Capitolo 20

- Coccole -

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Stavo giocando a disegnare cerchi sulla sua pelle. La stanza sapeva di sesso, io sapevo di sesso, la bocca di Katsuki sapeva di me e di sesso.

«Raccontami di quando hai trovato Hachiko.» mormorai.

Eravamo nudi. Avevamo passato la serata tra coccole e orgasmi, Katsuki non mi aveva sgridato quando avevo preso a giocare col suo petto, così avevo continuato.

«Te l'ho detto.» disse, la voce bassa. «L'ho levato ad alcuni stronzi. Lo picchiavano. Hanno avuto quel che si meritavano. Quando ho finito con loro erano malconci.»

Lo accarezzai con più intensità.

«Dici di odiare le cose carine ma tu fai sempre cose carine.»

«Tsk. Come ti pare.»

Non avevo pensieri per la testa. Stavo bene con lui, sul letto, nella stanza opaca. Hachiko mosse la zampa, si spostò sulla pancia.

«È un bel cane, ma non è troppo grande per una bimba?»

«Ah?» spostò la sua attenzione su di me, cercò i miei occhi e glieli diedi. «Eri non è più una marmocchia.»

Spalancai le labbra. In effetti, qualcosa era sfuggito alla mia attenzione. Eri non era più una bambina. È una ragazza, ormai. Feci qualche calcolo. Me la ricordavo piccola piccola, che m'arrivava alle gambe, chissà com'era ora, se negli occhi aveva lo stesso ardore, la stessa tristezza mischiata a malinconia.

«Come sta? Che cosa fa nella vita?» mi sfuggì dalla bocca come se necessitassi saperlo subito. «Cioè, scusami. Intendevo se sta bene, se ha amici, se ha bisogno di qualcuno.»

Gli vidi reprimere un sorriso. Mi privò di metà del suo viso, spostando lo sguardo verso il soffitto. La curva della mascella era così rigida da sembrare una giostra. Di riflesso allungai una mano e lo sfiorai. Era così bello. E io ero ancora incredulo di averlo accanto a me. Lui si lasciò toccare.

«Sta bene.» mormorò. Aveva la voce roca, resa dolce dalle ore che aveva passato a mordermi la bocca. «Fa quindici anni a Dicembre. Studia per diventare dottoressa. Pediatra, ci tiene a specificare. Vuole aiutare i bambini come lei. Suona il violino, il pianoforte e la chitarra, gli sta insegnando Jirou. Ogni tanto viene a casa nostra. Quando non ha i suoi tour. Sta imparando bene però, sa già suonare tutto quello che conoscevo, non so più che cos'altro spiegarle. Sa perfino cucinare. Esce con i suoi amici, si vede con un… un tipo.» Lo vidi esitare. Aveva in viso un'espressione corrucciata. Mi ricordò la volta in cui Shoto mi presentò a suo padre come il suo fidanzato. Ricordavo l'espressione confusa del ex Number One, il suo viso che non riusciva a nascondere la sorpresa. Sembrava… spaventato. Ma in senso buono. Voleva proteggere suo figlio da un potenziale cuore spezzato. Forse ci aveva visto lungo.

Pensare a Shoto mi fece male allo stomaco. Tornai a guardare Katsuki, non riuscii a reprimere un sorrisetto.

«Sei geloso, papino

Quel nomignolo lo fece scattare come una molla. S'irrigidii. Si voltò a guardarmi come se avessi appena imprecato pesantemente.

«Come mi hai chiamato?»

Sorrisi. Stavolta non provai neppure a nascondermi.

Giochiamo, allora.

«Papi. Papino.» ripetei, scandendo per bene le sillabe. «Kacchan.»

Lo vidi sgranare gli occhi, sorrise. Un ghigno. Un ghigno che gli storse le labbra come una collina. M'afferrò dai fianchi, mi spinse sotto di sé, rotolandomi sopra. Un minuto prima stavo ridendo, quello dopo ce l'aveva che mi premeva contro il petto, sulle cosce.

Non ero abituato a quello.

Il respiro di Katsuki mi solleticava dappertutto. Era come un ago infilato sotto pelle e come mi muovevo lo sentivo premere più affondo. Ma non mi dava fastidio. Godevo nel sentirlo sprofondare, nel percepire le sue dita afferrarmi, stringermi e strattonarmi. Mi faceva sentire suo. Mi faceva sentire bene.

«Ridillo.» mi soffiò contro la bocca. Trattenni bruscamente il fiato, portando gli occhi nei suoi. Eravamo così vicini che intravedevo le pagliuzze color vino che gli stavano attorno alla pupilla.

«Kacchan.»

«No,» mise una mano sul mio collo, senza stringere. I polpastrelli mi sfiorarono le labbra e venni attraversato da un brivido. «Quello che hai detto prima.»

Mi sentivo i battiti in gola.

«Papi

«Izuku-»

Si morse un angolo del labbro, sbuffò, portò gli occhi all'insù e prima che potessi anche solo aprire bocca, mi stava già baciando. Non era però, uno di quei baci che mi aveva dato prima, non sapeva di dolcezza, di languore. Questo era desiderio. Lo sentivo bruciare addosso. Era fuoco, ustionava ogni mio respiro e mi strappava alla vita.

Fummo labbra e saliva, fiato e amore. Non seppi spiegare cosa fosse a travolgermi, in Katsuki. Lui era sempre stato per me come qualcosa di simile al Sole. Gli correvo dietro, mi bruciavo, continuavo a inseguirlo. Era mio, era tra le mie braccia e lo sentivo. A ogni spinta, a ogni gemito. M'era entrato dentro guardandomi negli occhi e aveva voluto che non distogliessi lo sguardo neppure per un secondo.

Mi voleva lì con sé. Mi voleva attaccato alle sue dita. Alle nostre dita legate.

Io che non avevo mai fatto l'amore così, perfino a Shoto avevo negato quella posizione. Era sempre stata troppo intima per me. Katsuki era sangue, era carne. Capii che non gli avrei negato nulla nel momento stesso in cui lo guardai. Il primo gemito che mi lasciò le labbra fu come l'esalazione per il passaggio a una vita superiore.

«Kacchan.»

Soffiai, mugolai, disegnai lunghe strisce rossastre sulle sue spalle. Lo marchiai. Non ne avevo alcun diritto, ma lui era lì. Era lì, dentro di me, così affondo che lo sentivo toccarmi lo stomaco e riempirmi di tutto. Capii allora. Capii che ero sempre stato vuoto e che Katsuki era il solo che avrebbe colmato quel mio tassello. Era me, era me più di chiunque altro. Nessuno sarebbe mai stato o avrebbe significato quello che significava Katsuki per me.

Dettava un ritmo che ci faceva ansimare entrambi. Un po' per la fatica un po' per l'ardore. Il letto cigolava, Hachiko era sceso sul pavimento, dormiva. Le nostre dita erano stese sul lenzuolo, se ne stavano aggrappate le une alle altre come ancore. Quella di Katsuki era gigante nella mia, che era tutta impacciata, rigata di cicatrici e bruciature. Prima di prendermi mi aveva baciato sulla fronte. Un solo bacio tiepido che mi aveva fatto venire gli occhi lucidi.

Che significa questo per te, Kacchan?

Avrei voluto chiedergli, ma dalla bocca non uscivano altro che gemiti, preghiere, il suo nome. Il suo nome ripetuto più e più volte come una preghiera.

Lui era sempre stato me. Come diavolo avevo fatto a vivere per così tanto lontano da lui, dalla sua bocca, dal suo corpo?

«Io sto per-»

Si aggrappò a me, mi avvolse tra le sue braccia come a volermi impedire di scappare. Lo lasciai fare. Non gli avrei impedito nulla. Lo volevo io, mi voleva lui. Lo baciai. Mi sciolsi in miele contro il suo corpo. Eravamo burro. Lui fece lo stesso. Mi venne dentro, lo sentii tremare e riversarsi a fiotti bollenti. M'imbrattava tutto, mi colorava, mi marchiava. Oh Kacchan. Gli permettevo cose che non avevo mai concesso a nessuno, - e che non avrei potuto concedere più a nessuno dopo di lui. -

Dopo lo accarezzai. Si lasciò sfiorare dappertutto. Chiuse gli occhi, sollevò le braccia e mi permise di esplorare il suo corpo, i suoi muscoli. Tracciai un sentiero di stelle che andava dal suo orecchio alla punta dei piedi. Lo amai di devozione, di ardore. Non m'importava di nulla. Avevo ancora dei dubbi riguardo quello che stava accadendo fuori, riguardo quello che avrei dovuto affrontare, ma avevo Katsuki Bakugo nel letto, nudo, completamente alla merce della mia bocca.

Quando mi chinai sul suo sesso, lui gemette. Chiuse le dita attorno ai ciuffi dei miei capelli e mi spinse a prenderlo fino a sentirmi sazio.

«Mangia tutto, ragazzino.» gemette, osservandomi con quegli occhi rossi. Ero in ginocchio, mi tremarono le gambe e dovetti reggermi alle sue.

«Izuku, Izuku, Izuku.»

Lo sentivo nella testa, nelle vene, nella bocca. Il modo in cui esalava il mio nome era come una preghiera.

Mi cullava tutto.

«Oh, merda.» mugolò. Strinse i miei capelli tra le dita, mi strattonò all'indietro. Il suo membro pulsava, me lo sfilò dalle labbra e posò gli occhi su di me. «Apri la bocca, Izuku.»

Deglutii. Obbedii.

Un lampo bianco mi dipinse la faccia, il suo getto caldo si riversò perfino contro la parte inferiore del mio occhio.

«Kacchan-»

Gli sfuggì una risata. Aveva ancora la voce roca, affaticata. «Scusa.» Poi si chinò verso di me, contro il mio orecchio. «Sognavo di farlo dalla prima volta che t'ho visto in questa casa.»

Divenni paonazzo. Lo spinsi via, scandalizzato e passai a pulirmi il viso con il dorso della mano. Lui cercò di riacciuffarmi, rise, mi afferrò dai fianchi, pose il viso nell'incavo tra il mio collo e la spalla. Mi fece vibrare tutto.

«Sei bellissimo

Non me l'aveva mai detto. Ci restai di stucco. Mi si schiuse la bocca, mi voltai a guardarlo ma prima che potessi aggiungere qualcosa mi aveva già ritrascinato sotto di sé. La sua erezione mi premeva di nuovo contro la coscia.

Sgranai gli occhi.

«Ma Kacchan! Ancora…?» mugolai, cercando di spingerlo giù dal mio corpo. Lui ghignò e prese a ricalcare una linea obliqua contro il mio collo, in quella parte di pelle che sentivo pizzicare - e che ero certo, avesse ricoperto di segni. -

«No. Lasciami, baka

Ridemmo insieme, lui mi baciò un punto sotto l'orecchio, tremai. Eravamo strafatti di noi, di sesso, di passione. Gli afferrai le guance, lo baciai con trasporto. Mi sprofondò tra le braccia, ricambiò.

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«Vuoi mangiare qualcosa?» mi chiese mentre apriva il frigorifero.

Me ne stavo sul divano, il telecomando in mano e una maglietta addosso. Non mi aveva neppure dato il tempo di infilarmi dei pantaloncini. Li aveva lanciati nel bagno, dicendo che stavo meglio senza. Avevo dovuto rassegnarmi all'idea di accontentarlo.

«Quello che vuoi, basta che non è roba americana.» sancii.

«Cosa? E che cazzo vuoi allora? Se devi venire in America devi imparare a mangiare americano.»

Il modo in cui diceva America mi faceva sempre sprofondare il cuore. Con quell'accento un po' grezzo, un po' instabile. Sembrava quasi insicuro quando pronunciava quel vocabolo. Stavolta però, il seguito della sua domanda mi fece venire un brivido. Mi voltai di scatto e anche lui parve come irrigidirsi.

«Che?»

«Niente, stavo scherzando.» si affrettò a sminuire. Si voltò e prese un pacco di verdure dal frigo. Non gliela lasciai passare. Lo avevo sentito eccome.

Mi alzai, lo raggiunsi.

«Che hai detto prima?»

Si prese qualche secondo prima di rispondermi. Prese un tagliere, il coltello e cominciò a tagliuzzare le verdure. «Izuku, non arrabbiarti per ogni stronzata che dico. Stavo solo-»

Lo interruppi. «Non sono arrabbiato.»

«Eh?»

Il movimento del suo polso si bloccò. L'osservai sollevare il viso e piantarmi addosso quelle iridi rosse come ciliegie.

«Non sono arrabbiato. Sono solo… sorpreso. Venire in America con te? È questo ciò che intendevi?»

Esitò. Per qualche secondo non mosse un dito. Il coltello tra le sue mani ciondolava. Glielo levai, riappoggiandolo sul tagliere e gli presi la mano.

«Non ho detto di no.»

«Non-» guardò in direzione della finestra. Giù la vita continuava a scorrere come un fiume. Quando tornò a guardarmi negli occhi aveva una scintilla che non gli avevo mai visto prima. «Voglio che vieni a conoscere Eri. Voglio che stai a casa con me, che giri per le stanze, che usi la mia cucina. Non voglio che tu te ne vada. Non voglio lasciarti qui.»

Non voglio lasciarti qui.

Neppure io volevo che quello che avevamo appena avuto, semplicemente smettesse di essere. Volevo stare nella sua casa, volevo conoscere Eri e soprattutto non volevo lasciarlo. Ma mi piangeva il cuore perché sapevo che comunque sarebbe andata, io e lui avremmo perso una parte importante. Potevo dargli tutto di me, ma una parte sarebbe sempre stata di Shoto. Quello che avevamo condiviso, le cose che gli avevo dato, tutto quello non avrebbe mai smesso di essere di Shoto.

Abbassai istintivamente lo sguardo. Avevo come l'impressione che se avessi continuato a sostenere quello di Katsuki, lui mi avrebbe letto dentro quel malumore.

«Hey.»

«È tutto ok. Ci penserò.»

«Izuku-»

«Che stai cucinando?» tagliai corto, stampandomi un sorriso sulle labbra. «Vuoi che metta su un po' d'acqua per il riso?»

Lo sentii sospirare, indeciso tra il continuare a battagliare e l'arrendersi. Alla fine annuì.

«Stai attento, però.»

«Certo.»

Mi aggirai tra la cucina con lui al bancone e mi sentii stranamente bene. C'era qualcosa in quel clima che mi scaldava dentro. Katsuki, i suoi modi, il suo modo di cucinare, di parlare. M'era nuovo e al tempo stesso familiare. Sentivo che avrei potuto abituarmi a tutto quello.

Passammo la serata sul divano. Katsuki mi accontentò, cucinando per metà americano e l'altra giapponese. Mangiai tutta la mia porzione e la maggior parte della sua. Lui non fece commenti. Mi fece scegliere un film, lo guardammo sul divano. Avevo spalancato le finestre e l'odore adolescente di Tokyo entrava ad ogni ventata d'aria. Profumava di strade, di traffico, di biciclette. Mi accostai a Katsuki. La pellicola che stavamo vedendo era vecchia, l'aveva scelta lui. Mi addormentai prima che riuscissi a capirne qualcosa.

C'avevo uno strano sollievo nel cuore. Lui m'aveva poggiato una mano sul fianco, io la testa sulla sua spalla. Respiravamo piano, non sentivo caldo, mi sentivo bene.

Sognai di tornare bambino. Sognai Katsuki, i suoi occhi, la sua bocca. Lo presi per mano mentre dormivo, lo sentii ricambiare la stretta.

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Angolo autrice:

Brevi brevi, ma ora arrivano le batoste. Siete pronti?

Vi aspetto nei commenti per le supposizioni!

A domani per il prossimo,

-Lilla

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