lui.

Mi ritrovai spiaccicato contro il suo petto. La stoffa della sua maglietta di cotone sapeva di nitroglicerina, ma addosso non aveva neppure una briciola di sudore. Sbattei le palpebre, poggiai i palmi sul suo petto, distanziandomi.

Il suo viso era lì. Così lontano da me da farmi sentire in seconda linea. Era sempre stato alto, imponente, persino da bambino. E se durante l'adolescenza il divario fra i nostri corpi aveva preso ad attenuarsi, ora era di nuovo lì. Come una fenice mi mostrava i suoi nuovi tratti muscolosi, le curve del suo corpo le linee rigide. Sembrava schernirmi. Guardami, diceva, guarda quanto è colossale la differenza fra noi due. Guardami e dimmi se riuscirai mai a raggiungermi ancora, Deku.

«Ohi.» sentenziò, la sua voce ruvida e graffiante. «Ti sei incantato?»

«Cosa?» mormorai, senza capire nulla di ciò che stava dicendo. «No, io-»

Mi bloccai. Cosa stavo facendo prima? Prima della telefonata, prima del profumo del corpo di Katsuki, prima degli occhi di Hachiko. Che cosa stavo facendo?

Mi rivenne in mente mia madre. Mi guardai attorno e intravidi il frigorifero. Il cibo, la colazione. Certo, la colazione.

«Stavo preparando da mangiare.»

Katsuki però, mi guardava come se avessi appena annunciato di aver visto gli alieni scendere da un'automobile. Sbatté le corte ciglia bionde, gettò un'occhiata alla cucina, tornò serio.

«Hai bruciato tutto.» mi fece notare. «Hai bruciato perfino una padella. E cosa pensavi di fare con quella?»

Mi indicò la pentola a terra, sul parquet macchiato, con un cenno del capo. Mi teneva un braccio con una mano e il fianco nudo con l'altra. I suoi palmi erano così caldi che sembravano sciarpe di lana. Mi fermai a guardargli la bocca, incapace di ribattere.

Il pensiero della foto mi aveva bruciato i neuroni.

«Ohi.»

«Che?»

«Ho detto,» ripeté lui, scandendo le parole una ad una, come si fa con i bambini. «Ti sei fatto male?»

Mi sorpresi della sua pazienza. Un tempo, mi avrebbe scaraventato dall'altra parte della stanza prima ancora di sbuffare. Deglutii, riportando i miei occhi nei suoi. Le sue iridi rosso sangue non erano cambiate. Identiche a come le ricordavo, ma forse con meno fuoco dentro, con una fiamma così lieve da farmi domandare che fine avesse fatto l'incendio che ardeva prima.

«Sto bene.»

«Avresti potuto farti male, cazzo.» disse, i suoi occhi non davano il minimo cenno a lasciarmi andare. «Stai attento quando fai le cose. In cucina potresti farti tanto male, Izuku.»

In quel momento, mentre mi chiamava col mio nome dopo quelli che mi parvero anni, accaddero tante cose contemporaneamente. Mi fermai, il tempo attorno a me si congelò e parve ridursi a petali. Mi aveva chiamato per nome, realizzai, mi aveva chiamato per nome. Non aveva aggiunto nomignoli, mi aveva chiamato Izuku. Dio, quanti anni erano che non lo faceva? Perfino da bambino mi chiamava sempre e solo Deku. Ma ora, ora mi teneva tra le braccia, mi riempiva il naso col suo profumo, mi faceva odorare di nitroglicerina e riempiva ogni angolo della casa col suo corpo imponente, con le sue spalle larghe, spesse come rami, mi guardava. Mi aveva chiamato Izuku.

Feci per farglielo notare quando la voce della giornalista risuonò attraverso la stanza. Stava annunciando qualcosa e dietro di lei, sul grande led colorato stava passando l'immagine di due heroes. Non seppi perché, ma lo sguardo mi cadde lì. Con la coda dell'occhio intravidi le figure. Un colore in particolare catturò la mia attenzione, mi sfilò sotto le pupille e mi si incastrò in testa.

Rosso.

Un rosso così fulminante e purpureo che mi dovetti fermare a riprendere fiato. Lo sguardo mi scivolò automaticamente su quella figura. Solo mentre la guardavo capii perché. Quello che se ne stava mano nella mano, con gli occhiali sul viso e i vestiti civili, felice, sorseggiando il suo espresso corto, io lo conoscevo.

Lo conoscevo benissimo.

Mi finì il cuore in gola. Lo sentii risalire lungo le pareti della mia gola e inoltrarsi sempre più su, fino a ritrovarmelo in bocca. Avrei potuto schiacciarlo sotto i denti ed ero certo che avrebbe fatto meno male.

Perché alla tv, la mano affusolata non apparteneva a un qualsiasi hero, - uno di quelli che non avrebbero avuto problemi con i paparazzi - che anzi, avrebbe sorriso e sfoderato tutto il suo fascino. No, quello che camminava per le vie della piccola metropoli, era Shoto. Shoto Todoroki, il mio Shoto. Il mio ragazzo, l'uomo che volevo sposare.

E teneva la mano a Momo.






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Spazio autrice:

Quanto ho penato quando ho scoperto che la prima parte del capitolo era andata. Siccome scrivo su più dispositivi, ogni tanto perdo un pezzo, ma è davvero raro che mi capiti, precisina come sono T.T, ovviamente doveva capitare proprio oggi che avevo voglia di scrivere. Comunque, sono riuscita a recuperare riscrivendo e correggendo. Un po' di passaggio, lo so, ma serve a decifrare tante cose. State attenti ai dettagli anche tra Izuku e Katsuki, da qui in avanti andremo sempre più affondo :)

Come avete notato, Izuku ha una certa passione per gli addominali di Katsuki🌚 (come non capirlo?)

Spero il capitolo vi sia piaciuto, se vi va fatemi sapere nei commenti cosa ne pensate. E sì, vanno bene anche gli insulti per come sto trattando Shoto🥹 Siate buoni però, è per un'ottima causa :)

Ci vediamo domani, per il prossimo capitolo!

- Lilla




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