Capitolo 11
- L'amore vero è una favola -
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«E questo è quanto.» finì di spiegare Katsuki.
Eravamo in videochiamata con Aizawa-senpai, lui ci fissava dalla telecamera del suo piccolo portatile, un po' accigliato, un po' perplesso.
Il racconto era stato brusco, preciso, lineare. Non aveva aggiunto tutti gli imprevisti che erano saltati fuori la sera prima e neppure il piccolo incidente avvenuto con il ragazzetto del locale. Aveva riferito a labbra strette che c’era una novità riguardo Hiroshi Han.
Aizawa stava annuendo. Tornai ad ascoltare, attento alle sue parole.
«Quindi Midoriya lo ha visto in faccia?»
Feci segno di sì. Mi fissò, non disse nulla, ma dedussi che stesse riflettendo su qualcosa perché non faceva che alternare lo sguardo da me a Katsuki.
Quando parlò si rivolse a lui.
«E per quale motivo non l'hai fermato? È il criminale più ricercato del Giappone.»
Penso che fu una delle poche volte in cui mi mancarono le parole. La bocca mi si era schiusa, ma non riuscivo a formulare una sola frase. Perché non l'ho fermato? Me l’ero chiesto anch'io. Perché non volevo far saltare la copertura e acciuffare uno che stava salvando due vite. Perché ne ero rimasto talmente affascinato da lasciarlo stare, da ammirarne i movimenti, le gesta. Qualcuno di straordinario, con il corpo e la testa di un militare, ma l’animo di un villain. O almeno questa era l’etichetta che ci aveva messo su la società.
Feci per scusarmi. Chinai la testa, schiusi le labbra, mortificato per i miei stessi pensieri, ma Katsuki mi precedette. Usò un tono aggressivo, spazientito. Come se stesse spiegando ad un bambino una semplice operazione matematica che quello continuava a non capire.
«Che vuol dire? Lo sa che siamo in missione segreta? O se l’è scordato? Non possiamo far saltare la copertura solo perché ci troviamo davanti un villain.»
Mi sorprese quel tono. Non l'avevo mai sentito rispondere in quel modo a un professore. Certo, non era mai stato cortese o particolarmente educato, ma neppure aveva tentato di attaccar briga. Né adesso né in passato. Mi parve strano trovarmi davanti a quella nuova versione di lui. Non capii perché si stesse mettendo contro Aizawa, contro un altro hero. La risposta mi giunse direttamente dal viso seccato del mio ex professore.
«Non è così che lo proteggerai, Bakugo.»
Katsuki mi stava difendendo.
Lui rispondeva in modo burbero, scontroso, solo per concentrare l'attenzione del professo
re su di sé, per essere sgridato e destinatario del rimprovero che sarebbe dovuto spettare a me. Mi sorprese così tanto che non riuscii neppure a intervenire. Alternai lo sguardo da lui ad Aizawa, li fissai a labbra schiuse, gli occhi spalancati. Che gli prendeva? Diceva di odiarmi, non aveva fatto altro per tutta la vita, me l'aveva ripetuto per tutto il periodo dell'adolescenza, e perfino ora non poteva vedermi senza fare smorfie.
Ma allora perché mi stava difendendo?
«Non voglio proteggerlo, infatti.» ribatté, innervosito da quella che secondo lui era una “debolezza”. «È il Number One, non ha bisogno della mia protezione.»
«A quanto pare…» sillabò Aizawa, ma non mi sfuggì l'ovchiataccia che mi rifilò. Avevamo un accordo, non lo stavo pienamente rispettando. Lo sapevo io, lo sapeva lui.
Sospirai.
«Andrà tutto bene, le dò la mia parola.»
«Me lo auguro, Midoriya.» sentenziò esalando un piccolo sbuffo. Sembrava stanco, anche attraverso la telecamera vedevo le sue occhiaie più profonde, il viso scarno, le labbra pallide. «Vorrei parlarti.»
Mi raddrizzai sul posto, portai le mani in grembo. Faceva caldo, i condizionatori funzionavano a rilento e il sudore mi rendeva la pelle appiccicosa e umida.
«La ascolto.»
Aizawa lasciò andare l'ennesimo sospiro. Lanciò un'occhiata a Katsuki e tornò a me. «Da soli.»
Lui lanciò un'imprecazione, fece il giro del divano e se ne andò in camera, sbattendo la porta. Ignorai la scenata, ripresi a guardare il mio ex professore.
«Mi dica.»
«Midoriya…» Aizawa si passò una mano sul viso. Il suo dorso era cosparso da piccole ustioni, le dita erano ancora longinee, magre e snelle come quelle di un pittore. «Ho sentito Shoto.»
Bastarono quelle parole a farmi irrigidire. Deglutii, il viso che mi si faceva più pallido e la testa che prendeva a vorticare. Serrai le dita ai lati del portatile, cercando di calmarne il tremore.
«E cos’ha detto?»
«Ha detto che non devi credere a quello che stanno dicendo in tv. Che tra lui e Momo non c’è nulla di più che una semplice amicizia.»
«Ah.»
Avevo la gola secca. Parlare mi costava tutto il coraggio che avevo in corpo.
«Ha detto di riferirti che ti ama e non vuole che tu stia male. Quello che ha visto è una montatura. Non ti tradirebbe mai. Non ti spezzerebbe il cuore.»
«Certo.»
«Izuku.»
«Sì?»
Ora avevo gli occhi lucidi. Non volevo guardare la telecamera, non volevo mostrarmi debole davanti a un uomo che mi ci aveva visto per anni. Ero cresciuto, non ero più il ragazzo insicuro, petulante e sgraziato che ero stato un tempo.
«Izuku, per favore. Cerca di non pensarci ora, ok? So che è difficile, ma in qualità di Number One-» si bloccò, sembrò scegliere attentamente dal palmo della mano le parole che avrebbe usato. «In qualità di hero, devi pensare prima al bene degli altri, poi al tuo.»
«S-sì.»
Perfino il mio tentativo di mascherare la voce era stato un grottesco esempio di quanto non fossi affatto cambiato. Mi sentii la vergogna in ogni parte del corpo, mi sentii inadeguato, distante da Shoto e dalle bugie che mi stava rifilando. Noi non eravamo così, noi non ci mentivamo solo per avere la coscienza pulita.
«Izuku, sono certo che tu stia facendo un buon lavoro, ma Shoto non può-»
«Adesso basta.»
Nell’istante stesso in cui un singhiozzo mi sfuggì dalle labbra, Katsuki mi tolse il computer di mano e rivolse il suo viso alla telecamera. Avrei dovuto alzarmi e impedirgli di litigare ancora con qualcuno, ma non ne avevo le forze. Mi coprii il viso con i palmi, sospirai forte.
«Shoto.» disse, col tono beffardo che assumeva quando qualcosa non gli piaceva affatto. Lo trovava ridicolo. Trovava ridicolo anche il mio comportamento. «Il figlio di paparino si scopa un’altra e tutti lo giustifichiamo. Non solo, troviamo addirittura scuse da rifilare al suo fidanzatino.»
Aizawa non rispose subito.
«Non dovresti parlare così, Katsuki.» disse infine, in tono di rimprovero. Ma un rimprovero smorto, finto. Non sembrava convinto neppure lui delle parole che stava dicendo.
Katsuki cacciò una risata sfottente, derisoria. «Mi scusi tanto, professore. Posso fare qualcos'altro per alleggerire la coscienza dello stronzo? Magari Izuku può mandargli la foto dove si scopa un altro e poi dirgli che era solo una montatura.»
«Kacchan!»
«Bakugo!»
Lui ignorò il richiamo di entrambi.
«Dica pure a Shoto caro di chiamarmi quando vuole chiarire con Izuku, ci penso io a ricordargli chi cazzo è lui e chi è il Number One. Buona giornata.»
Non aggiunse altro, mentre io balzavo in piedi - gli occhi ancora sporchi di lacrime - lui aveva già chiuso lo schermo e riattaccato.
«Kacchan, non puoi-»
«Cosa?»
Mi stava davanti, alto un metro e novanta, imponente come una di quelle statue in mezzo alle piazze famose, brillante della luce che filtrava dalla finestra, quasi dorato addosso. Teneva il portatile tra le mani, non me lo porse neppure quando io spinsi le dita in quella direzione, anzi, lo sollevò più in alto.
«Cosa non posso fare, Izuku?» cianciò, guardandomi fisso. Non c'era traccia di ironia nella sua voce, solo una profonda e canzonaria delusione. «Non posso ricordarti chi cazzo sei? O devo lasciarti a piangere come un marmocchio per uno che non merita neanche il tuo sguardo?»
Avrei dovuto dirgli che gli ero grato per avermi strappato quel portatile di mano, per essersi intromesso - seppur con i suoi modi - e avermi tolto da quella situazione. Avrei dovuto dirgli che sapevo che Shoto non mi stava trattando come aveva promesso, ma che mi stava prendendo in giro e che non aveva neanche il coraggio di parlarmi di persona.
«Non parlare così di Shoto.»
Eppure non potevo fare a meno di difenderlo.
Scosse la testa, fece un ghigno stampato sulle labbra rosse, lasciando scoperti i canini. «Non lo vedi proprio?»
«Che cosa?»
Ero arrabbiato, stanco, esasperato da quei litigi, dal modo in cui riuscivamo a tirarci fuori il peggio l’un l’altro. Strillavamo così da quando eravamo arrivati in quell’appartamento. Mi passai una mano tra i capelli, tirai qualche ciocca con rabbia. Un gesto involontario di nervosismo che a lui non passò inosservato.
Si avvicinò di colpo e indietreggiai. Finimmo a ridosso della parete dietro di noi. La mia schiena contro il muro, lui contro di me. Il suo respiro bollente mi era salito in bocca, il portatile ancora stretto tra le sue mani, ora pendeva lungo il fianco.
«Il modo in cui ti arrendi. Tu che non ti sei mai arreso in vita tua, ti accontenti di uno come Shoto Todoroki?»
Disse il nome di Shoto con un disprezzo nella voce che mi fece male al petto. Preferivo cento volte gli epiteti sciocchi che gli attribuiva, a quello. Al modo in cui mi osservava e strizzava occhi e labbra quando il nome di lui sostava sulla sua lingua.
«Io non mi accontento.» mi sfuggì, ma lento e basso. Una nota stonata in uno spartito di sussurri.
La mano di lui mi risalì il collo, sfiorò la fronte con i polpastrelli, scostò un ricciolo che mi era caduto in avanti. Io tremai, immobile, col cuore che mi batteva in petto forte come un tamburo. Si chinò, la sua guancia sfiorò la mia. Il suo fiato bollente s’infranse a ridosso del mio orecchio.
«Se non ti accontentasti, ora non saresti qui.»
Non aspettai che si allontanasse da me, fui io a spingerlo lontano. Poggiai i palmi sul suo petto e lo spinsi indietro, con tutta la forza che avevo. Fu il vederlo barcollare, colto alla sprovvista da quel gesto, dalla mia irruenza, a ricordarmi dove e chi ero. Non ero più un Deku, non ero più il Deku che lui aveva disprezzato per anni.
Ora ero il Number One. Avevo battuto perfino lui, avevo scalato la classifica, mi ero meritato ogni cosa avessi in quella vita.
«Tu non sai un cazzo di me.» mi uscì di getto. Avevo il petto che si alzava e abbassava veloce come un’onda. Mi mancava il respiro, così come a lui che non faceva che gettarmi occhiate corrucciate.
Gli voltai le spalle, imboccai la strada della porta e me la richiusi alle spalle con un tonfo.
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Vagai per la città. Una rabbia bollente mi corrodeva il petto e lo stomaco, la sentivo crescere ogni volta che ripensavo a quello che era successo. A Katsuki, a Shoto.
Dal primo mi aspettavo tutto tranne che il comportamento che aveva assunto. Lui che se n’era sempre fregato di me, ora improvvisamente prendeva a fare il paladino della giustizia e farmi notare tutti gli errori che andavo commettendo e perdonando. Dal secondo volevo solo chiarimenti. Verità. Non gli avevo mai chiesto niente di più.
Solo che non mi mentisse, mai.
Mi ero fermato in prossimità dell’arteria principale. Lì il traffico scorreva così veloce da farmi girare la testa. C’erano luci di neon, insegne luminose, lampioni colorati, souvenir. Mi sentivo sopraffatto da tutto quel materialismo, ma al tempo stesso mi piaceva. La sensazione di essere stretto in un posto che non mi avrebbe lasciato volare via come un palloncino.
Non mi andava di tornare lì. Quel posto non era casa, niente a Tokyo mi sembrava casa. Casa mia era lontana, lontana chilometri. Aveva un balcone ed ogni mattonella era ricoperta da un vaso di fiori; di orchidee, di gerani, di gelsomini. C’era il mio letto, la mia scrivania, i miei appunti. Gli appunti sulla mia scuola, sugli heroes che ammiravo, sul mio costume.
C'era mia mamma.
Mamma che non sentivo da settimane. Le avevo annunciato la missione, ma avevo sorvolato sul mio partner, sulla convivenza, sul pericolo che correvamo. Lei era sempre stata il tipo di donna capace di svenire per un po' di sangue, non era saggio - da parte mia - svelarne certi meccanismi.
Mi allontanai un po', chiesi indicazioni ad un ometto con un cappello di steppi sul capo, mi indicò un posto poco affollato. Si era fatto pomeriggio, non avevo fame anche se non avevo pranzato. Il mio pensiero volò a Katsuki, mi chiesi se almeno lui avesse mangiato. Subito dopo mi rimproverai.
Cosa mi importava di lui? Dovevo pensare a me.
Però sembrava così stanco, così turbato. Si svegliava di notte e se mi alzavo per andare in bagno o per prendere un bicchiere d'acqua, lo trovavo che vagava come un’anima in pena. Si avvicinava al finestrone che dava sul balconcino, si sedeva a terra, lì fuori, le ginocchia incrociate, i gomiti che se le abbracciavano. Hachiko restava con lui per tutto il tempo.
Anch'io lo guardavo.
Restavo fermo in cucina, le luci spente, il bicchiere d’acqua del rubinetto ancora stretto in mano. Katsuki non se ne accorgeva, o forse lo faceva, ma non diceva nulla. Non si girava, non mi guardava, non mi intimava di andarmene. Quel suo comportamento m'aveva sorpreso. Mi ero chiesto se stesse davvero bene o se la sua non fosse altro che una recita. Mi pareva di conoscere Katsuki da sempre, non sopportavo di vederlo stare male, anche se lui ne aveva fatto a me, in passato.
Non ero capace di provare rancore nei suoi confronti.
Lui per me era sempre stato il mio Kacchan. Non mi importava se il male tra di noi aveva complicato le cose. Io gli volevo bene, lo amavo un tempo. Di un amore ostinato e cieco alle paure e ai torti che mi faceva.
Raggiunsi una panchina, mi ci lasciai cadere sopra. Ero tutto sudato, puzzavo, avevo i riccioli incollati alla fronte e alla nuca. Mi passai la mano sul viso, in cerca di fresco, ma non ne trovai. Il Sole batteva prepotente, stagliato nel cielo azzurro come un dipinto. L’unica ombra che mi proteggeva un po' era quella del grande pioppo al fianco della panchina, ma il caldo filtrava comunque tra le foglie, come un mostro dalle unghie lunghissime.
Sfilai il cellulare dalla tasca. Era strano che lo avessi con me, visto che solitamente lo tenevo il più lontano possibile dalla mia vista. Ero spaventato. Spaventato da una possibile chiamata di Shoto, del professor Aizawa, di All Might.
Non avevo voglia di fare i conti col presente messo in pausa che mi ero lasciato alle spalle.
Cliccai sull’icona del telefono, scorsi tra la rubrica fino a trovare il nome di mia madre. Il suo contatto era lì, tra le chiamate più frequenti, in lista con i numeri da chiamare in caso mi fosse accaduto qualcosa. Non mi vergognavo più del legame che avevo con lei. Le volevo bene, gliene ho sempre voluto. In passato lei si era intromessa nella mia vita più di quanto avrebbe dovuto, ma non mi importava. Sapevo che lo faceva soprattutto per il mio bene, perché non sopportava che soffrissi. Cliccai e feci partire la chiamata.
Non volevo, ma il dito mi sfuggì e sospirando me lo portai all'orecchio.
Tre squilli ed ecco la voce di mia madre. Lenta, scandende, allarmata.
«Izuku?» squittì. «Come mai mi chiami? È successo qualcosa?»
Mi sfuggì un sorriso. Non era cambiata. Eccola lì, sempre preoccupata, sempre indaffarata.
«Ciao mamma.» dissi. Guardai davanti a me, il parco era semivuoto per via del caldo e dell'ora, anche i giochi erano bollenti e soli. «No, no, sto bene. Ti ho chiamato per parlare un po'. Volevo sapere come stavi, avevo un attimo libero e ne ho approfittato.»
La sentii tirare un sospiro di sollievo.
«Hai fatto bene.» mormorò dopo un po', poi a voce bassa aggiunse: «non è che ti cacci nei guai per chiamarmi? Con i tuoi superiori, dico.»
Risi. «Mamma sono il Number One, chi potrebbe farmi la predica?»
«Oh tesoro, me lo dimentico sempre. Però…»
«È tutto ok.»
Per un po' nessuno dei due disse niente. Lei era sempre stata una donna ansiosa, a tratti paranoica. Fin da quando ero bambino un semplice ginocchio sbucciato, ai suoi occhi, equivaleva a un osso rotto. Quando avevo iniziato a usare il One For All, lei non faceva che piangere e maledire il giorno in cui mi avevano rivelato l'esistenza dei quirk. Diceva sempre che per essere eroi non serve mica un potere. Non avevo mai voluto starla a sentire, almeno su quell'argomento. Avevo ben in mente ciò che volevo diventare.
«E tu come stai, Izuku?» mi domandò, dopo qualche minuto.
«Sto bene.» mentii. Ma dovette intuire dalla voce esitante che non era la verità.
«E la missione come sta andando?»
«Bene.»
«E mangi?»
«Sì.»
«Izuku, per favore. Non metterti nei guai.»
«Mamma il mio lavoro consiste nel risolverli, i guai.»
«Lo so, però…» sospirò, la voce le si ruppe in gola, venne fuori un verso strozzato. «Non stai bene? Come mai mi chiami a quest'ora?»
«Te l’ho detto. Volevo solo sentire come stavi tu, mamma.»
«Izuku…»
Sospirai. Faceva ancora più caldo ora. La stoffa della maglietta era umida, si era attaccata alla mia pelle come un guanto.
«Ho visto quel servizio in tv. Su Shoto.» mi disse, la voce bassa ed esitante, come se non volesse dirlo sul serio. Ma ormai l'aveva detto e io non potevo più fare finta di niente.
«È solo una fake news. Sai come sono queste cose, adesso. Parlare di heroes fa vendere.» le ricordai.
Lei non sembrava convinta. Come poteva esserlo quando perfino io ero balbettante al riguardo? Mi sembrava di camminare su un filo sottilissimo e sotto altro non c'era se non il vuoto. L’abisso. E io me ne stavo in punta di piedi, a braccia aperte, come un equilibrista.
«Tesoro, ma perché non hai detto di no a questa missione?» mi chiese all'improvviso. Nella sua voce ora c’era una certa sofferenza, come se non riuscisse più a lasciarla da parte e dovesse per forza esternarla. «Ho parlato con Mina. Mi ha detto che stai bene, che non ti sta succedendo nulla, ma mi ha anche raccomandato di stare attenta io stessa. La scorta che mi manda la polizia non fa altro che rinforzarsi ogni giorno. Io… non ho paura per me, lo sai. Ho paura per te, ho paura che ti accada qualcosa di brutto e che-»
«Mamma non sono da solo.»
«Cosa?!»
Socchiusi gli occhi. Non potevo più rimangiarmi le parole, ora dovevo confessarle chi era il mio partner.
Infatti, lei me lo domandò, sorpresa.
«È…» biascicai, con le mani che mi tremavano. «È un hero in gamba.»
«Lo conosco?»
Sollevai la testa. I riccioli caddero all’indietro, un filo di vento mi colpì la nuca.
«Sì.»
«Ah.» mormorò. Sembrò cercare di resistere, ma la curiosità ebbe la meglio. «E chi è?»
«Katsuki. Bakugo Katsuki.»
Ci fu un attimo di silenzio in cui perfino il cantare dei grilli risultò troppo forte, come se mi avessero aperto la testa e ce li avessero messi dentro. I suoni mi sfioravano i nervi e bruciavano, corrodevano, esplodendomi davanti agli occhi in mille immagini diverse.
Strinsi i denti, attesi la risposta di mia madre. Era entusiasta mi chiese se Katsuki caro stesse bene, se Katsuki caro mangiasse bene, se Katsuki caro avesse voglia di venire a cena da lei qualche volta. Le dissi che, sì, stava benissimo, che mangiava alla grande, che non lo sapevo. Gliel'avrei chiesto.
Lei esclamò tutta contenta che lo avrebbe riferito a Mitsuki, che si sarebbero messe in contatto con noi e-
«No, mamma.» la interuppi. «Tieni gli altri fuori da questa storia.»
«Ma-»
«Scusami, ora devo davvero andare. Però per favore, mamma. Non dire nulla, neanche a Mitsuki. Ti voglio bene, ci sentiamo presto.»
Riattaccai senza neppure aspettare la sua risposta. Sentire il suo tono entusiasta nel parlare di Katsuki mi aveva smosso qualcosa dentro. Restai sulla panchina per un altro po'. Avevo bisogno di sfogarmi, di lasciare uscire un po' il dolore e la rabbia che mi si erano accumulati nel petto.
Andai a prendermi qualcosa da mangiare alla bancarella dove ero stato appena arrivato a Tokyo. Masticai in silenzio, su uno sgabello del locale, guardando il paesaggio frenetico della città, che scorreva senza fermarsi mai. Era fatto di persone che camminavano, che correvano, che sfrecciavano qua e là senza mai fermarsi. Mamme con i figli alle calcagna, donne con le buste della spesa attaccate al braccio, uomini in giacca e cravatta che marciavano dritti senza neppure fermare a guardarsi attorno. Tokyo non si fermava mai, scorreva come un fiume. A volte era in piena, altre tranquilla, altre ancora pareva una cascata. Sul marciapiede di tanto in tanto sfrecciava qualche bici, correva qualche studente, strillava qualche bambino.
Mi fermai ad osservare i loro visi, il modo in cui il tempo che gli passava addosso non riusciva a scalfirli. Sembravano felici. Anche chi faceva i capricci e piangeva non era davvero triste. Tra le luci multicolore della città, tra i grattacieli che sembravano creare una cupola tra terra e cielo, tra i negozietti che sbucavano come funghi da ogni vicolo, nessuno era triste. Erano tutti troppo impegnati a correre, a comprare, a rassettare, a cucinare. Tutti troppo impegnati per permettere a una cosa brutta come la tristezza di soggiornare nei loro corpi.
La città dai mille volti, dai mille colori, dalle mille attività.
Tokyo era infinita e tatuata, come una donna all'opera. I canti delle auto, delle bici, dei monopattini che si muovevano lungo le sue vie, erano un grido che veniva dalla terra. I panni stesi tra un filo e un muro erano tutti tasselli di un mosaico che creava un disegno.
Mi persi ad osservare quei dettagli, a catturare con gli occhi e la mente la storia dietro ogni oggetto, dietro ogni vestito, scarpa, foulard. C’era storia in ogni cosa. Scambiai qualche parola con il signore del ramen. Era gentile, anziano, accaldato. Mi disse che viveva in quel quartiere da quando era un bambino. Il negozietto lo aveva aperto a vent’anni, quando i suoi genitori erano morti per via di una terribile malattia. S’era sfamato così. Aveva conosciuto la donna della sua vita un giorno qualsiasi.
«Si era seduta proprio dove stai seduto tu ora.» mi aveva detto, con gli occhi lucidi dall’emozione che gli dava ricordare. «Mi ha sorriso, ha chiesto del ramen, gliel’ho portato. E poi all'improvviso è scoppiata a piangere. Quando le ho chiesto cos’avesse, lei mi ha rivelato che non mangiava più ramen da quando era morta la sua sorellina. Così mentre la consolavo e ascoltavo il suo racconto, ci siamo pian piano conosciuti. Ha accettato di lavorare con me. Ho aspettato due settimane prima di chiederle di sposarmi. Lei ha accettato subito, mi ha stretto le braccia al collo, m’ha detto “io non ti lascio più, Toru-mio”. Ero l’uomo più felice della Terra.»
Passò a raccontarmi del matrimonio, della vita che scorreva, del loro unico figlio, che era volato via a poche ore dalla nascita.
«Io amo i bambini.» mi disse, «Ma il cielo non me ne ha voluti mandare. Né a me né a Mandy mia. Abbiamo trascorso insieme sessant’anni di matrimonio. L’amavo come non ho mai amato nulla. Poi una notte se n’è andata via, addormentata col sorriso sulle labbra, l’anello ancora al dito, vicino alle labbra. Sembrava che se lo stesse baciando.»
Non aveva pianto, mi aveva detto.
«Mandy non avrebbe voluto ed io non le voglio dare un dispiacere.»
Mi piaceva che usasse ancora il presente quando parlava di lei. Mi riempiva dentro di una sensazione calda, confortante. Mi resi conto che anch'io volevo che qualcuno parlasse così di me, un giorno. Volevo che qualcuno nel ricordare il tempo che avevamo passato insieme, potesse bearsi del ricordo, potesse sorridere.
«E tu, ragazzo mio, ce l’hai qualcuno che ami e che t’ama?»
La sua domanda mi sorprese. Avevo appena finito di mangiare, bevvi un po' di tè che Toru-san mi aveva offerto.
«Sì.» mormorai, ma ancora una volta, non seppi a chi mi riferivo.
Amavo Shoto senza dubbi, ma in che modo, con quale intensità?
«È un bene avere qualcuno quando si torna a casa. Le sue braccia ti sorreggeranno sempre, anche quando luce non ne vedrai per un po'.»
«Il mio amore in realtà odia la luce.» ammisi, giocando a ricalcare col dito il diametro del bicchiere.
«E allora non è amore.» sentenziò Toru, come se stesse declamando una notizietta di un giornale.
Sollevai il viso, sbarrai gli occhi.
«Vediamo, questo tuo amore, ogni volta che ti tocca ti fa battere il cuore come se avessi preso la corrente?»
Annuii.
«E ti fa sentire come se ti avesse attraversato tutto il corpo ogni volta che ti parla dolcemente?»
Annuii ancora.
«E ti fa tremare le dita quando ti tocca e sussurra?»
Annuii.
«E ti fa arrabbiare, ti fa arrabbiare così tanto che vorresti imboccare la porta e andartene per sempre?»
Annuii.
«Allora è vero amore.» ammise, come se solo in quel momento avesse avuto la sua conferma. «È amore perché se non vi arrabbiate l’un l’altro con la stessa intensità con la quale vi amate, non può esistere. Solo chi si ama davvero, con tutto il cuore, è pronto a sfasciarsi per l’altro.»
Quelle sue parole mi colpirono. Non seppi perché, ma mi sentii colmare dentro un vuoto. Il dolore e la rabbia che fino a prima mi avevano sommerso, ora erano scomparsi.
Mi fermai a ringraziare il signor Toru, gli lasciai una generosa mancia, promisi che sarei tornato a trovarlo.
Prima che me ne andassi per la mia strada però, lui mi prese dal polso e mi avvicinò. Quando parlò aveva negli occhi un’espressione seria che fino a poco prima non gli avevo mai visto.
«Questo tuo amore,» mi disse con calma. «non fartelo scappare. La mia dolce Mandy era solita ripetere che l'amore litigarello è il più bello. Ed è il più vero. Perdonagliela qualche sciocchezza. Negli anni Mandy mi ha perdonato ogni colpo di testa ed io le ho perdonato il suo amarmi devotamente, più di sé stessa.»
Annuii, ma più per non dargli dispiacere che per altro. Allora lui mi baciò la mano e mi lasciò andare mentre tornava ai suoi compiti. Barcollai per la strada, ripensando al suo racconto, alle sue parole. Si era fatto sera, il cielo era imbrunito, faceva finalmente fresco. Camminai piano, le sue domande mi frullavano in testa come coriandoli.
Pensai a Shoto, al suo amarmi debolmente, sempre con esitazione, con dolcezza. Ai suoi sussurri, ai suoi abbracci caldi, alle parole che mi diceva quando ero giù. Poi mi venne in mente Katsuki. Il modo che aveva di farmi saltare su tutte le furie, le cose che faceva solo per farmi dispetto, il modo in cui era scattato in avanti quando quel ragazzo mi aveva toccato senza il mio permesso. Katsuki e le sue rispostacce, Katsuki e il suo malumore, il tono brusco, la sua mano sul mio fianco, Katsuki che mi spingeva dietro di sé, Katsuki che interveniva quando Aizawa difendeva Shoto. Katsuki che cercava di proteggermi, che cercava di farmi arrivare da solo agli sbagli, che mi lasciava il letto in camera.
Avevo annuito a quelle domande, avevo detto sì senza fermarmi a riflettere, perché la storia di Toru e Mandy mi era entrata dentro e non voleva più uscire, ma non era a Shoto che pensavo quando rispondevo.
Era Katsuki. Era sempre Katsuki.
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Angolo autrice:
Capitolo molto riflessivo, ma importante ai fini della trama. Vedrete che ora ne accadranno delle belle!
Inoltre, non trovate che si stiano avvicinando sempre più? Chissà che non ricomincino a litigare :)
Se il capitolo vi è piaciuto, lasciate una stellina e mi farebbe molto piacere sentire il vostro parere nei commenti, se vi va. Grazie davvero❤️
-Lilla
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