Capitolo 4

- Cucina e sorprese -

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«Io non mangio agnello.» precisò, le mani aggrappate agli stipiti della sedia. Mi guardava dall'alto del suo metro e novanta, con gli occhi ridotti a due fessure, le labbra serrate.

«È solo affinché tu lo sappia.» aggiunse, aggirò il tavolo. Mi tolse il coltello dalle mani e le sue dita sostarono per un secondo di troppo contro le mie. Non volli dar peso al brivido che mi attraversò.

Kacchan aveva sempre lo stesso odore. Quello di colonia, di nitroglicerina, di bosco. Pensare a lui era come infilarsi un coltello in petto e farlo sprofondare ogni secondo di più.

Averlo in casa era strano. Non era come quando eravamo bambini. Era arrivato da qualche oretta e a parte la scena del divano, - quando mi aveva svegliato facendomi spaventare - non aveva detto molto. Aveva passato il pomeriggio chiuso in camera, chiedendomi di non disturbarlo mentre lavorava. Come se io fossi un bambino. Mi aveva innervosito, non ero riuscito a rispondergli se non con un’occhiataccia.

Avevo vagato per la casa, riordinato i pochi libri che mi ero portato da casa, su uno scaffale. Avevo pulito. Avevo cercato di riparare il mobiletto sotto la tv, ma ci avevo rinunciato subito. Mi ero pungolato con una scheggia e avevo finito per tornarmene sul divano a guardare un programma. Avevo girato tra i canali finché non si era fatto scuro, e solo quando avevo sentito la porta della camera aprirsi, avevo sollevato lo sguardo su di lui.

Katsuki, impeccabile come prima, si era cambiato. Ora indossava una tuta leggera. Pantaloncini grigi, svasati sulle cosce e una t-shirt nera. Camminò verso di me, mi chiese se avevo intenzione di cenare ora o più tardi. Lo guardai sbigottito. Non credevo che mi avrebbe rivolto la parola, ma mi accorsi che doveva essere davvero tardi.

Così ci ritrovammo in cucina.

Gli avevo detto che avrei cucinato io visto che aveva lavorato, lui scrollò le spalle. Presi dal frigo una confezione di noodles, protestò.

«Posso cucinare io.» decretò, senza guardarmi.

Prima ancora che potessi fermarlo aveva preso delle erbette dal frigo e si era messo a tagliarle. Mi sedetti ad una sedia, accanto al tavolo della cucina. Avevo tenuto le finestre aperte confidando nel tentativo di invitare ad entrare il vento serale. C’erano i condizionatori, ma non li avevo accesi, e neppure Katsuki lo aveva fatto.

Stavo per chiedergli cosa stava cucinando, quando Hachiko, il suo lupo cecoslovacco, ci raggiunse col suo passo cadenzato. Era agile e mi aggirò con grazia, finendo a strusciarsi contro le gambe del padrone. Lui allungò una mano e gliela infilò nella massa di peli che gli ricopriva la testa.

Mi sfuggì un sorriso.

Dovette accorgersene perché fece un verso con la lingua e il lupo si allontanò. Solo allora rivolse i suoi grandi occhi blu verso di me, e di nuovo, il mio cuore si fermò. Hachiko si mosse lentamente, le zampe protese come quelle di una ballerina, il muso in avanti. Mi annusò le cosce, le ginocchia. Era così vicino che il suo naso umido mi lasciò una chiazza di bagnato sulle gambe.

«Non ti fa nulla.» mormorò Katsuki, cogliendomi alla sprovvista. Mi voltai, ma lui teneva lo sguardo dal coltello. «Non morde. Non è… merda. Non è un cane cattivo.»

«È un lupo.» replicai, stizzito.

«Sì.» confermò lui, seccato. «Ma non morde.»

«Ok.»

Non avevo voglia di litigare, così decisi di lasciar perdere e farlo stare zitto. Forse perché lo conoscevo da anni e sapevo che se avessi provato ancora a fargli notare che non sapevo nulla di quel lupo, e che per quanto mi riguardava avrebbe potuto senza dubbio aggredirmi, lui avrebbe iniziato a sbraitare. Non mi andava di sostenere una lite con Katsuki. Lui era troppo esaustivo per lasciar correre ed io troppo stanco per contestare ogni sua difesa. Inoltre, quel caldo mi stava prosciugando di tutto. Mi sventolai una mano dinanzi al viso e Hachiko, che si era seduto a pochi passi da me, sulle zampe posteriori, mi guardò inclinando il muso. Aveva un pelo stupendo. Di un bianco latteo, lucido, ben pettinato. Le orecchie dritte, pronte a captare ogni suono.

I suoi grandi occhi blu mi scrutavano con interesse.

«L’ho preso due anni fa, durante una missione.» latrò Katsuki, spostandosi con tagliere verso i fornelli. «I suoi padroni lo picchiavano. Gente di merda, senza palle né fegato per affrontarmi. Lo avevano preso da piccolo e lo tenevano rinchiuso giorno e notte. Gli hanno distrutto un orecchio e ha perso l'udito da quella parte. Quando l’ho portato a casa, era magro come uno stecchino, aveva buchi interi dove non c’erano più peli e gli occhi tristi.»

Nel sentire quelle parole, sentii male al petto. Non seppi perché, ma quelle frasi sembravano ferri roventi. Mi facevano sentire di star soffocando. Mi chiesi come fosse possibile che un essere civile, - come ci siamo definiti noi uomini - potesse fare qualcosa del genere a un animale tanto dolce. Perché era un lupo certo, ma un lupo cucciolo. Cosa spingeva la gente a comportarsi come bestie in cattività? Cosa aveva spinto quelle persone a fare del male ad Hachiko?

Non riflettei. Allungai una mano verso il muso di Hachiko e lo sfiorai. Lui non si ritrasse, non ringhiò, non mi morse. Chinò il capo e si lasciò toccare.

«Gli piaci.» esclamò Katsuki, gettandomi un'occhiata da sopra i fornelli. Stava reggendo il manico di una pentola dentro cui faceva soffriggere le verdure. «Di solito non si fa accarezzare da nessuno. Non dopo ciò che gli hanno fatto.»

«Oh.» fu l’unica cosa che riuscii a mormorare, sorpreso da quelle nuove informazioni. Hachiko sotto i miei occhi avevano assunto una nuova essenza. Era diventato qualcosa di inafferrabile, ma fondamentale.

Gli sorrisi e lui cacciò la lingua.

«Quanti anni ha?» chiesi. Continuai ad accarezzarlo, facendomi più coraggioso. Hachiko si avvicinò, posò il muso sulla mia coscia e socchiuse gli occhi.

«Sette. Ne fa otto il quindici Luglio.»

Lo disse guardandomi. Il quindici Luglio. Il giorno del mio compleanno. Lo aveva detto perché voleva farmi sapere che se ne ricordava o era stata solo una coincidenza? Non seppi darmi una risposta e non ebbi modo di pensarci, perché Katsuki mi chiese di apparecchiare.

Hachiko restò seduto, guardandoci.

Dovevo prendere le tovagliette, ma per farlo, - lo sapevo perché prima avevo dato un'occhiata un po' dappertutto - avrei dovuto aprire il cassetto che Katsuki occupava con la sua presenza. Esitai, ma quando lui vide che lo stavo osservando, s'innervosì.

«Che ti serve? L’autografo, Deku?»

«Spiritoso, Kacchan.» ribattei, piccato. «Devo prendere le tovagliette.»

«E prendile.»

«Ci sei davanti. Sono nel cassetto.»

Sbuffò. Si mosse appena e mi lasciò un lembo di spazio sufficiente - almeno secondo lui - ad aprire il cassetto e prendere il necessario. Ma non si allontanò. Continuò a sfregare nella pentola, con il mestolo di legno e lo sguardo fisso sul suo contenuto. Mi mossi in avanti, aprii il cassetto. Mi accorsi che nonostante l'ordine, lì dentro non era facile trovare le cose. Frugai nel fondo, spostai delle presine e un guanto a fiori, da forno, riuscii a trovarle. Nere, fatte ad intreccio, proprio verso la fine. Feci per acciuffarle, ma avevo le dita troppo piccole e troppo tozze per riuscirci al primo tentativo, così mi sporsi all'indietro, allungando il braccio. Tastai e zompettai finché non riuscii a stringere le due tovagliette. Le tirai fuori.

Solo allora mi accorsi della situazione in cui mi ero cacciato.

Avevo preso le tovagliette certo, ma nel farlo mi ero spinto troppo indietro ed ero finito contro il petto di Katsuki. La mia schiena era finita contro il suo torace, contro i suoi addominali. E la sentivo. La sua presenza dietro di me, solida come quella di un soldato, massiccia come un tronco d’albero. Nulla a che vedere con il fisico di quando eravamo dei sedicenni tutti smilzi e con poco spessore. Io stesso avevo messo massa, ma non era nulla in confronto al petto di lui. Riuscivo a sentire i muscoli tesi di Katsuki, attraverso i nostri abiti, attraverso il cotone e la pelle. Erano lisci, cesellati. Sembravano fatti di pietra.

Lo avevo urtato mentre si occupava della pentola e i suoi movimenti con il cucchiaio di legno si erano fermati. La differenza d'altezza tra di noi, - il mio metro e settanta, stonava come pioggerella messo a confronto con il suo metro e novanta - faceva sì che il suo respiro bollente si scontrasse contro l'inizio del mio orecchio. Un brivido mi attraversò. Partiva dalla schiena e sfociò come una scossa lungo le gambe. Lo ignorai. Feci per staccarmi, rosso in viso come un pomodoro, ma lui mi trattenne dall’avambraccio.

Aveva le mani caldissime.

«Sei ancora un disastro.» soffiò, appiccicato al mio orecchio.

La sua vicinanza mi aveva annebbiato il cervello. Non riuscii a rispondere. Sentivo solo il suo fiato attaccato alla mia pelle, il suo addome, liscio e fresco come se il caldo non avesse conseguenze su di lui, la bocca che mi sfiorava.

Lo sfrigolio dell'olio mi riportò alla realtà. Mi spostai velocemente, sottraendomi, senza sforzo, alla sua presa. Solo dopo che ebbi messo almeno dieci piedi di distanza tra i nostri corpi riuscii ad inspirare. E mi resi conto che fino ad allora, avevo trattenuto il respiro. Il cuore mi ruggiva in petto e la vista si era fatta sfocata.

Mi voltai, dandogli le spalle.

Avevo bisogno di un momento per riprendermi, per capacitarmi di quello che era appena accaduto, delle sue labbra, pericolosamente attaccate a me, della presa sul mio braccio che ancora bruciava, ma lui non me lo concesse.

«È quasi pronto.» mi disse, come se nulla fosse accaduto. «Apparecchia la tavola, Deku

Se fossi stato in me, gli avrei chiesto di non darmi ordini, ma ora ero troppo sconvolto per parlare. Aggirai il tavolo e presi ad aggiungere tovagliette e posate.

Mangiammo in silenzio.

Katsuki non mi sembrava interessato ad instaurare una conversazione e io ero troppo accaldato e confuso per farlo. Non eravamo mai stati così vicini. Neppure durante le missioni, neppure durante le sfide o i combattimenti. C’era sempre stato un certo distacco da parte di lui, come se io non fossi stato altro che una cartella da osservare. Uno dei suoi documenti, che imparava a memoria e poi riduceva all'osso.

Ma in cucina, mi aveva sfiorato.

Erano anni che non lo rivedevo, anni che il mio cuore aveva smesso di battere in quel modo per lui. Anni che credevo di averlo messo da parte, che Shoto fosse il mio solo ed unico sogno, - oltre al mio lavoro e i miei manga - ma era bastato un solo suo tocco per farmi dubitare di tutte quelle certezze.

Seduto al tavolo della cucina, con il cucchiaio pieno sospeso a mezz’aria, mi fermai a chiedermi se io fossi davvero cambiato. O se semplicemente fosse lui a esserlo.


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Più tardi, Katsuki disse che lui andava a dormire sempre presto. Mi riferì che non voleva essere disturbato e che potevo prendere il letto, a patto che non facessi rumore.

La sua cortesia mi parve inquietante. Ero abituato ai suoi modi di fare bruschi, aggressivi, ora che mi ritrovavo di fronte ad un uomo cresciuto, con gli occhi più stanchi e le spalle più larghe. Non sapevo cosa dire o fare. Così decretai solamente che sarei stato attento e non gli avrei dato alcun fastidio, - se lui non lo avesse dato a me, aggiunsi, forse per sembrare meno accondiscendente. -

Di tutta risposta mi guardò male. Prese il cuscino e qualche lenzuolo dall'armadio, lo distese sul divano e spense le luci.

Io me la svignai in camera.

Il buio mi aveva sempre fatto paura. Perfino quando ero bambino, prima di andare a letto dovevo assicurarmi che la piccola luce a forma di All Might fosse accesa e ben collocata. Odiavo le ombre. Odiavo che i miei sensi si assottigliasero al buio, che la vista scomparisse, che ogni suono, odore, sfregamento, fosse un indizio.

Una minaccia.

Sospirai. Stretto stretto, con le lenzuola tirate su fino al collo e nonostante il caldo, avevo i brividi. Non ero abituato a dormire da solo. Di solito accanto a me c’era sempre Shoto. Il suo petto caldo, il suo respiro bollente. Le pattuglie di notte separate, ma le dormite sempre insieme. Amavo sentirlo respirare al mio fianco. A volte, mi chinavo a guardarlo e stavo per ore ad osservare ogni ruga comparisse sul suo bel profilo. Non mi bastava mai. Shoto era stato la fonte dei miei pensieri per anni. Si era intrufolato a forza nella mia vita e c'era rimasto. Con quel suo garbo e il modo di fare poco invasivo, mi piaceva. Emetteva un bagliore. Uno di quelli che poche anime riescono a possedere, ma che lui aveva. Brillava ogni volta che qualcuno gli posava gli occhi addosso.

Mi rigirai su un fianco, portando con me la maglietta e il lenzuolo. Aprii gli occhi e nello stesso istante il mio cellulare emise un bip. Mi affrettai a prenderlo, maledicendomi per essermi scordato di mettere il silenzioso, - speravo che Katsuki non lo avesse sentito, altrimenti mi avrebbe fatto una scenata madornale - e feci per spegnerlo. Però, mentre premevo il tasto, l'occhio mi cadde sul messaggio che spuntava in cima agli altri.

Era di Kota, il mio assistente.

Gli avevo detto di non scrivermi, di non contattarmi almeno che non fosse un’emergenza. Immaginai che fosse urgente e il cuore improvvisamente mi ruzzolò fin giù allo stomaco. Sbloccai il cellulare, e con le mani tremanti, aprii il messaggio.

Era una foto.

Una solo foto, senza scritte né emoji. Balzai a sedere, la scrutai con gli occhi ridotti a due fessure. La luce mi confuse. I colori, i sorrisi, le mani. Ci misi qualche secondo a collegare. Il colorito rosso fuoco, la pelle liscia, il suo bel viso. Era Shoto. Il mio Shoto. Era in divisa, quella nuova, tutta di collant, aderente nei punti giusti, e stava sorridendo. Ma non uno di quei sorrisi apatici che rivolgeva a tutti, ma uno di quelli che trapassavano l’essenza, che andava dritti al cuore, e che rivolgeva solo e soltanto a me.

Mi balzò il cuore in gola.

In un attimo, tutti i pensieri che fino a pochi secondi prima mi riempivano la testa, non c’erano più. O meglio, ce n’era uno e uno soltanto. Mi torturava. Sarei anche stato felice di vederlo se non avessi guardato più in là, giusto un po' più in là, a pochi millimetri dal suo viso, c’era qualcun altro.

Qualcuno che lui teneva per mano. Qualcuno a cui sorrideva. Ne scorsi i tratti femminili, maturi, pieni. Il corsetto rigido, il seno all'insù, le ciocche corvine che parevano una cascata.

Realizzai.

Shoto e Momo Yaoyorozu.

Shoto e Momo Yaoyorozu che si tenevano per mano e si sorridevano. Shoto che non sorrideva a nessuno in quel modo, Shoto che le stringeva la piccola mano sottile nella sua. Shoto che camminava, Shoto che si appartava con lei.

Shoto e Momo.

Il pensiero mi fece così male che non riuscii a far altro se non lanciare il telefono lontano. Lontano, lontano il più possibile da me e dal mio cuore ferito.


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