Capitolo 13

- Non posso perché sei tu -


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Katsuki s’era svegliato innervosito.

Aveva rovesciato la tazza che aveva riportato dall'America, quella che - sospettavo - gli aveva regalato Eri. Stava facendo il caffè americano, perché fatto all'italiana non gli piaceva più, perciò stava usando la macchinetta elettrica, con la cialda e la presa. Non so bene come sia andata, - ero molto perso nei miei appunti, con gli occhialetti sul naso e una matita tra le dita - se lui avesse urtato col gomito la caraffa del caffè, se per sbaglio avesse messo la tazza a bordo del bancone, se gli tremassero le mani. Non lo so. Fatto sta che l’aveva rovesciata e il rumore di cocci s’era diffuso per tutto l’appartamento. Era arrivato Hachiko ululando ferocemente, si era spaventato, io avevo sobbalzato sulla sedia. L'avevo sentito sibilare insulti e imprecazioni mentre si chinava a raccogliere i pezzi della sua tazza.

Era stato istintivo per me alzarmi dalla sedia, lasciare stare i miei appunti, le mie pagine incollate, e correre da lui, in ginocchio, con le mani già protese in direzione dei cocci.

«Ti farai male.» mi aveva detto, ma non sembrava arrabbiato. «Lascia stare.»

Le sue parole mi avevano distratto. Mi ero chinato in avanti e un dolore acuto mi si era disperso in prossimità dell’indice. Avevo cercato di nascondere le mani, e nel frattempo avevo cianciato una risposta.

«Voglio aiutarti. Ti sei fatto male?»

Non mi aveva risposto però. Avevo seguito il suo sguardo, mi ero soffermato sulla goccia rosso borgogna che era caduta per terra. Sul parquet chiaro.

«Kacchan, non è nulla… mi sono distratto e-»

Ma non aveva aperto bocca. Aveva lanciato via i cocci che teneva tra le mani, si era alzato, era sparito oltre la porta. Io ero rimasto a chiedermi che cosa accadesse.

Il pomeriggio l'aveva passato chiuso sul balconcino, con Hachiko che faceva avanti e indietro da lui a me. Si era chiuso tra quel pezzo di cielo sospeso, con i vetri accostati, di schiena. Non gli avevo detto nulla. Mi ero fasciato il dito, avevo pulito a terra, avevo cucinato il pranzo, mi ero seduto a tavola.

«È pronto, vieni?»

Ma non aveva risposto. Mi ritrovavo davanti a un muro di silenzi, fatto di cemento e rimbalzi. Avevo sospirato, mi ero mangiato la mia porzione.

Più tardi avevo incartato la sua e riposta in frigo. Non ci avevo affissato un biglietto, non pensavo servisse. Mi pareva scontato che quella fosse la sua, di porzione. E pensare che avevo perfino cucinato americano. Con tanto di bistecca. Poco male, se la spazzolò Hachiko in pochi secondi.

Ripulii, mi rimisi a lavorare.

Lui si degnò di rientrare solo quando ormai era ora di andare al locale. Avevamo concordato di andarci la sera prima, prima di andare a dormire. Necessitavamo di informazioni su Hiroshi Han, sulla sua squadra, sui criminali che dovevamo mettere al muro, ma che ora sembravano scomparsi, celati sotto gli occhi di tutti.

Lo vidi prepararsi, indossare lo smoking, le scarpe lucide. Poi inaspettatamente mentre mi stavo aggiustando il colletto della camicia, lo vidi avvicinarsi. Teneva un polso teso, l’orologio argentato brillava col riflesso della luce.

Mi toccò la spalla, mi voltai.

«Che c’è?»

«Mi allacci l’orologio?»

Mi ritrovai disarmato davanti a quella richiesta. Credevo che fosse arrabbiato con me, che non mi potesse sopportare, invece se ne usciva con affermazioni simili, il viso completamente neutro.

«Ohi.»

Avevo sbattuto le ciglia, mi ero riscosso. «Sì.»

Glielo avevo allacciato con le dita tremanti, irrigidite. Avevo sfiorato il suo polso ricoperto di piccole venuzze verdi, ci eravamo fermati. Per qualche secondo le nostri pelli s’erano toccate e io avevo sentito una scossa così prepotente da strapparmi il respiro.

Eravamo stati vicini tante volte.

C’erano state le missioni, le battaglie, gli spogliatoi, le feste, eppure non  avevo mai sentito la sua presenza così. Si ergeva nella stanza, riempiva le pareti col suo profumo, si prendeva i miei battiti.

Non avevo avuto il tempo di elaborare. Mi ero ritrovato catapultato di nuovo in quel locale, quello con i lampadari di swarovski, i pavimenti di marmo, le persone tirate a lucido. Katsuki mi marciava a fianco, stretto come un pinguino nel suo completo d'alta sartoria, il fiato irregolare, le spalle rigide. Non ero stato in grado di dire nulla, non l'avevo rassicurato, non avevo rinfrancato me.

Ero troppo nervoso, impaziente, per farlo.

Il comportamento di lui mi aveva messo l’agitazione addosso. Mi muovevo a scatti, come un vecchio film in bianco e nero, con le suole delle mie scarpe eleganti e la cravatta troppo stretta.

La sala mi stava stretta, gli abiti mi stavano stretti. Katsuki faticava a proseguire, io mi aggrappavo alla sua ombra. Cercai di concentrarmi sulla missione, sul nostro obiettivo finale. Dovevamo trovare Hiroshi Han, scoprire cosa stava tramando, incastrarlo con le mani nel sacco.

Ecco l’obiettivo.

«Messieurs, posso aiutarvi?»

Fummo frenati dal tono seccato del cameriere. Sollevai il viso, feci per rispondere, ma Katsuki mi precedette.

«Siamo qui per il privé di Leni.»

Mi voltai a guardarlo, scioccato. Anche il cameriere dovette accorgersene, ma subito si riprese e tornò a fronteggiare Katsuki. Tuttavia si fece più cordiale, più sottomesso. Sfoggiò un grosso sorriso, accampò le mani dietro la schiena.

«Vogliate seguirmi, prego.»

Facemmo come chiese. Gli stammo alle calcagna, aggirammo qualche tavolo, scivolammo su quelle mattonelle nere, lucide più dell’oro.

Ci lasciò nei pressi di un finestrone che dava sull’elegante cortile. Il tavolino rotondo, le panche che lo circondavano, colli e vestiti bordati di perle. Il cameriere aggirò il tavolo, si fermò a sussurrare qualcosa a quella che, intuii essere Leni. Lei annuì e gli fece un cenno per congedarlo. Nel passarci accanto, lui sorrise solo a Katsuki.

Leni, una graziosa rampolla di chissà quale profilo Instagram, ci raggiunse, sfoggiando il collier di diamanti che portava al collo. Nell’intravedere Katsuki, fece scivolare fuori i suoi canini come avrebbe fatto una volpe, si accostò a lui, gli sfiorò una spalla.

Mi tornò in mente l’attimo in cui quello stesso pomeriggio era stato lui a sfiorare me. Le sue belle mani lunghe addosso a me. Lei poteva raccogliere qualche briciola, ma non avrebbe mai conosciuto la sensualità di Katsuki, il suo tocco vibrante come la corda di una chitarra.

Eccola lì, preziosa nel suo abito firmato, biondissima, sorridente. E lui si lasciava toccare. Non seppi perché, ma l'idea che loro avessero condiviso qualcosa, mi diede la nausea. La osservai cianciare qualcosa, un altro tocco, un sorriso più esteso. Ricordai improvvisamente di averla già vista. Era la ragazza della volta scorsa. Quella che sorrideva a Katsuki, che provava a trattenerlo. Era lei. E lui sapeva il suo nome ed era riuscito ad accaparrarci un posto a quel tavolo.

«Sono felice che tu abbia accettato il mio invito. Chi è il tuo amico?»

Ricalcò bene sulla parola.

Amico.

Non fratello, compagno, partner. Amico. Eppure, Katsuki e io, non eravamo mai stati amici. Non c’era mai stato un periodo della vita in cui io e lui avevamo preso a definirci così. Sentirlo uscire dalle labbra pittate di lei mi fece percepire uno strano dolore.

Chi era quella donna? Che voleva da noi?

Non mi piaceva il suo sorriso, lo trovavo rigido, artefatto. Una che sorrideva falsamente e posava le sue lunghe dita, dalle unghie fresche di manicure su Katsuki, sul mio Katsuki, solo per attirarne l'attenzione.

Mi dava sui nervi.

«Oh lui è-»

«Io sono il suo koi no yokan.» dissi, rapido. E le feci uno di quei sorrisi che non si scordano.

Mi godei l’espressione smarrita che era apparsa sul suo viso, con le ciglia all'ingiù, le labbra aperte.

Koi no yokan. Anima gemella.

L'avevo affondata con poche parole e perfino Katsuki faticava a riprendere a parlare.

Ma poi sorrise. Strinse le dita all'altezza del grembo, corrucciò il naso.

«Scusate, non avevo capito che foste fratelli.»

«No, non siamo-»

«Sì!» asserì bruscamente Katsuki, si fece avanti e sciorinò una di quelle rare, rarissime, smorfie che gli scoprivano i denti. Mi gettò un'occhiataccia, un silente rimprovero. Annuì a lei. «Siamo fratelli. Un po' diversi, ma andiamo molto d'accordo. Ecco che intendeva.»

Lei parve rincuorata da quella conferma. Si sciolse in un altro sorriso, fece gli occhi dolci.

«Ma certo.»

Ci condusse al tavolo. C'erano alcuni suoi amici, - figli di importanti imprenditori, di impresari, di colossi delle auto, del cotone, della moda - che ci presentò, o meglio, li presentò a Katsuki. A me si limitò solo a lanciare occhiate che di gentile non avevano nulla.

Sedemmo, sorseggiando drinks in bicchieri costosi, lei con le gambe accavallate, stretta a lui.

Sbuffai. Katsuki si era fissato col fatto che Leni avrebbe avuto le informazioni che ci servivano. Cinguettava, stava al suo gioco, le faceva portare nuovi bicchieri ogni volta che finiva di bere. A me aveva lasciato il solo compito di girarmi i pollici. Ma io non ero fatto così, Katsuki lo sapeva e lo sapevo anch’io. Sedetti, buono per un po'. Non conoscevo nessuno a quel tavolo, i pochi che mi avevano rivolto la parola non riuscivano a coniugare più di due verbi nella stessa frase. Mi annoiai presto. Il mio vicino di posto se ne accorse. Era un ragazzo biondino, senza barba, con un filo di snobismo negli occhi.

«Prima volta qui?»

«Eh? No, no.»

«Bevi, ti aiuterà. Passa più in fretta se bevi.»

Gli sorrisi. Presi una sorsata dal bicchiere accanto al suo. Il sapore amarognolo del Midori mi fece male alla gola. Presi un altro goccio, un altro ancora. Mandai giù, ripresi a guardarlo.

Mi avvicinai, abbassai il tono. Volevo che riconoscesse il bisogno nella mia voce, che mi credesse. «Senti, non è che conosci qualcuno che possa darmi quella roba? Ne ho proprio bisogno stasera.»

Lui mi guardò perplesso. Qualche secondo in cui il mio cuore prese a tremare così forte che ebbi paura che potesse esplodere. Attorno, tutti parlavano, a nessuno importava di noi. Poi, tutti i rumori tornarono a farsi forti, lui sorrise, chinò il capo.

«Ti capisco amico, ma sai, qui è difficile trovare roba di qualità.» ammise, prese un sorso dal mio bicchiere - mi appuntai di ordinarne uno nuovo - e risollevò il viso. «Comunque potresti chiedere a Tani, lui se ne intende e ha le giuste conoscenze.»

«Tani?»

Sollevò il braccio, mi indicò il ragazzo che stava all'estremità del tavolo.

«Quello là. Dì che ti mando io.»

«Grazie mille, ehm…» mi bloccai, attesi che mi venisse in aiuto.

«Arito.»

Annuii. «Arito. Grazie.»

«Nessun problema, sembri un tipo apposto.»

Gli sorrisi, poi scavalcai fino a raggiungere il ragazzo che mi aveva indicato Arito.

«Tani?» chiamai. Lui si voltò lentamente, stava parlando con un cameriere, usava una voce bassa, un tono gravoso.

«Che vuoi?»

«Mi manda Arito.»

Scosse la testa, un sorrisetto stampato sulle labbra pallide. Aveva occhiaie così profonde che ti veniva voglia di riempirle con un dito.

«Arito è un figlio di troia.» cianciò, e ridacchiò divertito. «Però sono a tua disposizione.»

«Grazie.»

«Quelle lasciamole a Dio.»

Annuii. Non sembrava un tipo di troppe parole. Mi parlò qualche secondo delle cose che possedeva, degli effetti collaterali, - solo perché mi aveva mandato Arito - spiegandomi le conseguenze del sovradosaggio.

«Per caso conosci Han Hiroshi?» sparai di botto. Sembrava uno che non aveva voglia di giochetti. Pensai che mi avrebbe aiutato, invece, sbiancò tutto insieme e mi guardò per la prima volta.

«Che dici? Lo sai che stai dicendo almeno? Lui non è uno alla portata di tutti, ragazzino. Levati dalla testa di poterlo anche solo sfiorare. Per Dio, quanto sono cadute in basso queste nuove celebrità… Hiroshi Han è-»

Una mano si posò sulla sua spalla, un paio di dita gli strinsero la giacca. Tani s’irrigidì.

«Ti prego, non dire di nuovo che sono fuori dalla sua portata!» scherzò la voce. Un tono liscio, cremoso. Mi immobilizzai anch’io, il tempo di sollevare lo sguardo che Tani lo aveva già abbassato.

«Mi dispiace molto, signore. Non volevo-»

«È tutto ok.» chiarì lui. La sua giacca nera pareva cucita direttamente sulla sua pelle, guizzava ad ogni movimento dei muscoli. «In cambio, puoi presentarmi questo splendido ragazzo?»

Solo allora mi resi conto che si stava riferendo a me. E non per l’aggettivo, ma per la mano. Si era protratta su di me, posandosi sulla spalla. Mi toccava, senza stringere. Fui rapito dalle curve che faceva il suo collo, il mento dritto, la mascella pronunciata.

Un uomo. Grande, grosso. Con il naso un po' rotto, le guance liscissime, le sopracciglia spesse.

«Izumi.» proruppi di colpo. Non potevo permettere che fosse Tani a presentarci, non sapeva neppure il mio nome. «Sono Izumi, e lei è..?»

Gli tesi la mano. Il palmo mi tremava, il polso non riusciva a reggere la pressione. Avevo capito, lo avevo riconosciuto, ma necessitavo di sentirglielo dire.

«Hiroshi Han.»

Me la strinse. Un sorriso perlaceo gli ornava la bocca. Aveva una presa forte, decisa. Solo quando mi lasciò andare mi resi conto del silenzio che era piombato attorno a noi.

Avevamo gli occhi di tutti addosso.

«Posso sedermi qui con te, Izumi?»

«Io…» balbettai, deglutii a corto di fiato. La missione, mi ricordai, la missione, Izuku. Annuii. «Certo.»

Hiroshi sorrise. Tani si alzò e cedette il suo posto senza che neppure gli venisse chiesto. Hiroshi lo ringraziò con cenno del capo e chiamò il cameriere con la mano. Mentre lui era impegnato a chiedere da bere, il mio sguardo saettò sui commensali. Tutti rigidi, tutti tesi come corde.

Hiroshi pareva esercitare su di loro una pressione tale da farli stare su con la sola forza della presenza.

Gli occhi mi caddero su Leni. Era furiosa, i tratti del viso oscurati da una rabbia cieca che imperversava sotto le sue sopracciglia sottili, tra le rughe della fronte alta. Sorrisi tra me e me, lieto di quella vittoria.

Ecco chi aveva il coltello dalla parte del manico, adesso.

Ma poi lo vidi. Lo vidi e il mio cuore prese a battere a un ritmo anormale. Katsuki sedeva come se fosse sul punto di ribaltare il tavolo con tutte le posate. Teneva le mani sulla tovaglia, gli occhi aggrottati, le dita tremanti, strettissime. Riconobbi in lui qualcosa del ragazzino che era stato e mi misi paura, mi allarmai. Tutta quella rabbia, tutto quel dolore. Non mi ero mai capacitato del fatto che il possessore fosse proprio lui. Sembrava un potenziale distruttivo anche per il migliore dei martiri.

I nostri occhi si incrociarono.

Lui smise ogni forma di ostinazione. Mi guardò e sembrò supplicare di alzarmi, di raggiungerlo. Avrei dovuto farlo probabilmente, una parte di me non voleva altro che accontentarlo, fare come mi diceva. Sorridergli e rassicurarlo. L’altra temeva quella visione, si sentiva riportato ad anni prima, quando Katsuki era il mio carceriere personale e quella prevalse.

Mi girai verso Hiroshi, accavallai le gambe.

«Izumi. Bel nome, significava Primavera, vero? È azzeccato, direi. Tu sembri proprio una bella Primavera.»

«Grazie.»

Presi un sorso del mio drink, non riuscivo a nascondere il tremore delle mie dita. Non facevo che guardarmi attorno, quasi temessi di vedere spuntare improvvisamente  un mostro di cemento dalle pareti.

«Cosa posso fare per te, Izumi?»

Aveva accavallato anche lui le gambe, ma con un gesto così naturale ed elegante che mi sentii a disagio. Io che nonostante gli anni restavo impacciato e tremante, perfino davanti a un criminale.

Hiroshi pareva diverso.

Aveva qualcosa nello sguardo, nella pelle, che non sembrava quello di un villain. Ne avevo conosciuti a bizzeffe di mostri, ma lui pareva un civile, qualcuno di cui non aver paura. Perfino il mio quirk rifiutava di attivarsi, il mio intero corpo non lo riconosceva come un potenziale nemico.

«Io… io stavo cercando te.» dissi stupidamente, le parole mi uscivano dalla bocca e non riuscivo a dargli consistenza. Lo sguardo di Katsuki mi stava bucando una guancia e temevo che presto avrei iniziato a perdere sangue e saliva sotto gli occhi di un ignaro, Hiroshi.

Lui si fece sfuggire un sorrisetto che nascose con il calice. «Sì, lo avevo… diciamo, intuito.»

Mi prostai in una smorfia di scuse, abbassai gli occhi.

«Mi ricordi tantissimo una persona, Izumi. Mi piaci.»

Fui colpito da quell'affermazione, sollevai gli occhi, lo scrutai, cercai prove di menzogna tra i suoi tratti, come se le bugie potessero nascondersi tra le rughe. Carne e sentimenti è meglio non mischiarli, mi diceva sempre mia madre, temevo, ora più che in passato, che avesse terribilmente ragione.

Riacquisii sicurezza, mi drizzai con le spalle, assunsi l’atteggiamento che tenevo in battaglia, nelle conferenze stampa.

«Hiroshi. Posso permettermi di chiamarti così?»

«Chiamami come vuoi, Izumi.»

Che nome vicino al mio mi ero scelto.

Ogni volta che lo sentivo pronunciare il mio cuore perdeva un battito. Tremavo all'idea che lui scoprisse chi ero, quale ruolo ricoprivo. Lo stavo ingannando, proprio io che odiavo i traditori e i bugiardi. Negli ultimi tempi, avevo scoperto di esserne circondato e si sa, la cattiva influenza è peggio di una malattia.

Me l'avevano attaccata.

«Hiroshi.» ripetei, scandendo le sillabe. Ora i soli rumori che si udivano, venivano dai bicchieri, dai calici che venivano posati sui tavoli, dal chiacchiericcio lontano qualche tavolo. Eppure, gli occhi degli invitati, - della sala stessa, con le sue pareti brillanti - erano puntati addosso a noi. «Posso rivelarti un segreto?»

Mi ero fatto più vicino. Sporto sulla sedia, metà fondoschiena fuori, le gambe che sussultavano di tanto in tanto. Avevamo i visi vicini, i fiati che si mischiavano.

«Sì, dimmi pure.»

Fece tintinnare il suo bicchiere. Il Barbera rosso che aveva ordinato, ruzzolò contro le pareti trasparenti del calice. Gli schizzi parevano sangue. Deglutii.

«Ti ho visto la volta scorsa. Quando hai salvato quelle due donne.»

Hiroshi non mosse un muscolo. Per un attimo credetti che le mie parole potessero averlo sfiorato e basta, ma poi - tra il silenzio generale - lui scoppiò a ridere. Si chinò appena in avanti, si sorresse con un braccio allo schienale della panca. Lo guardai mentre si contorceva dagli spasmi della bocca, del ventre, mentre cacciava in aria una risata roca, di pancia.

Quando risollevò il viso, i suoi occhi luccicavano.

«Ah sì?» mi chiese, accompagnando le parole ad un sorrisetto buffo. Gli era comparsa una fossetta tra guancia e labbro. «E cosa ne pensi?»

«Penso che tu sia stato coraggioso.»

«E basta?»

«No, anche un po' stupido. Un civile non dovrebbe immischiarsi negli affari della polizia, degli heroes

Mi resi conto solo dopo averlo detto di ciò che comportavano le mie parole. Che ne sapeva un comune civile di quello che prevedeva la cattura di un villain? Mi riscossi subito, sfoggiai un altro sorrisetto, risposi alla sua espressione sorpresa con una lieve pacca sul braccio.

«Ehm, è che sto studiando per entrare nella polizia.» affermai. «O almeno mi piacerebbe, ma… non ho le conoscenze giuste.»

Hiroshi prese un altro sorso dal suo calice, annuì. «Mi dispiace, Izumi. Magari, posso darti una mano? Non sono granché come amico delle guardie, ma posso contattare le giuste conoscenze e lasciarti via libera. Che ne dici?»

«Io… davvero, non preoccuparti. Dicevo così per dire. Studierò, vedrò cosa riesco a fare da solo.»

«Sei molto intelligente, sai? Anche un po' sfacciato, ma intelligente.»

Abbassai il viso, colpito da un rossore intenso alle guance. Mi era uscito spontaneo comportarmi in un certo modo, ma con lui pareva diverso. Le parole non avevano filtri, pensavo e dicevo, dicevo e pensavo. Aveva qualcosa di magnetico, mi faceva restare ipnotizzato ogni volta che mi posava gli occhi addosso. Ammirai lo sprazzo del tatuaggio che gli fuoriusciva dal colletto della camicia. Un pezzo della coda di un drago, colorata di nero. Con spuntoni, pezzi di scheletro, di armatura. Era curioso. Perfino le sue braccia, le spalle ampie come armadi, i muscoli tesi sembravano incapaci di uccidere.

«Ci stanno guardando tutti.» mormorai, più tra me e me, che per lui.

Ma Hiroshi mi sentì comunque e si fece sfuggire un altro sorrisetto.

«E lasciali guardare.»

«Ma cosa staranno pensando? Ho sentito parlare di te, devo essere onesto. Ti cercavo perché ero curioso di vedere come eri fatto dal vivo. L'ultima volta ho visto poco di te, stavolta mi è parso di perdermi. Non so chi tu sia, Hiroshi Han, ma sei intrigante.»

Hiroshi si passò una mano tra le ciocche corvine, la bocca schiusa, le labbra sospese. «Sei proprio intelligente, Izumi. Carino e intelligente. Posso avere il privilegio di chiederti se ho soddisfatto la tua curiosità?»

Mi si fece più vicino. Rivolto verso di me, col calice di vino rosso in mano, le gambe tornate giù, leggermente divaricate. Mi osservava con i suoi piccoli occhi affilati, il viso liscissimo.

«Sì.»

«Sì, cosa?»

Mi fece scivolare una mano lungo l’attaccatura tra spalla e collo, mi tesi ma lo lasciai fare.

«Sì, hai soddisfatto la mia curiosità. Sei… un tipo senza eguali.»

Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. Mi sentivo calamitato a lui come se lui mi stesse soggiogando con la sola forza del sorriso. Soggiogando. Sorrideva, scopriva i denti, sussurrava qualcosa che non capivo.

Una mano si posò su quella che lui teneva sul mio collo. Una presa violenta, senza premure. Gliela spostò lontano, il mio corpo si liberò del peso del suo, sbattei le ciglia.

«Puoi parlargli anche senza toccarlo.»

Riconobbi quella voce, il suo profumo. Volevo guardarlo ma non ci riuscivo. Fu solo quando Hiroshi lasciò andare il mio sguardo che potei tornare a respirare. Mi sentii liberato da una specie di legame. Portai le dita al petto, mi massaggiai il torace.

«Stavamo parlando di cose personali.»

«Non mi sembra che tu lo conosca al tal punto da permetterti una simile confidenza.»

Sollevai il viso. Katsuki aveva serrato la mano alla mia spalla, mi traeva a sé con una presa che, a tratti, mi faceva male. Ma non volevo che mi lasciasse andare. Volevo che mi tenesse stretto, che mi tenesse saldo alla realtà. Balzai in piedi. Sotto gli occhi esterrefatti di Hiroshi e quelli soddisfatti di Katsuki.

«Izumi.» mi richiamò Han, tese la mano e sorrise di nuovo.

Katsuki mi trattenne.

«Dobbiamo comunque andare.» ringhiò. «Izumi

«Un attimo.» lo pregai. Lui mi scrutò innervosito, mi lasciò andare con un piccolo sbuffo, ma restò attaccato a me.

«Hiroshi mi dispiace, mio fratello è un po'... irruento.» mi scusai, gettando un’occhiata al mio partner. «Non sopporta che gli altri mi tocchino troppo, devi scusarlo.»

Hiroshi posò il bicchiere sul tavolo. Si rimise a sedere composto. Gli occhi dei commensali erano ancora su di noi, come se fossimo una fiction di gran successo.

Li stavamo intrattenendo.

«Nessun problema, Izumi. Anch'io avrei da ridire se qualcuno toccasse mio fratello. Specie se fosse carino come te.»

«Ti ringrazio.»

Mi prese la mano. Un tocco gentile che di rude o violento aveva poco o niente. Sorrise ancora, ma stavolta più lieve. Lo fece mentre si chinava con la bocca e posava le labbra sul dorso della mia mano.

«Spero di rivederti presto, Izumi.»

Per un po' restai smarrito. Quel gesto. Un baciamano. Era passato di moda da anni e inoltre, io non ero una signorina.

«Quando vuoi.» aggiunsi infine, ritraendo la mano. La tenni stessa lungo il fianco, come un peso morto.

«Sono qui ogni giorno. Se non mi trovi chiedi di me al cameriere, digli che Hiroshi desidera la tua visita.»

«Grazie.» sbattei le palpebre, mi sentivo compresso in un’illusione, cominciava a girarmi la testa. Katsuki mi circondò la vita con un braccio.

«Andiamo.» soffiò rauco contro il mio orecchio.

Si era innervosito.
Annuii.

«Konnichiwa, Hiroshi.»

Lui chinò appena il capo, congiungendo le mani, rispose al mio saluto.

Katsuki non disse neppure una parola.

Mi trascinò verso l'uscita a passo di furia. Faticai a stargli dietro e quando l’aria calda ci investì, mi venne da boccheggiare. Lo pregai di fermarsi, di rallentare, ma non mi diede ascolto. Fu solo quando raggiungemmo il parcheggio che mi liberai della morsa, con la quale mi teneva contro il suo petto. Lui mi afferrò un polso con rabbia.

«Katsuki.» lo richiamai, allontanandomi con uno scatto. «Smettila, mi fai male.»

Le mie parole sembrarono colpirlo più dei gesti. Mi lasciò andare con uno scatto e io presi a massaggiarmi il polso rossastro. Era buio, tutt’attorno si spargeva una distesa di auto. Metallo, plastica, vetri. I lampioncini mi sparavano la luce negli occhi, la Luna sembrava inesistente sotto le nuvole.

«Che ti prende?!»

«A me? Che prende a me?!» sbottò. Sotto la debole illuminazione che ci circondava, Katsuki mi pareva fatto di marmo. Rigido e imponente come il pavimento che c’era in quel locale. «Eri tu quello che si strusciava addosso a quel villain di merda. Che si faceva toccare, e-»

Sbottai in una risata amara. «Io! Io? Davvero, Katsuki? Perché a me sembrava che fossi tu quello che sorrideva a quella bionda, che gli faceva gli occhi dolci-»

«È diverso, cazzo! Io… io… stavo cercando di trovare il modo per scoprire di più, per sapere dove si trovavano gli altri villain! Tu stavi solo filtrando con quel criminale schifoso!»

«E in quale modo sarebbe diverso da quello che facevi tu?!»

«Oh, magari perché io non permettevo a quello di toccarmi dappertutto.»

«Io non gli ho permesso di toccarmi dappertutto!» strillai, facendo suonare il silenzio come un masso sulle nostre teste. «E poi che cazzo t'importa?! Non sono il tuo ragazzo, non hai motivo di rimproverarmi.»

Le mie parole lo scossero più di quanto diede a vedere. Si allontanò di qualche passo, mi diede le spalle, prese a passarsi nervosamente le mani tra i capelli, scompigliandoli, tirandosi le ciocche. Diede un calcio a un auto, quella cigolò e per un attimo il mio cuore si fermò. Se fosse partito l’allarme… ma quella non fece nulla se non miagolare di fastidio, con il metallo che si piegava e Katsuki che sbuffava.

Poi si voltò. Mi raggiunse in poche falcate. Nei suoi occhi rossi c’era un’inquietudine che mi dava i brividi. Mi afferrò dalle spalle, mi scrollò con forza.

«Smettila di comportati da cretino, Izuku. Lo capisci o no che questa missione è pericolosa? Eh? Lo capisci che sei il Number One, cazzo?! Lo capisci che se ti accadesse qualcosa, se ti facessi davvero male, se tu… se tumorissi, l’intero paese ne risentirebbe?! Lo capisci o no?!»

«Lo so a cosa vado incontro.» ribattei calmo. Le sue mani mi stavano addosso come mollette, le sentivo pizzicarmi la pelle, eppure non mi scrollava, non mi faceva male. Era il suo tocco e l'avrei riconosciuto tra mille. «Lo so, Katsuki. Ma tu non puoi fare così ogni volta che mi avvicino a un pericolo. Non puoi arrivare di botto, disfare tutto il lavoro fatto fino a prima, non puoi…» ripresi fiato, socchiusi gli occhi. Quando risollevai lo sguardo, mi stava fissando senza nessuna intenzione di intervenire. «Non puoi fare queste scenate. Noi siamo partner. Se io mi metto in pericolo lo devi accettare. Lasciami fare, lasciami-»

Mi lasciò andare di scatto. Le mani gli arrivarono di nuovo al viso, si tirò indietro le seriche ciocche che gli erano cadute sul viso.

«Non posso farlo.»

Sbarrai gli occhi. L'aveva detto con così tanta calma che mi ero immobilizzato.

«Cosa? Che vuol dire che non puoi-»

Mi si fece vicino. Le punte delle nostre scarpe lucide si scontrarono. Mi era così attaccato che mi faceva venire il batticuore. Mi parlò guardandomi negli occhi, come non faceva da quando eravamo bambini. «Vuol dire che non posso, Izuku. Non posso. Smettila di chiedermelo. Non lascerò mai che tu ti metta in pericolo, accettalo. Se non ti sta bene prendi la strada e vattene, perché finché io sarò accanto a te non permetterò a nessuno, - uomo o donna - di toccarti, di sfiorarti, di respirarti accanto.»

«Katsuki…»

Eravamo soli, in un parcheggio alle spalle di uno dei locali più alla moda di Tokyo, con le sole ombre della notte a farci da testimoni. Lui era così vicino a me che mi faceva girare la testa, mi mandava a fuoco dentro.

Che voleva da me? Perché non mi permetteva di lavorare?

Perfino Shoto mi avrebbe lasciato fare. Lui si fidava, si interessava poco a queste cose. Non era mai stato geloso di me, ma Katsuki… Katsuki si comportava come se lo fosse. Come se fosse geloso anche solo degli sguardi che quell’uomo mi lanciava. Dubitai che fosse perché ci teneva, era senza dubbio infastidito e basta.

Si separò da me, fece scivolare una mano nelle tasche dei pantaloni e ne trasse fuori la chiave della macchina a noleggio. Si incamminò, senza voltarsi a guardare se lo stessi seguendo. Fu solo quando aprì lo sportello della BMW che avevamo affittato, che ebbi il coraggio di fargli quella domanda.

«Perché?»

Lui si fermò. Una mano stretta allo sportello, il corpo rivolto alla strada. Sì volse a guardarmi, la solita trascuratezza nei gesti, lo sguardo irrigidito.

«Perché, cosa?»

«Perché non puoi lasciare che mi tocchino, che mi sfiorino, che mi respirino addosso? Perché, Katsuki?»

Lo vidi abbassare lo sguardo, non mi sfuggì il lampo di dolore nelle iridi.

«Sali in macchina.»

«Dimmi perché.»

«Sali in macchina, Izuku.»

Mi impuntai. Non gliel’avrei data vinta. Ero testardo, capriccioso, lui lo sapeva. Era per questo che si era innervosito tanto.

«Perché? Dimmi perché non puoi lasciare che qualcuno mi tocchi, che io giochi con altri e che-»

Il rumore del suo pugno che si abbatteva contro lo sportello della macchina mi interruppe. Vidi guizzare il sangue, una crepa nella sua pelle di ceramica.

Accorsi subito. Lo raggiunsi, gli presi il palmo tra le mani, notai il taglio che gli apriva la carne.

«Guarda che ti sei fatto. Fermo, fammi prendere qualcosa per-»

Non mi stava a sentire. Mi prese il mento con la mano sana, me lo tirò su, contrapposto al suo.

«Perché non sono io. Perché se qualcuno ti tocca, ti sfiora, ti respira addosso, il mio cervello si fonde. Non chiedermi di lasciarti stare, Izuku. Non ne sono capace.»

Non riuscii a trovare le parole per ribattere ancora. Lo lasciai salire in auto. Gli fasciai il palmo alla bell'è meglio, insistette per guidare e non osai contraddirlo. Ero stanco, colmato dalla sua risposta, dal modo in cui mi aveva guardato. Mi lasciai sprofondare nel sedile, lui accese l'aria condizionata.

Eravamo quasi arrivati al nostro appartamento quando lui parlò.

«Non lasciare più che quel pezzo di merda ti sorrida.»

«Katsuki, come posso-»

«È il suo quirk. Nella cartella non c’è scritto, ma l'ho capito appena l'ho visto. Sorride, ti tocca, intensifica il legame e ti legge dentro. Non lasciare che ti sorrida se non vuoi che il nostro piano vada a farsi fottere.»

«Cosa? Come hai fatto a…»

Lo sospettavo, ma le sue parole mi avevano dato la conferma finale. Non riuscivo a staccarmi da lui, lo trovavo affascinante, intelligente, colto.

Eppure, sorrideva così teneramente.

«Non fare stronzate. Stai vicino a me e basta. Non serve che ci parli. Lo cattureremo comunque.»

«D’accordo.»

Sorpresi sia lui che me stesso con quell’affermazione. Avevo passato la serata a negare ogni sua richiesta, ma ora di mia spontanea volontà gli davo ragione. Per qualche secondo parve perplesso.

Sterzò verso una via secondaria, premette la frizione.

«E io e te non siamo fratelli. Non potremo mai esserlo. Tantomeno amici.» dissi, spezzando il silenzio. L’interno dell'automobile era fresco, la strada deserta. Le insegne a neon erano ancora accese e riflettevano sul parabrezza scure luci rossastre.

«E che cosa vuoi che siamo?»

Non risposi. Lui svoltò verso il centro della città, percorse la strada che portava ai parcheggi.

«Poi lo stronzo sono io.» bofonchiò mentre accostava al marciapiede.

Non replicai.



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Angolino autrice:

Katsuki ma lo vuoi ammettere o no? Sei GELOSO. Stop. Punto.

E anche tu Izuku.

Punto.

Fatemi sapere nei commenti se il capitolo vi è piaciuto! Vi aspetto!

A domani per il prossimo,

-Lilla





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