Capitolo 12
- Katsuki e Shoto -
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Salendo le scale che portavano al nostro appartamento, non riuscivo a levarmi dalla testa il pensiero della cena di Katsuki. Se avesse mangiato o no. Se stesse bene, se lo avessi ferito con le mie parole - anche se l’idea di ferirlo con la lingua o con i gesti era ridicolmente ambiziosa. -
Salii gli ultimi gradini in preda ad un’angoscia nera. Cosa stava facendo? Dall’appartamento non veniva nessun rumore se non quello leggerissimo del condizionatore sparato a palla. Avvicinai l'orecchio alla porta, mi misi in ascolto. Non volevo sorprenderlo. Non so in cosa, ma non volevo. Ero quasi sul punto di annunciare la mia presenza, quando il rumore di un portone che si chiudeva mi fece sobbalzare.
«Oh?»
Mi girai di scatto, i nervi tesi, il One For All già in allerta. Davanti a me figurava un ragazzetto basso, stretto in un paio di pantaloncini grigi, scarpe lunghe come scialuppe, capelli arruffati. Mi scrutò come se non avesse mai visto un essere umano e infine riportò lo sguardo sulla porta che aveva - dedussi - appena sbattuto.
«E tu chi sei?» mi domandò, ficcandosi un paio di chiavi in tasca.
«Potrei farti la stessa domanda.»
«Io abito qui da quindici anni e non ti ho mai visto.» si difese, inclinando la testa di lato. Era basso, troppo basso per essere un ventenne. Lui dovette accorgersi del mio sguardo perché subito assunse una posa attenta, Incrociò le braccia al petto e corruccio le sopracciglia. «Cosa c’è?»
«Quanti anni hai?»
«Quindici, quasi sedici.»
Mi sorpresi a pensare che alla sua età io ero molto più basso, più magrolino, meno determinato nei movimenti. In lui c'era qualcosa che attraeva lo sguardo.
Forse in viso, nei tratti. M'inquetava. Era come se nelle forme gli si deformassero i lineamenti. Sbattei le palpebre, riprovai a metterlo a fuoco.
«Non hai risposto alla mia domanda.» mi disse, senza troppi giri di parole, interrompendo i miei tentativi. «A me non piacciono gli sconosciuti.» precisò, guardando altrove.
«Sono nuovo.» ammisi, scrollando le spalle.
Lanciò un’occhiataccia alla mia maglietta madida di sudore e risalì fino ai capelli tutti appiccicati alla fronte.
«E da dove vieni? Che lavoro fai?»
Mi sfuggì una risata, ma di un sorriso contenuto che lo fece scattare ancora più sulle sue.
«Cosa c’è da ridere?!»
«Scusami.» bofonchiai, portandomi una mano davanti alla bocca. «Ma non mi hai neppure chiesto come mi chiamo.»
«Ah? E che me ne importa? Tanto qui sono tutti di passaggio. Io compreso.»
Lo guardai per un po'. Non riuscii a mascherare la sorpresa e lui la riconobbe. Si mosse verso di me, fece tintinnare qualcosa che aveva in tasca, chiavi immaginai, mi si parò davanti con un cipiglio che mi ricordò Katsuki.
«Stai sorridendo di nuovo. Cos’è ho scritto pagliaccio in faccia?»
«Mi ricordi una persona che conosco.» risposi di getto, passandomi una mano sulla nuca. «Soprattutto nei modi.»
«Stai dicendo che sono un cafone?»
Il clangore di una serratura, una chiave che scatta e una mano che si protaeva in mia direzione. Mi sentii afferrare dal polso e prima che potessi attaccare, il suo profumo m’era già arrivato al naso. Stetti buono solo quando i miei nervi si furono rilassati.
«Sta dicendo che devi farti i cazzi tuoi.» disse, il solito tono burbero.
Il ragazzo restò a bocca aperta. Lo vidi sbattere le ciglia su e giù, pensando a cosa dire, ma prima che potesse ribattere, Katsuki mi aveva già trascinato in casa e si era richiuso la porta alle spalle. Quella poverina aveva gemuto e aveva fatto tremare la parete. Immaginai che la casa non sarebbe durata tanto con noi due dentro.
«Che modi sono?» mi sfuggì dalla bocca. Mi aveva premuto ancora una volta contro il muro, incurante delle mie ossa. «Sei un… un… selvaggio!»
«Sta’ zitto, tu non sei tanto meglio.» asserì, ignorando del tutto i miei tentativi di liberarmi. «Dove cazzo sei stato? Sei fradicio.»
«Non-» socchiusi gli occhi, sospirai. Non volevo litigare ancora, ero stanco di farlo, eppure, ogni volta che Katsuki apriva bocca, le sue parole sembravano scatenare in me un uragano. Finivo per travolgere entrambi e urlarci addosso per giorni.
«Ho camminato un po'.» tagliai corto.
Per smaltire la rabbia che mi stava logorando e che tu mi hai causato, ma questo evitai di dirlo.
«E dove? Sotto il sole delle Maldive all'una?»
«Smettila.»
Incrociai le braccia al petto, lo guardai male. Non volevo, non potevo litigare ancora con lui. Le nostre discussioni mi sfinivano, mi creavano un casino dentro che non sapevo più come mettere in ordine. Prendevo i pezzi e provavo a collocarli, ma quelli non congiungevano e così cercavo come un disperato di crearne altri, ma nessuno avrebbe potuto prendere il posto di un altro.
«Mentre “passeggiavi un po'”, ha chiamato il tuo caro Shoto.» disse, ma quasi con un tono di rassegnazione.
Mi si spalancò la bocca. «Cosa? E che cos’ha detto?! Perché ha chiamato te?»
«E io che cazzo ne so?» latrò, gettandomi un’occhiata di sufficienza.
«Non hai risposto?»
«Gli ho detto di andare a farsi fottere. Lui, la sua agenzia, e pure la tettona.»
«Katsuki!»
«Falla finita.» sentenziò, accompagnandolo con una smorfia in viso. «Corri a richiamarlo ora.»
Ma già mentre lo diceva aveva posato una mano sulla parete, il palmo premuto alla vernice, il petto che si alzava e abbassava con impeto. Non mi guardava più. I suoi occhi erano concentrati sulle dita che si era serrato attorno alla maglietta, all'altezza al petto. Ansimava, a bocca aperta, con gli occhi socchiusi e si teneva il torace come se dentro ci fosse un mostro che non volesse far uscire.
Allungai una mano, la protesi verso il viso, ma lui si ritrasse.
«Che hai? Ti senti male?»
«S-sto bene.»
«Sei pallido.»
«Ho solo caldo.» biascicò, ma con una voce roca, lontana, come se stesse soffiando attraverso un sacco e non riuscisse a farsi sentire.«Lasciami stare.»
«Non dire sciocchezze. Non ti lascio mentre stai così.»
Lui scivolò a terra, sospirando. Cadde sulle ginocchia mentre frenavo l'impatto della caduta, tenendolo dalle spalle. Si sorresse alle mie braccia, ma quasi distrattamente, come se non fossi nulla più che un appiglio.
«Merda.» sospirò, continuava a esalare respiri convulsi. «Sei un testardo del cazzo.»
Non replicai. Portai una mano su quella con cui lui si stringeva il petto, la intrecciai alla sua. Ero certo che avrebbe lasciato i segni delle unghie sulla pelle, conoscevo quella sensazione interiore. Mi sorpresi nel leggere in Katsuki la stessa cieca disperazione che m’aveva assalito - e che mi assale tutt’ora - tempo prima. Vederlo e sentirlo fragile tra le mie braccia mi rese fin troppo sensibile. Lo soressi con tutta la mia forza e lui continuò a raspare aria tra i denti serrati, a disagio al mio cospetto.
Fu solo quando posai la guancia sulla sua spalla che lui riprese a fare respiri leggeri. Sentivo il suo cuore pompare sotto la carne, pulsava come un forsennato. Lui lasciò andare la presa, sostituii la sua mano con la mia.
Ci posai il palmo sopra, lisciai la stoffa.
Passò qualche minuto. Non feci nulla, ma quando provai a staccarmi, lui mi trattenne a sé. Con forza.
«Va’ meglio?» mormorai, non sapendo come interpretare quel gesto.
Lui non rispose. Non disse nulla. Per un po' immaginai che non volesse parlarmi o che addirittura volesse che lo lasciassi, che gli dessi il suo spazio, ma quando provai ancora ad allontanarmi, mi incastrò tra il suo braccio e il suo petto, cingendomi la vita.
«Non andartene, Izuku.» mi disse con una voce che sembrava spezzata.
Di tutta risposta lo strinsi più forte.
Si lasciò scivolare sul pavimento, il respiro si mischiò all'aria della stanza. La casa sapeva di nitroglicerina, di sudore, di afa.
Sospirai.
«Da quando soffri di attacchi di panico?» gli domandai. Non avrei dovuto dirlo. Lo sentii irrigidirsi tra le mie braccia, i nervi si tesero, le spalle gli si fecero dure come roccia.
«Non sono attacchi di panico.» disse, risentito. Sembrava quasi offeso dal mio interrogativo, ma io lo conoscevo troppo bene. Sapevo di aver ferito il suo orgoglio supponendo direttamente una cosa del genere. Lui che aveva ritenuto l’ansia un’emozione da deboli.
«E cosa sono allora?» chiesi, una punta di sarcasmo nella voce, che tuttavia, a lui non sfuggì. «Respiro accelerato, vista appannata, dolore al petto, sensazione di svenimento, debolezza muscolare-»
«Non sono fottuti attacchi di panico.» esalò, marcando sulle parole. Ma ecco già che le forze gli venivano meno e doveva di nuovo aggrapparmi al mio braccio.
«Non c’è niente di cui vergognarsi, sai? Sono solo emozioni e-»
«Non sono attacchi di panico!» strillò e mi fece sobbalzare. Sollevai la testa e la rivolsi alla sua attenzione.
«E che cazzo sono allora?»
Lui guardò altrove, come se il solo guardare me gli facesse venire le vertigini.
«Ho l’aritmia.»
«La che?»
Lui si volse a guardarmi, senza tracce di ironia.
«L’aritmia, Izuku.» disse, senza doppie tonalità nel tono. Pensai che mai lo avevo visto così serio, se non quella volta sotto il palazzo in pezzi. Gli occhi erano gli stessi, solo un po' più travagliati. «L’aritmia cardiaca. Mi sale la pressione, i battiti. Mi sento male.»
«Ah.» fu l’unica cosa che uscì dalle mie labbra. «E il medico che cosa dice?»
«Che cazzo dovrebbe dire?»
Volevo tempestarlo di domande, chiedergli quando era successo, quando aveva iniziato a stare male, quando aveva iniziato a lasciarsi andare, quando aveva deciso di ricominciare a chiamarmi col mio nome e perché, ma non dissi nulla. E per uno come me che pretendeva sempre una risposta a tutto, fu straziante.
Tornai a posargli la testa sulla spalla, ma stavolta qualcosa tra di noi era cambiato. Non c’era più il clima di prima, non eravamo più tranquilli.
Mi distaccai in fretta, tirai su col naso giusto per spezzare un po' il silenzio. Mi sentivo la gola secca ed evitai il suo sguardo.
Nel voltarmi, sobbalzai. Davanti all’ingresso della cucina, Hachiko ci guardava con i suoi grandi occhi azzurri. Ci scrutava da fermo, con le zampe ben posate sul pavimento e il manto lucido e liscio come una cascata. Doveva essersi accorto che Katsuki non stava bene, ma non si avvicinava né dava cenno di volerlo fare. Stava solo a guardare.
Gli feci cenno di andare da lui, di raggiungerlo, ma Hachiko non mi ascoltò.
«Vieni.» biascicò Katsuki e solo allora il lupo si mosse. Saltellò sulle zampe e si accoccolò contro le cosce del padrone.
Io scivolai in cucina, senza dire nulla. Non sapevo come non ferirlo, perché con le parole finivamo sempre per farci male, così me ne andai e basta.
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Il telefono squillava. Mi tremavano le mani e il suono dentro l'orecchio si spezzava di continuo.
La stanza era buia. Me l’ero rigirata da cima a fondo, senza essere capace di fermarmi. Il nervosismo mi stava distruggendo dentro, così sfogai la frustrazione sul parquet della camera.
Avevo appena raggiunto il comò quando il cellulare smise di squillare e la sua voce mi travolse.
«Pronto?»
Presi un respiro profondo.
«Shoto?» mormorai, la voce mi tremava più delle mani. «Sono Izuku.»
Per un po' non ci fu risposta. Stetti in silenzio e attesi. Dopo qualche secondo la sua voce tornò a spezzare il buio.
«Izuku.» ripeté piano, quasi stesse assaporando le lettere. «Izuku, tesoro mio.»
Bastò quel piccolo nomignolo a far crepare il muro che avevo eretto dentro di me. Sentii le lacrime premere agli angoli degli occhi, un masso in gola.
«Tesoro mio? Shoto hai idea di cosa ho passato in questa settimana?!»
«Izuku-»
«No. Ora parlo io.» sentenzai, sentendo la rabbia mischiarsi alla tristezza. Proprio lui che diceva di amarmi mi prendeva in giro? Katsuki almeno restava coerente. Mi odiava e basta. «Che cos’erano quelle immagini? Fotomontaggio. Davvero Shoto? Non hai saputo orchestrare una scusa migliore? Fotomontaggio. E per lo più riferitomi da Aizawa! Da Aizawa! Hai la minima idea di come io sia stato questi giorni? Di come mi sia sentito? E poi perché cazzo non rispondevi al cellulare?!».
Sapeva che aveva toccato un punto davvero scoperto. Io odiavo dire parolacce, era contro i miei principi e lui mi conosceva abbastanza da sapere che ciò che aveva fatto mi aveva fatto soffrire come un matto. Pretendevo risposte, le pretendevo nell'immediato.
«Izuku, lasciami spiegare, per favore.»
Era calmo. Tranquillo, come se stesse davanti a un villain terribilmente debole e sapesse che gli sarebbe bastato alzare la mano per catturarlo. Shoto era così. Si limitava a trattarti come qualcosa che avrebbe liquidato presto. Mai troppa importanza, mai troppe parole. E se quando ci eravamo messi insieme questo lato del suo carattere me l'ero fatto piacere, ora mi dava solo sui nervi. Non potevo fare a meno di paragonarlo a Katsuki, all'atteggiamento schietto che avrei ricevuto da lui, alle sue parole dirette, brutali. Ma Katsuki per lo meno non mi mentiva, non cercava di comprarmi con le sue paroline dolci. Shoto sì. E all'improvviso la cosa mi faceva impazzire.
«Spiegare?» ribattei, la voce che mi saliva di qualche ottava. «Cosa c’è da spiegare, Shoto? Non rispondi al telefono per una settimana, non mi mandi nessun messaggio, non ti preoccupi se io sia vivo o morto, te ne freghi. E per lo più esci con Yaoyorozu. Con Yaoyorozu! La ragazza di cui non mi dovevo preoccupare!»
Ero furioso. Stavo riversando su di lui tutte le frustrazioni che in quei giorni mi avevano logorato dentro, non volevo altro che fargli sentire quello che sentivo io dal momento in cui, il treno era partito e mi aveva strappato alla nostra quotidianità. Volevo che si sentisse triste, infelice, arrabbiato, almeno un quarto di quanto lo ero io.
«Izuku-»
«No. Non ho finito.» lo interruppi di scatto. Serrai le mani lungo i fianchi, gli occhi mi scivolavano senza metà lungo tutti gli oggetti della stanza. «Tu pensi di essere migliore di me? Credi davvero che solo perché sei il figlio di un hero tu possa essere migliore di chiunque altro? Non è così, Shoto. Non ti è tutto dovuto. Io non sono scontato per te.»
Mi accorsi di aver esagerato nel momento esatto in cui quelle parole mi vennero fuori dalla bocca. Non avrei dovuto dirlo, non avrei affatto dovuto rinfacciargli ciò che per anni lui aveva tentato di non essere, con tutte le sue forze. Ma capivo benissimo perché lo avevo fatto. Io volevo fargli male, volevo ferirlo come lui aveva ferito me. E come fare? Io avevo imparato da lui, era lui che mi si introduceva tra le labbra e mi arrotolava sulla lingua quelle parole, quelle sillabe velenose. Katsuki pesava in ogni mio discorso come un alone. Per quanto provassi a spostarlo, a respingerlo, lui non faceva altro che venir ancora più fuori, più evidente nei modi, nei toni, ora perfino nelle parole. Me ne resi conto con orrore, deglutii e raggiunsi il letto a tastoni. Le gambe mi tremavano e mi pareva di essere stato trasportato in una realtà parallela.
Quando Shoto parlò la sua voce sapeva di astio, di parole non dette, di sangue.
«Non sai quello che dici, Izuku.» mi rimbeccò, stizzito. «Non sei in te. Prenditi il tuo tempo, chiamami quando ti sarai calmato. Non mi importa quanto ci vorrà, ti aspetterò. E poi ti racconterò tutto, ma ora sei di un umore che mi ricorda terribilmente qualcuno con cui non voglio avere nulla a che fare.»
«E perché?» mormorai, con la voce che mi si spezzava.
«Perché, cosa?»
La sua voce attraverso la cornetta mi pareva un soffio, preciso, schietto, troppo moderato per essere vero.
«Perché non vuoi avere a che fare con questa persona.»
Con Kacchan.
«Perché,» iniziò lui con un sospiro, come se si fosse appena ricordato che bisognava respirare per sopravvivere. «Katsuki Bakugo è una persona senza razionalità, senza sentimenti, senza amore per gli altri, neppure per sé stesso. È così concentrato sulla vetta che se incontrasse qualcuno bisognoso di aiuto, lungo il tragitto, lo schiaccerebbe senza neppure guardarlo. Ecco con chi dovrei avere a che fare, Izuku.»
«Ma come puoi parlare così di qualcuno?»
Non sapevo perché, ma le sue parole mi stavano causando un fastidio quasi doloroso. Dovetti portarmi una mano tra i capelli, la testa già chinata verso le ginocchia. Faceva caldo, ma per la prima volta dopo settimane facevo fatica a sentirlo. Bruciavo di rabbia per quello che lui si era permesso di dire, ma non perché mi avessero sorpreso le sue parole, ma perché era di Katsuki che parlava. Del mio Kacchan. E il mio Katsuki non avrebbe mai fatto una cosa del genere, forse un tempo sì. Ma Katsuki Bakugo non era diventato quel tipo di hero che ignora i bisogni degli altri.
L'avevo visto rischiare la vita per una bambina in pericolo, l'avevo visto accarezzare e lasciarsi accarezzare da un lupo cecoslovacco, l'avevo visto sostenere massi per lasciarmi passare, rischiare la vita per salvare quella di un villain, provare a cambiare. Non mi passava neppure per l’anticamera del cervello consentire a qualcuno di parlare così di lui. Era troppo. Non mi importava neanche che fosse Shoto quello che stava parlando.
«Di qualcuno? Izuku, non mi sembra che tu abbia capito.»
«Ma capire che?» ribattei, facendomi sfuggire un latrato. «Sei tu che non hai capito nulla, Shoto. E basta fingere. Non voglio più sentire una parola, mi dispiace. Sono davvero stanco di questo tuo comportamento. Cresci e forse potremmo riparlarne.»
Ci fu un attimo di silenzio in cui le pareti parvero assottigliarsi fino a chiudermi nella loro morsa, lasciarmi a terra, soffocante.
«Mi chiedo con chi io stia parlando ora. Con te o con lui?»
«Ma lui chi?! Ce la fai a dire il suo nome?» proruppi. Non riuscii a trattenermi, sembrava proprio strapparmi le parole dalla bocca.
«Katsuki. Katsuki, Izuku. Sei contento adesso?»
Non gli risposi. Non sarei caduto nella sua trappola. Volevo litigare, volevo che mi rispondesse che tutto quello che ci eravamo taciuti venisse fuori, ma solo dopo, quando realizzai che Shoto non era Katsuki, capii. Shoto non sarebbe mai stato in grado di sputarmi addosso ciò che provava. Non era così che era abituato, non era mai stata così la nostra storia.
E allora compresi. Compresi e mi chiesi come fosse possibile che, in sole due settimane, Katsuki fosse riuscito a incastrarsi nella mia testa come faceva quando eravamo bambini. Pensavo come lui, reagivo come lui, strillavo come lui. Ed ero irruento. Io che ero sempre stato esitante e ansioso, ora facevo tutto per istinto.
«Pensa a quello che ti ho detto, Izuku. Pensaci per favore, e poi quando ti sei calmato, mi richiami. Anche tra qualche giorno, non mi importa. Ti amo, ok? Buona missione.»
Non risposi. Lasciai che fosse lui a riattaccare, a lasciarmi andare.
Poggiai distrattamente il cellulare sul letto, poi la testa mi cadde tra le mani. Me la soressi, mi strattonai i capelli. Volevo che tutte le cose che ci eravamo detti non fossero mai esistite, ma stranamente, non riuscivo a pentirmi di ciò di cui l'avevo incolpato.
La stanza buia mi girava attorno.
Percepivo il silenzio come un essere umano che se ne stava lì e mi guardava con pietà, accordarmi quel minuscolo atto di conforto. Silenzio. Mi era sempre piaciuto. Mi calmava, mi dava modo di riflettere, di comprendere.
Sembrava un puzzle completo, dava soddisfazione.
Respirai a fondo, sollevai il viso. Appoggiato allo stipite della porta c’era lui. Mi guardava a braccia conserte, il petto così largo che pareva una distesa di terra compatta, la maglietta priva di sudore.
«Che vuoi?»
«Hai litigato col tuo fidanzatino?»
Sbuffai, distogliendo rapidamente lo sguardo. «Non sono in vena, Katsuki.»
«Oh, povero cucciolo.»
«Cos’hai detto a Shoto?»
«Di andare a farsi fottere.» mi rispose, lapidario.
«E basta?»
Avevo risollevato lo sguardo su di lui, lo scrutavo tra le ombre che il buio proiettava come frammenti di vetro. Le sue iridi rilucevano, parevano biglie infuocate e io non riuscivo a staccare gli occhi dai suoi.
«Che altro vuoi che ti dica? Perché cazzo non credi mai a nessuno?»
Abbassai di scatto la testa, ferito da quella ferocia. «Non sono fatti tuoi.»
«Dici di somigliare a tua madre, ma sei sempre stato uguale a tuo padre, Izuku.»
Lo guardai senza emozioni. Quella giornata mi aveva svuotato. Ero stanco, con la mente in fiamme, lo stomaco sottosopra e briciole di conversazioni che mi rotolavano in testa.
«Che intendi?»
«Esattamente quello che ho detto. Sei identico a tuo padre. Quando le cose si fanno difficili tu vai via.»
Sbattei le palpebre, confuso. «Anche tu sei così.»
Katsuki si fece sfuggire un sorrisetto. Uno di quelli che nascondeva sempre e che raramente mi avrebbe riservato, eppure, lo vidi e mi parve una coltellata in mezzo a quel mare di nero.
«No, io vado via perché se resto spacco tutto.»
«E che vuoi spaccare se sei il solo a creare situazioni difficili?»
Non rispose. Lanciò un mugugno, Hachiko ci raggiunse e alternò lo sguardo da me al suo padrone. Sembrava star chiedendo il suo permesso, come fanno i bambini. Alla fine Katsuki annuì, un segno impercettibile della testa e Hachiko scodinzolò felice, mi raggiunse a rapide falcate e si accoccolò ai miei piedi.
Katsuki si era già voltato quando le sue parole mi raggiunsero.
«E comunque, gli ho detto che sei ben capace di constatarla con i tuoi occhi, la verità. Che uno come lui, dovrebbe rinascere dieci volte per essere alla tua altezza. E altre venti per essere alla mia.»
Gli ho detto che sei ben capace di constatarla con i tuoi occhi, la verità.
Shoto parlava di me come se avessi continuamente bisogno di lui, del suo sostegno, del suo supporto. Katsuki con poche frasi concitate faceva sì che tutto il mio corpo - e la mia testa - fremessero. Lui sapeva chi ero, chi volevo essere, Shoto ancora no.
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Angolino autrice:
Penso che con la frase finale Izuku abbia già capito. O almeno l'abbiamo fatto noi ;)
Se il capitolo vi è piaciuto fatemelo sapere con un commentino, grazie davvero❤️
A domani per il prossimo,
- Lilla
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