Capitolo 14
- Il ramen -
🍣
Non ci eravamo detti una parola.
Katsuki lavorava al portatile per tutta la giornata, io cucinavo, pulivo il bagno, sistemavo la camera. Lui non se ne curava. Metteva a posto le sue cose, lavava le sue camicie, le sue t-shirt, mi guardava storto se lasciavo la doccia sporca.
Non poteva soffrire che Hachiko stesse tutto il giorno in casa. A volte scendeva, lo portava un po' al parco, in giro per i vicoli della città. Stava fuori per qualche ora, tornava poco prima dell'ora di dormire. Sistemava il divano, sistemava le sue cose, mangiava un po'. Hachiko mi veniva a scodinzolare vicino, mi leccava le mani, le gambe. Ma non parlavamo. Lui non mi rivolgeva la parola, io passavo le ore a contare i miei documenti, a studiare qualche dettaglio in più.
Sapevo che Hiroshi Han era stato in carcere per dieci anni. I reati commessi erano molteplici. Come aveva detto Katsuki, non c’era nessuna cartella sul suo quirk, le autorità scribacchiavano qua e là sui suoi crimini, sulle vittime, sulle truffe, ma non c’era neppure un cenno al suo sorrisetto, al suo tocco. Eppure Katsuki l'aveva capito appena l'aveva visto. Cosa non avevo preso in considerazione? Passavo le giornate attaccato allo schermo, ai fogli di carta, in cucina. Ogni tanto la testa mi fuggiva, si perdeva. Cosa stava facendo Shoto? Che facevano Mina, Kirishima, Kotaro, mamma? Mi ritrovavo a smarrirmi tra le righe, rileggevo la stessa frase tre volte, senza capirci un'acca.
Allora mi alzavo, mi preparavo un caffè, mangiavo qualcosa. Facevo avanti e indietro dal balcone, col condizionatore acceso.
Hachiko mi seguiva, mi guardava come se fossi pazzo.
Erano passati tre giorni dall'incontro con Hiroshi. Per un po', - avevamo concordato - dovevamo studiare il caso, tenerci lontani da quel posto. Così mi ero buttato a capofitto sulla casa, sullo studio, sul cibo, per evitare di pensare a Katsuki, a quello che era accaduto. Mi concedevo di farlo solo quando mi ritrovavo da solo, nel letto. Tutto attorno a me era buio e io mi ritrovavo a pensare a quella sera. Alle parole che ci eravamo scambiati, urlati addosso. Katsuki mi era parso così vero, così onesto che ne avevo avuto paura. Un timore stanco che nasceva dal profondo. Shoto, forse, mi aveva sempre indorato la pillola. Non voleva che soffrissi, che dovessi per forza assorbire. Katsuki no. Lui mi sputava addosso sentenze e dolori senza curarsi di come mi sarei sentito. Eppure, quella sera aveva voluto - in un suo modo contorto - proteggermi.
Mi aveva allontanato da Hiroshi, m'aveva portato via da quel posto.
Ma oltre questo? Faceva di tutto per starmi lontano, per evitarmi. E io glielo lasciavo fare.
Ci eravamo allontanati, avevamo messo muri tra di noi, tra le nostre conversazioni. Ma nessuno dei due riusciva mai a fare un passo verso l’altro.
Una sera lo sentii parlare al cellulare. Stava scherzando riguardo qualcosa, sorrideva e gesticolava di tanto in tanto. Sollevai lo sguardo dallo schermo illuminato, lo scrutai. Camminava tra il salotto e l’ingresso, Hachiko lo seguiva con gli occhi, seduto accanto al divano.
«…i noodles. Vuoi che te li porto? Sì, quelli al pollo, certo. E le mele. Sì, anche le tue mele caramellate. Cosa? Sì, va bene.»
Mi tirai su gli occhialetti, lì poggiai sul tavolo. Ero in cucina, ma riuscivo a sentire quello che stava dicendo. Lo vidi annuire al nulla, un sorrisetto morbido sulle labbra.
«…Eh? Le espressioni? Fattele rispiegare da Mirio. Sì, chiediglielo. Digli di smetterla di amoreggiare, sì, digli che…» parve contenere il linguaggio volgare che ero certo avrebbe utilizzato. «Digli che ne hai bisogno.»
«Sì, fatti fare le trecce. Stai attenta quando attraversi lì, è molto pericoloso. E chi sarebbe questo ragazzino? Eh? Eri non farmi arrabbiare, dimmi il nome. Cosa? No, non ridere, sono serio.»
Mi sorprese il tono gentile e calmo che usava per rivolgersi a lei. Non strillava, non la sbeffeggiava, non le diceva parolacce. Sorrideva di tanto in tanto, abbassava la voce, diceva qualcosa di più tenero. Il Katsuki che conoscevo non avrebbe mai potuto ammettere una cosa del genere.
Non avrebbe mai parlato tanto tranquillamente.
«Eh? Sta bene. Sta lavorando. Non penso che… va bene, Cristo. Te lo passo, figlia di Satana.»
Lo vidi girarsi, raggiungere la cucina. Mi porse il cellulare e io lo guardai perplesso.
«Che cosa..?» biascicai, intontito. Lui mi fece cenno di portarmelo all'orecchio.
«È Eri. Vuole sapere come stai.»
Feci come mi chiese. La voce di lei mi parve cresciuta di ottave. Era più sensuale, più adulta. Mi chiesi quanti anni avesse adesso, feci un breve calcolo. Doveva essere adolescente, ormai. Parlava con un tono lento ma profondo, mi ricordava a tratti Katsuki, alcune sue espressioni erano uguali.
La risata.
La sentii esprimere un concetto complicato e poi scoppiare a ridere. Mi chiese se andava tutto bene, se lavoravo, se Katsuki si comportasse bene con me. Le dissi di non preoccuparsi, di pensare a stare bene, che ero felice di risentirla. Le promisi che sarei andato a trovarla, finita la missione.
«Ah, Izuku.» mi richiamò, poco prima di salutarmi. «Per favore, abbi pazienza con papà Kat. Lui è fatto così. Non è cattivo, solo che non ha filtri. Ne ha passate così tante ultimamente, vuole solo assicurarsi che le persone a cui tiene sopravvivino.»
«Sei molto saggia, Eri-chan.» mormorai, la voce un po' roca. Katsuki mi guardava dal divano, le braccia incrociate, cercando di decifrare cosa ci stavamo dicendo. «Lo farò, mi comporterò bene con lui. Puoi stare tranquilla.»
Mi ringraziò. Mi rivelò che Katsuki faticava a dormire da anni, che passava le notti a guardare il cielo, a lavorare. Mi pregò di dargli un'occhiata, di metterlo a letto anche se non voleva andarci. Era importante che riposasse, che riposassimo. E si raccomandò di farci sentire almeno una volta al mese.
La salutai con affetto, passai il cellulare a Katsuki. Lo sentii ciancare qualcosa, altre parole, un saluto. Mise giù il telefono, si avvicinò al tavolo. Strinse le mani alla spalliera della sedia.
«Che c’è?» domandai, senza alzare lo sguardo dal portatile.
«Vuoi uscire?»
«Cosa?»
Balzai su, le spalle mi si irrigidirono. Mi voltai a guardarlo e notai la smorfia che gli aveva inasprito i tratti.
«Non devi farlo solo per Eri-» iniziai, ma lui mi bloccò.
«Voglio solo parlare. Facciamo un giro e torniamo a cenare. Ti farà bene prendere un po' d'aria, stai sempre chiuso qui dentro.»
«Va bene.»
Mi cambiai in fretta. Chiusi il portatile, misi da parte i fogli, mettemmo la pettorina ad Hachiko. Sembrava aver capito che stavamo per uscire e pareva ancora più felice e zelante del solito. Lo accarezzai tra le orecchie. Il suo pelo soffice mi solleticò il palmo.
Katsuki si era messo un pantaloncino grigio, una maglietta chiara. Mi si avvicinò, mi bloccai. Le sue mani mi sollevarono il mento, mi scontrai col suo viso spigoloso, la sua pelle chiara, mi posizionò un cappello sulla testa. Trattenni il respiro. Me lo incastrò tra le ciocche corvine, - mi avevano tinto i capelli per non essere riconosciuto - mi sistemò qualche ricciolo.
«Tu non lo metti?» gli chiesi, giusto per tenermi impegnato e non pensare alle sue mani addosso. Al suo tocco leggero.
«Quando usciamo lo metto.»
Anche a lui avevano tinto i capelli, ma non di un altro colore, semplicemente di un biondo perfetto, ma che non poteva far comparire nulla. Grazie al quirk di una hero americana, poteva girare tranquillamente per la città senza essere riconosciuto, a patto che portasse sempre con sé una catenina. La teneva al collo, sotto i vestiti, ma l'avevo vista. Me ne aveva parlato quando gli avevo chiesto come facesse a non essere riconosciuto. Inoltre, faceva effetto solo sui civili, sulle persone che lo conoscevano da anni non aveva effetto. Ed ovviamente funzionava sui villain.
Ci chiudemmo il portone alle spalle. Katsuki fece scattare la serratura ed io mi persi con gli occhi a osservare le sue venature scure, le mani forti, le dita lunghe.
«Dove andiamo?»
«Facciamo un giro.»
«Posso portarti in un posto?»
«Va bene.»
Camminammo per un po'. Hachiko era contento e sfrecciava in avanti, costringendo me e Katsuki a mantenere la sua andatura veloce. Il marciapiede era pieno di gente. Era domenica, il sole era alto, ma la sera si approssimava a stendersi sulle nostre teste.
Sentivo caldo, ma mi piaceva passeggiare e la presenza di Katsuki mi rassicurava.
La città era sempre viva, arzilla come una bambina. Correva qua e là, si imbucava nelle viuzze, stracciava i semafori. Le insegne colorate sbucavano fuori come fiorellini, i grattacieli a tratti coprivano il sole. C’erano bici, bambini, buste, donne con i loro lunghi vestitini estivi. Era raro vedere fiori, ma c’erano, di tanto in tanto, aiuole di alberi, di querce, di noci. Sventolavano i loro piccoli e arguti rami, coprivano la luce, creavano vento.
Portai Katsuki al negozio di ramen del signor Toru. Faceva caldissimo, ma volevo che provasse il suo tonkotsu. Sapevo che ne sarebbe rimasto ammaliato. Suonai il campanello, l'anziano arrivò dopo qualche secondo. Camminava lentamente, il suo grosso kimono giallo e oro dondolava sulle sue spalle sottili. Mi vide, mi riconobbe e si sporse per abbracciarmi.
«Amico! Sei tornato!» mi strinse la mano, mi fece cenno di sedere e solo dopo si accorse di Katsuki e Hachiko. «Oh? Hai portato il tuo ragazzo?»
Sbarrai gli occhi, scrollando le mani con veemenza. Il cuore mi batteva così forte che temevo mi esplodesse. Chissà cosa mi avrebbe detto Katsuki dopo questo.
«Cosa? No, non-»
«Sì.»
Per poco non mi cadde la mascella per terra. Mi voltai di lui con la stessa mobilità di un robot. Lo guardai ad occhi sgranati, ma lui non rispose alla mia occhiata. Sorrise appena al vecchietto, si sedette al mio fianco. Era più alto di me, perfino sullo sgabello mi faceva sembrare un nanetto.
«Izumi mi ha parlato molto di questo locale. Mi ha detto che si mangia da favola. Ero curioso di scoprirlo con la mia bocca, perciò l’ho pregato di portarmi qui e lui mi ha accontentato.»
Il signor Toru sembrò al settimo cielo. Batté le mani felice, assicurò a Katsuki che sarebbe rimasto soddisfatto del suo cibo, gli disse che avrebbe offerto tutto la casa e sparì in cucina. Non prima però, di avermi schiacciato l’occhio, con fare malizioso.
«Ma che ti prende?» domandai, con le guance ridotte a un pastaio di pomodori.
Katsuki scrollò le spalle, prese a sgranocchiare qualche nocciolina che Toru aveva lasciato per lui dentro una ciotolina di legno. Ne sbucciò una la lanciò ad Hachiko. Il lupo l'afferrò al volo e si leccò i baffi.
«È vecchio, quanto gli rimane? Diamogli una gioia.» spiegò, come se lui fosse un cristiano per eccellenza. «E poi, non possiamo far saltare la copertura, lui di certo non crederebbe che siamo fratelli.»
«Va bene, ma comportati bene. Per favore.»
Lui sbucciò un'altra nocciolina, me la spinse tra le labbra. «È quello che faccio sempre.»
Masticai la nocciolina, lo guardai male. Toru tornò qualche minuto dopo con due zuppe fumanti, cariche di cibo.
«Ecco qui per i miei cari ospiti.»
Ringraziai per entrambi e prendemmo a mangiare. Katsuki divorò la sua porzione e ne chiese una seconda e una terza. Se le spazzolò tutte, bevve tutto il suo tè verde, un po' di Midori, chiese di nuovo il bis. Gli presi l’avambraccio, lo fermai.
Si volse a guardarmi, confuso.
«Basta, ti farai venire un’indigestione.» lo avvertii. Lui mi ignorò, bevve ancora, ma alla fine si rassegnò ad ascoltarmi.
«Era tutto squisito, Toru-san.» affermai, chinando la testa in segno di ringraziamento.
Toru mi fece cenno di sollevarmi.
«È un piacere, amico mio. E vi prego, tornate ancora!» ci scongiurò.
Sorrisi, annuii.
Poi lui e Katsuki presero a parlare. Toru gli chiese da dove venisse, Katsuki glielo spiegò. Sedemmo lì per qualche ora, loro due erano completamente assorti nella loro conversazione. Non volevo interromperli. Poggiai un gomito sul bancone, ci feci scivolare il viso. Anche Hachiko si era rassegnato. Sdraiato a terra, zampe all'infuori, bocca schiusa da cui trapellava il suo respiro regolare. Katsuki stava dicendo a Toru che aveva frequentato, per tanto tempo, un locale di ramen in America, ma che nessuno riusciva ad eguagliare il vero sapore del cibo giapponese. Toru si disse d'accordo, gli rivelò di quel suo cugino che si era trasferito in Canada, che aveva aperto una rosticceria e cucinava solo la notte. Parlarono di pesca, di alberi, di medicina, di studi, di cibo. Li stetti a sentire in silenzio, ammirando prima l’uno poi l’altro. Katsuki aveva in viso qualcosa che splendeva come una lanterna. Toru parlava e sorrideva, pareva rivedere con gli occhi qualcuno. Il figlio che non aveva mai avuto. Si somigliavano un po'. Katsuki aveva i capelli biondi, l'anziano Toru di un dorato che ricordava la sabbia bagnata. Avevano in viso gli stessi tratti spigolosi, levigati dalla mascella pronunciata, dal naso sottile. Solo che Toru quando parlava aveva sempre il tono di uno che deve scandire le cose con calma, con passione per farle restare bene impresse. Mentre Katsuki era veloce, sbrigativo, come se odiasse sentire il suono della sua voce.
Raschiavano nelle parole e tiravano fuori le loro ossa. Sgranocchiarono olive, - che Toru giurò aver comprato in Italia tempo prima - bevvero tè al bergamotto.
Dopo un po', Katsuki si alzò per andare in bagno e Toru mi si avvicinò.
«È un bravo ragazzo.» mi assicurò. «Un po' brusco, ma è onesto. È questo che conta, Izumi. Non ti dirà mai che ti vuole bene, preferisce mostrartelo.»
Annuii, sorpreso dalla veridicità di quelle parole. Toru era felice che glielo avessi fatto conoscere, mi rivelò che Katsuki gli ricordava un suo nipote, che aveva occhi bellissimi, che parlava usando tante belle parole, che conosceva tante cose. Si congratulò con me, mi raccomandò di prendermi cura di lui e di tornare ancora.
Lo rassicurai. Mi alzai, lo salutai e andai a cercare Katsuki in bagno. Mi sembrava che ci stesse mettendo un po' troppo.
Bussai alla porta di legno, non ottenni risposta. Bussai ancora. Hachiko attendeva, il guinzaglio stretto nel mio palmo sudato. Accostai l’orecchio alla porta, chiamai il suo nome.
Non ottenni risposta. Abbassai la maniglia, era aperto. Mi chiusi dentro, portai Hachiko con me, in allerta.
«Katsuki?»
Qualcosa mi piombò addosso. Strillai, sorreggendolo con le mani. Il quirk non si era attivato, Hachiko non aveva abbaiato. Intuii dopo qualche secondo, chi fosse. Il suo peso mi gravava addosso e mi teneva appiccicato alla parete.
«Kacchan.» soffiai.
«Merda. Scusa.» mormorò, la voce pastosa. Provò a rimettersi in piedi, ma barcollava. Lo tenni a me e l'aiutai a mettersi composto.
«Che succede? Non stai bene? Ti avevo detto di non mangiare tutto quel-»
Lui mi interruppe, ridacchiando.
«Sono ubriaco.»
«Cosa?! Ma sei hai bevuto solo qualche bicchiere!»
Aveva bevuto davvero sì e no qualche bicchiere, il Midori non era così forte. Io stesso avevo bevuto più di lui e stavo benissimo.
«Il cuore si sovraccarica. E poi da quando non bevo più reggo male l’alcool.» mi spiegò, incespicando tra le varie parole. Mi sputacchiò addosso un po' di saliva, mi pulii con il palmo.
Lo aiutai a sedersi sul pavimento, stetti attento a non farglielo toccare con le mani. Lui crollò a sedere, mi trascinò con sé e posò la testa contro la mia spalla.
«Mi sento uno schifo.»
«Ti fa male la pancia?»
«Sì.»
«Ti avevo detto di non mangiare così.»
«Izuku.»
«Sì?»
«Mi accarezzi la testa?»
«Come si fa con i bambini?»
«Sì.» mormorò. «Per favore.»
Lo feci. Le mie dita scivolarono tra i suoi capelli, glieli spostai delicatamente all'indietro, gli massaggiai la fronte. Era umido di sudore, di caldo. Gli sfiorai le orecchie, ricalcai il loro profilo con le dita. Sotto i polpastrelli lo sentii ammorbidirsi. Si lasciò cullare dalle mie carezze, si arrese contro di me. Teneva gli occhi chiusi. Sbirciai il suo viso. Il naso dritto, sottile, le labbra rosse. Era cresciuto, non aveva più le guance rotonde, adolescenti. Ora era un concentrato di nitroglicerina, di muschio, di mascella forte, di muscoli. Io c’ero cresciuto insieme, lavevo visto sbucciarsi le ginocchia, ferirsi i palmi. Trovarmelo tra le braccia quando era già uomo mi fece strano. Mi parve di volerlo stringere a me finché non si sarebbe fuso alla mia pelle.
Volevo sentire come gli batteva il cuore, il modo in cui le sue ciglia si muovevano.
«La sera in cui sei uscito, quando abbiamo litigato, ti ho seguito.» ammise. Un soffio così basso che mi parve di averlo immaginato.
«Perché?»
Ormai ero più sorpreso dalle rivelazioni che mi faceva che dalle azioni in sé. Sembrava vedermi e cedere alla mia pelle, al mio tocco.
«Perché non volevo che ti facessi male. Mi sentivo in colpa per le brutte cose che ti avevo detto, non avrei dovuto. Lo sai come sono quando mi arrabbio.»
«E cos’hai visto?»
«Ti ho cercato per un po'. Non ti ho trovato subito, ho girato tutta la città, mi sono fermato sotto casa, ho ricominciato. Poi ti ho visto seduto a quel bancone e mi sono sentito sollevato. Ti ho seguito, mi sono nascosto.» si interruppe, riprese fiato. Continuava a tenere gli occhi chiusi. «Ho sentito il modo in cui parlavi di me a quel signore.»
Quel giorno io e Toru abbiamo parlato di amore.
Gli ho parlato di lui, ma non ho fatto il suo nome.
«Come fai a sapere che parlavo di te?»
Nonostante la posizione, potei scorgere benissimo il sorrisetto che gli increspò le labbra. Un sorriso dolce, timido. Come il Sole dopo un temporale.
«Perché sembravi felice e quella felicità è quella che ti ho sempre impedito di raggiungere. Io, non Shoto. Sapevo quanto tenevi a me, Izuku, solo che sapevo anche di non meritarti.» mormorò, piano, una rivelazione che mi faceva aumentare i battiti ogni secondo di più. «Quando ero in America, non facevo che chiedermi ogni giorno cosa stessi facendo, e soprattutto, se tu fossi felice. Se tu sorridessi, se il Sole potesse ancora vedere la tua bocca.»
«Mi hai pensato?» sussurrai, senza fiato. Il cuore mi batteva così forte che temevo l'avrebbe sentito, che avrebbe riso di me. Ma lui non lo fece. Poggiò un palmo sul mio ventre.
«Ogni giorno.» ammise. «Ti ho pensato ogni giorno, ogni minuto in cui non ti ero accanto. Vuoi sapere una cosa?»
Deglutii. «Sì.»
Sollevò il capo, storse le labbra quando una fitta dovette attraversarlo. Ma si sforzò di guardarmi, di guardarmi negli occhi.
«Ho accettato di partecipare a questa missione, solo perché c’eri tu.»
Non so spiegarlo il modo in cui mi sentii allora. Quando un intero castello di mattoni ti cade addosso e tu resti fermo, sotto, ad aspettare di essere demolito con lui. Perché io avevo sognato per anni che lui mi dicesse quelle parole, che lui mi guardasse in quel modo, ma allora perché ora? Perché adesso? Non so spiegare l'aritmia che mi afflisse il cuore e mi ribaltò da dentro, mi scaldò il sangue.
Anch'io Kacchan, anch’io ti ho pensato ogni giorno.
🍣
🍣
Angolino autrice:
A MAN, Izuku, A MAN. Che vuoi di più? È dolce, premuroso, attento ai tuoi bisogni. Direi che puoi effettuare l'acquisto :)
Se il capitolo vi è piaciuto sono curiosa di sapere nei commenti quello che ne pensate! Grazie💛💛
A domani per il prossimo,
-Lilla
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top