Capitolo 3

- Tra sprazzi di cielo e Tokyo - 


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Arrivai a Tokyo qualche oretta dopo. C'ero stato in vacanza con Shoto per un po'. A lui anche piacevano i ritmi notturni e instancabili di una città come quella.

Era un'enorme alveare. E tutte le api si accalcavano a volare qua e là, con le loro bici, con i treni, con le buste della spesa sotto mano. Perfino i bambini sembravano sempre indaffarati, sempre pronti alla vita. Le arterie del mondo scorrevano nella nostra città e parevano pulsare sangue quel giorno. Il treno ci lasciò all'altezza dei centri commerciali. La zona dove si trovava il mio affitto distava da lì almeno dieci minuti a piedi. Utilizzando il mio quirk ce ne avrei messi tre, ma non volevo essere scoperto.

Mi calai il cappellino sui ricci, presi la valigia, il borsone e mi accalcai alla massa di donne e uomini che si riversavano fuori dalle porte. L'odore d'aria pulita mi colpì immediatamente, assieme a tutto l'appicciume del caldo che ti si incollava addosso come colla. Mi scrollai la camicia dal petto zuppo e cercai di raggiungere la fine della stazione.

La città viveva sotto i miei occhi. Mentre percorrevo le piccole viuzze mi resi conto, che nonostante abitassi ormai da quattro anni a Kyoto, con il mio Shoto, Tokyo era la città del mio cuore. In mezzo a quella calca infinita di gente, alle colorate insegne al neon, ai fiori di ciliegio che il vento spazzava in giro come souvenir, mi sentivo a casa.

L'aria era caldissima, il Sole alto in cielo, i venditori erano dietro l'angolo, ma sorridevano gentili e non ti fissavano mai troppo a lungo. Riconobbi un negozietto di usato che avevo visitato anni prima con Mina, uno di vinili, un piccolo ristorante di ramen artigianale. Il mio stomaco brontolò. Mi fermai e appoggiai un gomito contro il bancone. L'anziano signore dietro, mi sorrise.

«Come posso esserle utile?» mi chiese, aggiustandosi la corta barba.

«Vorrei un tonkotsu, a portar via. Per piacere.»

«Certo!»

Aspettai appoggiato alla parete del negozietto. La città era frenetica, un vociare infinito che pareva coinvolgere perfino gli abiti stesi tra gli stretti palazzi-alveare, perfino le piccole lanterne rosse, aggrappate alle insegne pubblicitarie. Dall'altra parte del marciapiede dove sostavo, era pieno di distributori automatici, di negozietti per ordinare la cena, e ancora negozi di cd, di vinili, karaoke, aiuole piccine come un soldino.

Una brezza di vento estivo mi colpì la camicia e il caldo si attenuò. Il signore mi richiamò. Mi porse il ramen bollente ed io lo afferrai con le mani appiccicaticce di sudore e gli sorrisi, chinandomi per ringraziarlo. Quando fu il momento di pagare però, lui non volle nulla. Disse che sua nonna aveva previsto che avrebbe conosciuto qualcuno di importante prima di morire. Poi, come se si fosse accorto del mio sguardo spaventato, - temevo che si fosse accorto di chi fossi - gentile, aggiunse. E nonostante la mia insistenza, non volle accettare la mia banconota.

Lo ringraziai ancora e ripresi a camminare. Il ramen era buono, salato al punto giusto e sostanzioso. Mi addentrai di nuovo tra la folla. Con una mano tenevo la valigia e il borsone, con l'altra il ramen. Pensai che avrei dovuto seguire il consiglio di Mina ed indossare anche gli occhiali, ma avevo caldo e temevo che mi sarebbe scivolati sul naso ogni cinque minuti. Così proseguii, evitando altri sguardi. O almeno ci provai.

Quando un bambino mi sorrideva, io ricambiavo. Vidi perfino un ragazzo dalle belle ciocche color fiamme e la fitta che mi assalì il petto fu così violenta che dovetti fermarmi a respirare. Già mi mancava Shoto, intuii. O forse, a mancarmi era la mia città, la nostra quotidianità.

Finii il tonkotsu in fretta e proseguii col naso verso il cielo per poter scrutare la fine degli enormi grattacieli. Ad un certo punto, mi venne da sorridere e fui colto da una gioia contagiosa. Mi piaceva Tokyo, mi era sempre piaciuta e camminare tra quella gente, tra quegli uomini in giacca e cravatta e le donne tutte ben vestite, con i capelli acconciati e le borse sotto braccio, mi mise di buonumore. Almeno finché non dovetti raggiungere il mio appartamento.

Sbagliai strada cinque volte. Non era difficile trovarlo, così mi aveva detto un anziano signore, ma io continuavo a perdermi. E faceva caldo. Il caldo mi aveva appiccicato tutti i vestiti addosso e mi sentivo avvolto da un guanto di lattice.

Mi sventolai una mano davanti al viso e al collo, nel tentativo di farmi un po' di vento, ma fu tutto inutile. Il caldo si infilava sotto ogni unghia e penetrava nella pelle. Sbuffai. Cambiai strada, guardai di nuovo il pezzo di carta dove c'era scritto l'indirizzo.

Un ragazzo vedendomi agitato, mi si avvicinò.

«Signore?» chiamò. Mi voltai a guardarlo, sembrava proprio del posto. I capelli castano scuro, suddivisi in ciocche ben pettinate, la maglietta fradicia. «Tutto bene? Si è perso?»

«Sì.» latrai sconsolato. Mi aggrappai alla valigia e attesi indicazioni.

«Dove deve andare?» domandò il ragazzo, avvicinandosi. «È di Kyoto?»

«Ci vivo da qualche anno con il mio ragazzo.» confermai, provando a sciorinare un sorriso che dovette sembrare più che altro una smorfia.

«Bellissima città.» annuì lui, mostrandosi tutto compiaciuto. Mi stava simpatico e il mio quirk non me lo indicava come un potenziale nemico. Sorrisi rispondendo alla sua cortesia. «Allora, dove alloggia?»

Gli spiegai che dovevo andare all'indirizzo segnato sul foglietto che gli consegnai. Lui aggrottò gli occhi e lesse, io aspettai sospettoso. Per un po' non disse nulla, stette in silenzio, scrutando la città come se la vedesse anche lui per la prima volta, poi tornò a guardarmi e sorrise ancora. Sollevò la mano e mi indicò un edificio poco distante.

«Lo vede? È quello.» disse.

«Quello?»

Replicai il suo gesto, indicando l'alto edificio a forma di torre, con le finestre tutte di vetro e l'aria di un panno che stonava con quelli circostanti. Storsi il naso, ma deglutì e annuì, ringraziando l'uomo. Gli offrii una mancia, ma lui rifiutò educatamente e mi salutò.

Mi diressi all'edificio e gettai un'occhiata all'orologio che tenevo al polso. Il cinturino di pelle mi si era attaccato alla pelle ed ero certo che ne avrebbe lasciato il segno per un bel po'. Le lancette segnavano le cinque. Il Sole non accennava ad abbassarsi però, come un bambino capriccioso che non vuole dormire. Mi aggiustai il cappellino sui ricci, cercando di accatastarli dentro, ma la fronte sudata e il cappello stretto per la mia testa, rendevano tutto più complicato. Alla fine mi cadde e finì pestato dai piedi di un passante. Rinunciai a prenderlo e imboccai il portone. Aizawa mi aveva dato le chiavi, un bel mazzo con tanto di portachiavi a forma di orsetto - che mi aveva preso Mina, dicendo che era adorabile come il suo Kiri. -

All'ingresso, il palazzo odorava di terra e fumo. C'erano le cassette della posta sul lato destro e un ascensore nella parte finale dell'atrio. Richiusi il portone alle mie spalle e mi beai dell'aria fresca che mi investì il corpo. Cliccai sul pulsante per chiamare l'ascensore, ma non solo quello non venne, ma scoprii - leggendo un piccolo cartello sulle porte, che all'inizio non avevo proprio notato - che era rotto. Anzi, che si era rotto proprio oggi. Sospirai, esausto. Mi caricai la valigia in spalla e presi a fare le scale.

Il mio appartamento - nostro - era al sesto piano.

Arrivai sopra che avevo la tachicardia e zero respiro. Mi aggrappai allo stipite delle scale e presi a fare boccate rumorose. La valigia, io, il borsone e perfino le scarpe erano zuppe di sudore. Infilai le chiavi nella serratura del portoncino e lo schiusi. L'atrio di casa era piccolo.

Entrai.

L'odore di limone riempiva l'aria. Immaginai che la signora delle pulizie avesse fatto un salto prima del nostro arrivo. Trascinai dentro i miei bagagli e li lasciai sull'atrio, accanto al portaoggetti. Nonostante la stanchezza, mi scoprii incuriosito da quel nuovo ambiente. Volevo capire, scoprire, guardare.

Mi ritrovai a vagare per la casa come un vagabondo, esplorando dapprima il salotto, luminoso, pieno di finestre e con un piccolo divano nel mezzo. C'era la tv a schermo piatto, appesa al muro, mobiletti, un tavolino. La cucina, interamente bianca, con i ripiani in marmo chiaro, il set di coltelli, i piatti con i ghirigori. Era grande. Non quanto quella mia e di Shoto, ma abbastanza da poterci vagare e scoprire sempre nuovi angoli. Entrai nelle camere, o meglio, nella camera. Avrei potuto notare la bellezza della libreria alla fine della parete, della pietra che ricopriva la parte superiore della camera, delle belle tende grigie, sottili, con i ricami, ma tutto ciò che riuscii a guardare fu il letto. Il letto che navigava al centro della stanza e che era uno solo. Matrimoniale.

Dovrò condividere la stanza con lui?

Non seppi come prendere quella notizia. Se in un primo momento la preoccupazione mi assalì, dopo semplicemente ignorai quel pensiero. La fretta di levarmi lo sporco di dosso si fece più insistente. Corsi a riacciuffare la mia valigia, presi il necessario per cambiarmi e mi diressi in bagno.

La doccia mi rilassò. La stanza era tranquilla, pulita. Il gres porcellanato intatto, gli abiti puliti profumati. Mi ero sfregato via il sudore dalla pelle e ora mi sentivo pulito, fresco, nuovo. Rimisi a posto le cose utilizzate, indossai i miei abiti comodi. I pantaloncini erano morbidi, la maglietta stirata e leggera.

Tornai in salotto. Non mi ero guardato allo specchio, ancora spaventato dall'immagine che sarebbe potuta essere riflessa, o almeno questo era ciò che mi dicevo.

Non resistetti al richiamo della morbidezza del divano. Era in cotone, di un bel color panna, con i cuscini ben sprimacciati ai lati. Recuperai il telecomando e accesi la tv. Poi mi allungai. Impostai un canale che di solito vedevo a casa con Shoto e l'idea del mio ragazzo mi si fece più forte. Aizawa mi aveva raccomando di non chiamare nessuno finché non ci avrebbero consegnato dei telefoni sicuri - affinché non ci spiassero o hackerassero le telefonate e le chat - così mi limitai a guardare sconsolato il mio cellulare. L'audio della televisione era basso, le tende creavano ombre lungo tutto la sala, l'atmosfera mi piaceva. Mi rilassava. E il divano era comodo.

Non seppi quando, ma mentre mi rotolavo in quei pensieri, le palpebre mi cedettero e finii per addormentarmi.



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Nel sogno, qualcuno mi strillava contro. Non riuscivo a capire chi fosse, - la sua sagoma bianca non sembrava né femminile, né maschile, solo eterea, come un angelo - né cosa stesse dicendo. Vedevo solo la sua bocca tonda muoversi e strillare qualcosa.

Avevo capito che strillava perché da sotto mi arriva un vociare ovattato, come se fossi svenuto e non riuscissi a capire cosa mi stesse avvenendo attorno. Più cercavo di metterla a fuoco, più la figura si faceva sfogata. Alla fine, ci avevo rinunciato. Me ne stavo seduto ai piedi della sagoma e la osservavo gridare, ignaro della causa della sua collera. Tenevo braccia e gambe incrociate, e non sentivo freddo ma neppure caldo. Attorno a me, non c'era che bianco. Avrei voluto allungare una mano e sfiorare la sagoma, ma avevo paura che così facendo avrei ricominciato a sentire e mi avrebbero fatto male le orecchie.

La sagoma sembrava urlare tanto forte.

Aggrottai la fronte. Un momento. Perché urlava così forte? Come facevo a capirlo? Era un sogno? Era la realtà? Mi alzai di scatto. Non mi girava la testa, non avevo la nausea. La sagoma mi ignorava, continuava a dare fiato alla bocca, imperterrita.

Protesi una mano, pronto a toccarlo. Volevo che scomparisse, che potessi tornare a dormire. Ero stanco, stanchissimo.

Poi qualcuno mi diede uno strattone.

D'istinto attivaii il quirk, sobbalzai con l'intero corpo ed i miei occhi si schiusero. Non riuscii a mettere immediatamente a fuoco la stanza. Per un momento non contò altro che l'intruso che mi aveva toccato, il sogno non-sogno. Pensavo di averlo acciuffato, ma quando strinsi Frusta Nera, non riuscii ad acciuffare nulla, se non l'aria. Sbiancai. Mi tirai a sedere con uno scatto, mi scontrai contro lo schienale del divano, mezzo intontito ma con i sensi allerta.

Dov'ero? Dov'era Shoto?

Poi però, mentre mi scrutavo velocemente attorno, ricordaii. Ero nell'appartamento. Dovevo essermi addormentato sul divano, ma la tv - che prima era accesa e impostata su un reality - ora era spenta. Istintivamente lo sguardo mi cadde sulla figura che avevo intravisto con la coda dell'occhio. Mi feci più indietro sul divano, realizzai, incredulo.

A pochi metri da me, a dir poco impeccabile, col taglio corto, la maglietta intatta dal sudore, dalla fatica, i bicipiti grossi come bisonti, si stagliava lui. Non aveva mosso un passo per raggiungermi. Teneva ancora alzata la mano che aveva usato per toccarmi il braccio, - nel tentativo di svegliarmi - ma Frusta Nera non lo aveva neppure sfiorato. Mi chiesi come fosse possibile. Ci avevo messo anni a perfezionare la mia tecnica, aiutato da All Might, da Shoto, da Endeavor perfino. Come ha fatto a schivare il mio attacco? Anche perché, avevo colpito l'esatto punto in cui si trovano i suoi piedi sino a qualche secondo prima e avevo finito per distruggere il mobiletto sotto la tv.

Quando spostai gli occhi sul suo viso, mi accorsi del cipiglio innervosito che gli increspava la fronte e l'inizio del naso. Mi irrigidii. Nel corso della mia vita, avevo visto quell'espressione così tante volte che finivo sempre per mettermi allerta. Mi schiarii la voce, feci per scusarmi e dirgli che non lo avevo sentito arrivare, che non mi ero addormentato apposta e che non volevo mancargli di rispetto, ma prima che potessi anche solo aprire bocca, la sua voce m'investì.

«Hai lasciato le chiavi attaccate alla porta, Cristo. Hai capito che siamo in missione o pensi che siamo in vacanza? Stai praticamente invitando chiunque ad entrare. Complimenti, Deku

Parlava così spedito che per un attimo non riuscii ad afferrare il senso delle sue parole. Mi arrivarono lentamente al cervello e solo dopo che lui ebbe sbuffato altre due volte riuscii a capire.

Le chiavi attaccate alla porta. Avevo lasciato le chiavi attaccate alla-

«Merda, cos'hai fatto alla faccia?»

Mi passai una mano in viso, cercando di vedere quello che pareva vedere lui. E si, aveva messo su un'espressione buffa, metà tra l'indignato e il confuso. Sfregai le dita contro la pelle e me le portai sotto gli occhi. Non riuscii a scorgere nulla.

«Cosa..?»

Lui scosse la testa. «Lascia stare, cazzo.» bofonchiò. «Piuttosto, ti sembra il caso di lasciare la valigia all'ingresso? Hachiko ci stava quasi per cadere sopra.»

Corrucciai la fronte, perplesso. «Aspetta... chi è Hachiko

Lui mi rivolse un'occhiataccia. Poi si girò ed io pensai che stesse per ignorarmi, ma poco dopo aver fatto un gesto con la mano, lo vidi. Cavalcava l'aria come un dio norvegese, con il pelo perfettamente curato, il viso ovale, il muso lungo. Trattenni il fiato mentre il suo lupo cecoslovacco veniva ad odorarmi le gambe.

Lui non disse nulla. Non avevo paura degli animali, ma quello era un lupo, ed io temetti che mi avrebbe mangiato. Mangiato in un sol boccone come avrebbe fatto con un Katsudon ben panato. Tremai, Hachiko cacciò la lingua ed io serrai gli occhi. Ero pronto ad essere azzannato, quando sentii un tocco umido. 

Mi sta leccando, realizzai incredulo. Il suo lupo sta leccando la mia gamba.

Hachiko cacciò un piccolo gemito soddisfatto, mi guardò e ricacciò dentro la lingua. Poi semplicemente si fece indietro e tornò a scodinzolare contro le gambe del suo padrone. Lui lo accarezzò sulla testa, facendogliela chinare.

Ed io, che assistevo inerme alla scena, con tutte le domande che avrei potuto fare - che ci fai qui così presto? Ti aspettavo domani, così mi ha riferito Aizawa. Dove hai intenzione di dormire? - mi ritrovai a dare fiato alla bocca, senza logica. Solo istinto.

«Da quando hai un cane, Kacchan






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SPAZIO AUTRICE:

Eccoci qui col terzo capitolo. Izuku e Ktasuki finalmente si rivedono e malgrado la situazione, Izuku riesce comunque a domandarsi - più che lecitamente, eh - chi sia Hachiko. 

Il prossimo capitolo arriverà venerdì❤️ Fatemi sapere che ve ne sembra nei commenti, se vi va! Alla prossima, la vostra affezionatissima,


- Lilla

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