Capitolo 10
- Hiroshi Han -
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«Che ci facciamo qui, Katsuki?»
Facevo fatica a stargli dietro. Il suo passo era sempre stato più lungo del mio, colpa della differenza d'altezza che con gli anni non aveva fatto che aumentare. Katsuki camminava davanti a me, stretto nel completo elegante, total black, i capelli tirati indietro alla perfezione. Nel guardarlo mi erano tornati in mente gli anni dei tirocini, quando lui non voleva assolutamente che i suoi capelli gli venissero toccati.
Mi erano tornate in mente le scenate, la rabbia, la sua furia distruttiva al sapore di nitroglicerina. Il povero Jeanist ci aveva messo anni ad addomesticarlo, ma pure allora lui era rimasto lo stesso scorbutico di prima.
Mi accinsi a seguirlo, vedendolo svoltare lungo un corridoio che non sapevo dove ci avrebbe condotto. Mi facevano già male i piedi. Non sopportavo le scarpe eleganti, ma Aizawa era stato chiaro per telefono; “Non mi importa quanto ti stiano strette, tu te le metti, altrimenti vengo e te le infilo io.”
Non avevo voluto metterlo alla prova, anche perché conoscevo bene le capacità del mio ex professore. Avevo infilato i mocassini, mi ero lavato il viso, il corpo, m'ero infilato il completo che mi era stato cucito su misura. L'immagine che aveva rimandato lo specchio del bagno, non era sembrava la mia.
Io che di natura ero poco appariscente - se non per i capelli - e mansueto, disordinato nell’abbigliamento e nei modi. La superficie liscia rifletteva il corpo di qualcuno che mi era parso estraneo. Non solo per via delle rifiniture del completo, - mai messo - ma per l'intero vestiario in sé.
Il look aveva lasciato perfino Katsuki a bocca asciutta.
Non aveva commentato nulla. Gli ero passato davanti mentre era intento ad abbottonarsi i bottoncini vicino ai polsini, - tutto accigliato perché non ci riusciva, ma pur di non chiedermelo si stava sforzando come sempre - mi ero chinato per prendere il cellulare e nel rialzarmi lo avevo beccato a guardarmi, attraverso lo specchio del comò. Non aveva detto una singola parola, ma dalle sue labbra corrucciate avevo dedotto molto.
Conoscevo il suo sguardo.
La curva delle sopracciglia, il cipiglio che assumeva la sua fronte, a metà tra il nervoso e lo spazientito. Katsuki usava quei modi raramente, si tratteneva quando lo riteneva strettamente necessario. Mi ero ritrovato a chiedermi se per caso, non fossi io a irritarlo più dei miei modi.
«Ohi, stammi dietro, questo non è posto per te.» mi riprese, strappandomi dai miei ragionamenti. Mi cinse un polso, proiettandomi in avanti. Per poco non inciampai sulle sue scarpe. Mi tenni ad un lembo della sua giacca e gliela stroppicciai.
Lo sentii imprecare mentre alcuni signori che ci affiancavano sbuffavano spazientiti, sorpassandoci.
«Scusami.» mormorai, senza guardarlo. Sentivo le guance bollenti. Ci portai i palmi sopra, sperando di calmare il cuore che mi stava martellando nel petto.
«Cammina come si deve.»
Raggiungemmo una saletta a pochi passi da dove ci trovammo, continuava a tenermi dal polso, anche se non ce n'era più bisogno. La calca s’era diramata e ora i signori, in giacca elegante, e le signore, coi loro tailleur di raso, passeggiavano qua e là, un soufflé di champagne stretto nei pugni. La sala era un bagno di diamantini. Piccoli, grandi, colorati, pendenti dal soffitto, incisi nel pavimento. Avevo perfino paura di fare camminare più forte, non si sa mai se li avessi rotti con la mia goffaggine.
Shoto mi avrebbe certamente rassicurato. Avrebbe riso un po' quando gli avrei esposto i miei timori, ma subito dopo avrebbe, senza dubbio, passato tutto il tempo a cercare di sfatarli uno a uno. Mi sarei sentito a mio agio persino in un luogo come quello. Shoto aveva questo dono innato. Entrava in una stanza e se gli eri vicino dimenticavi ogni altra preoccupazione.
Pensare a lui mi fece male. Deglutii, tornai a Katsuki, rallentai il passo e lasciai che mi affiancasse.
«Che ti prende?» mi chiese, con quella che avrei giurato fosse preoccupazione. Ovviamente più per il piano che per me. «Ricordati perché siamo qui. Non dobbiamo divertirci.»
Sapevo perché eravamo lì. Le sue pressioni non facevano che farmi salire ancor più nervosismo. Non solo lui se ne stava per conto suo, ma era anche restio ad aiutarmi. Anche perché il suo concetto di aiuto si limitava a piccoli latrati su quanto la vita fosse ingiusta e quanto io fossi lamentoso.
Eravamo lì per la missione, glielo dissi, lui annuì senza particolare enfasi. La missione richiedeva che ci mostrassimo in locali come quello per cercare i nostri villain. Dovevamo prenderli con le mani nel sacco e per farlo ci serviva prima metterci nei loro affari, nelle loro reti. I traffici dei contrabbandieri che cercavamo, iniziavano da lì. Era stata una sorpresa anche per me scoprire che villain di così vile animo si nascondevano in locali riservati a borsisti, azionari, a persone il cui conto bancario superava i sei zeri.
Katsuki pareva abituato a quel tipo di ambienti.
Non solo si muoveva con destrezza, ma conosceva quelle persone, i loro comportamenti. Si mostrava cortese quanto bastava, irritato solo con coloro che lo interrompevano, paziente e gentile con i camerieri. Non conoscevo quella versione di lui. Non ricordavo quella sua attenzione nei confronti dei lavoratori, il tono bonario con il quale chiedeva “se, per favore, potessero mostrarci dove poter sedere, per conversare un poco.”
Era riuscito a procurarci un buon tavolo, con un gruppetto di persone che tutto mi parevano tranne che intellettuali. Da quando ci eravamo seduti, le ragazze non avevano fatto altro che gettare occhiate alludenti a lui, scoprendosi un po' di più l’orlo della gonna, facendo salire le dita dal collo fino alle ciocche lisce dei capelli. I ragazzi latravano ogni tanto, cianciavano tabacco, parlavano di cocaina ed erba come fossero state caramelle, e si lagnavano quando ricevano un nuovo messaggio, ma subito sbloccavano il cellulare, attentissimi.
Mi pareva di essere stato catapultato ad un ritrovo di ricchi, un remake di American Psycho, dove l'assassino psicopatico doveva ancora fare la sua comparsa.
Scrollai il ginocchio di Katsuki, alla ricerca della sua attenzione. Lui, che stava parlando con una ragazza dalle lunghe ciocche bionde, che gesticolava e metteva in mostra il décolleté ad ogni movimento, si voltò e mi guardò stancamente.
«Che vuoi?»
«Devo andare in bagno.»
«E vacci.»
«D’accordo.»
Mi alzai e pregai i ragazzi di lasciarmi passare. Eravamo seduti su una panca circolare, la musica era bassa e lenta, ma nonostante quello, dovetti alzare la voce per farmi sentire. Erano giovani, probabilmente fatti, ubriachi. Acconsentirono svogliatamente. Avevo quasi sorpassato le ginocchia dell'ultimo di loro quando sentii quel tocco. Mi parve di aver urtato qualcosa perciò mi girai a guardare ma beccai il ragazzo, un ragazzetto con i denti perfetti e le mani vellutate, a ritrarre un palmo. Prima che potessi dire la mia, Katsuki stava già parlando.
«Fallo di nuovo e scoprirai come ci si sente a passare l’intera vita senza braccia.»
«Oh, calma bello. L’ho solo sfiorato-»
Mi sorprese il movimento di Katsuki, il suo tono brusco. Aveva perso la compostezza che lo contraddistingueva solitamente. Ora era molto più simile a com’era ai tempi della Yuei, al mio Kacchan.
Lo vidi alzarsi e raggiungere il ragazzino. Prima che quello potesse fare anche solo un passo, lui lo bloccò sul posto. Scorsi con la coda dell'occhio il bagliore lucente che emanava il suo sudore, avvicinò il palmo al fianco del ragazzo.
Un sorrisetto arcigno gli ornava la bocca. «Che cosa cazzo non ti è chiaro nella frase che ti ho appena detto?»
Il ragazzo sbiancò. La stoffa del suo completo firmato stava andando lentamente a fuoco. Un rivolo di fumo si estendeva attraverso l’aria e l’odore dolciastro del bruciato si stava diffondendo sotto i nostri nasi. Lo vidi lanciare un’occhiata attorno al tavolo, ma nessuno dei presenti sembrava essersi accorto di nulla, oppure facevano finta, ma non gli davano nessuna importanza. Conversavano tra di loro e solo la ragazza che fino a qualche minuto prima stava parlando con Katsuki, pareva infastidita. Ma avrei giurato che lo fosse più da me che avevo interrotto la sua potenziale scopata, che dalla situazione in sé.
«Kat-» mi bloccai. Non dovevo chiamarlo per nome, altrimenti la copertura sarebbe saltata. Me ne stavo quasi per dimenticare. «Lascia stare.» mormorai, alla ricerca del nome in codice che già non ricordavo più.
Mi morsi il labbro, cercando tra i residui della memoria, ma non c'era nulla. Katsuki non mi stava a sentire, era totalmente concentrato sul tipetto, che era sbiancato così tanto da fare competizione alla sua camicia.
«Hai capito, stronzetto?» ripeté e premette più affondo il palmo. «Non si tocca ciò che non è tuo. Specialmente lui.»
Ignorai il brivido che quelle parole avevano fatto nascere in me e feci per spostargli la mano, ma lui non me lo permise.
«Scusati, avanti.»
«I-i-io…»
«Scusati, ho detto.»
«P-per favore…»
Katsuki mosse anche l'altra mano, il sudore gliela faceva luccicare come se ci fosse dell'olio sopra. Il ragazzetto sgranò gli occhi, s’irrigidì. Mi rivolse la sua più totale attenzione e quasi stesse pregando per la sua vita, si curvò in avanti e biascicò scuse balbuzienti.
«Ok, ma non farlo mai più.» sancii, la gola asciutta. Mi chiesi se Shoto avrebbe reagito in quello stesso modo, ma non avevo neppure bisogno di pensarci su. La risposta era scontata. Lui non era il tipo che faceva risse in un locale a cinque stelle, neppure se riguardava me.
«No, questo stronzo-»
«S-s-signore…» piagnucolò il ragazzo, sull’orlo delle lacrime. «P-per favore-»
«Kacchan!» borbottai allora, a denti serrati. Lui spostò la sua attenzione su di me, come se con quelle parole avessi sancito la sua totale disfatta.
«Cosa?»
Scossi la testa, palesando il mio dissenso. Sbuffò qualcosa, poi semplicemente - sorprendendo sia me che il ragazzo, ormai bianco come un cencio - lasciò andare la presa, si alzò e mi affiancò.
«Dove vai?» mi chiese, con la fronte corrucciata. «Non hai detto che devi andare al cesso?!»
«Sì, ma tu-»
«Cristo, andiamo.»
Non mi fece aggiungere altro. Ci avvicinammo al bagno in silenzio. Io non sapevo che dirgli, ero troppo sorpreso dalla scena di prima e lui non sembrava avere voglia di parlarne. Per Katsuki la violenza era nel naturale corso delle cose, un po' come il mettere lo zucchero nel caffè. Anche se a lui piaceva amaro.
«Aspetta fuori.» sancii, quando arrivammo alle porte. Ci posai una mano sopra e spinsi.
Mi guardava con una strana smorfia in viso. Non disse nulla, si avvicinò a una colonna e ci poggiò la spalla. Prima che potessi varcare la soglia però, mi richiamò. Mi volsi e attesi che parlasse. Si avvicinò, parlò a voce bassa, il tono agitato.
«Non prendere un cazzo di quello che ti offrono lì dentro. Piscia ed esci, hai capito?»
«Non sono un bambino.»
Storse la bocca, in un gesto che più che una smorfia mi parve un tentativo di mettere a freno la lingua.
«Questo lo dici tu.»
Non gli diedi la gioia di una replica, mi allontanai a passi svelti, indignato più con me stesso che con lui. Ero il Number One, non avevo bisogno di raccomandazioni, non ero un maledetto bambino delle elementari. Accigliato raggiunsi il water e mi ci chiusi dentro. La fila per quello affianco al mio era lunga fino ed oltre la porta.
Mi slacciai i pantaloni, raccolsi un po' di carta. Dal gabinetto accanto al mio provenivano risatine sommesse e respiri. Cercai di concentrarmi su ciò che stavo facendo, ma frammenti di quella conversazione arrivarono al mio orecchio e non potei fare a meno di ascoltare.
«…be’ insomma cercavo questa roba da sballo quando lo incontro. Mi fa che comunque loro hanno questo giro e spesso la gente comune non può accedervi, ma per me faranno un’eccezione.»
«Per te? Sei sicuro? Quella è gente che conta.»
«Sicuro, Akai-chan. M’ha detto proprio così.»
«E che gli hai risposto?»
«Che gli dovevo rispondere?! L’ho ringraziato, sai che con questi non si scherza. E poi…» si bloccò, abbassò la voce come se avesse il presentimento di essere ascoltato. «Giura di conoscere Han.»
Han? Perché mi era familiare? Mi sembrava proprio un nome-
«Han? Hiroshi Han?»
«Proprio lui!»
«Oh! Ma lui è… è quasi una leggenda metropolitana! È fortissimo. Dicono che abbia la mira di un dio. Che non sbaglia mai e che quando punta l’obiettivo… lo colpisce sempre. Sempre.»
Hiroshi Han.
Il nome mi era rimasto in testa come una puntina. Mi domandai dove lo avessi già sentito. I due stavano continuando a parlare, l’amico ora stava tirando su qualcosa. Lo sentii tirare col naso, l’altro cacciò una risatina. Da fuori le persone protestavano, alcuni li minacciavano. Volevano prendere il loro posto.
Mi pulii. L’orecchio teso ad ogni nuovo suono.
«…e te lo farà conoscere?»
«Forse, chi lo sa…»
«Oh ma che figo, bro!»
«Già. Solo che ho un po' paura, sai che dicono di Han, no?»
«E che dicono?»
«Be’... lui non è proprio… un buon ragazzo. È un gangster. Un contrabbandiere, un cecchino.»
Un cecchino.
Ma certo! Come avevo fatto a non pensarci prima? Un cecchino! Era Hiroshi Han, la persona che cercavamo, il villain che dovevamo incastrare.
Tesi ancora l’orecchio, cercando di captarne di più, ma la porta si aprì con un cigolio e per poco non mi trovò ancora seminudo. Mi voltai bruscamente, infastidito da quella interruzione. Davanti a me figurava un uomo sulla trentina, un viso pulito, una cicatrice sul collo. Pareva stonare del tutto con i tipi di ragazzini che stavano lì dentro.
«Mi scusi.» mi disse, facendo per richiudere la porta. «Credevo fosse libero e non ho bussato.»
Frenai il suo movimento con la mano. «Non importa. Ho comunque finito.»
Lui mi tenne la porta aperta e mi invitò a uscire. Nel passargli accanto non potei che gettare un’occhiata al suo petto ampio, i muscoli ben definiti perfino da sopra la camicia nera. Mani massicce, dita da soldato. Le conoscevo bene, avevo lavorato con i militari per anni, sapevo riconoscerne uno se ce l'avevo davanti.
«È un soldato?» mi ritrovai a chiedere, senza pensare.
Lui parve colpito dalla mia domanda, chinò per qualche secondo lo sguardo verso il pavimento. Portava capelli corti, di un castano che pareva nero nelle sfumature. La luce gli rendeva la pelle olivastra, quel tipo di carnagione che sembra sempre abbronzata, anche in Inverno.
Fece per rispondermi quando uno strillo ci fece sobbalzare.
L’urlo sembrava essere quello di una donna e subito dopo ne venne un altro. I ragazzi che stavano facendo la fila scattarono indietro, spaventati. Io mi mossi prima ancora di ragionare. La direzione delle grida era esterna al locale, ma c’erano le finestre, ci avrei messo-
La copertura.
Non posso far saltare la copertura, non posso rischiare, pensai, mordendomi con forza il labbro inferiore. Ma non potevo neppure lasciare qualcuno in pericolo. Ero il Number One, lasciare gente al proprio destino era contro la legge, contro i miei ideali, contro me stesso. Mi mossi verso la finestra, le ante erano già spalancate, faceva caldo, si sudava, i vestiti mi si erano incollati addosso e mi rendevano scomodi perfino i movimenti più semplici.
I pensieri si attorcigliarono gli uni sugli altri, mi sentii le gambe muoversi da sole, scattare in avanti, senza consultare il cervello. Scattai, mi mossi in direzione dei vetri aperti, ma prima che riuscissi a sorpassarli, una mano arrestò il mio cammino. Un paio di gambe che saltavano giù dalla finestra, un corpo in flessione. L’uomo che poco fa mi stava davanti saltò giù, atterrando perfettamente in ordine nel cortile esterno. Sbattei le palpebre confuso. Non avrei dovuto farlo, ma vinse l’esperienza. Mi affacciai, saltai giù a mia volta, ma più lontano.
Non volevo essere visto.
Il rumore proveniva da più avanti. Mi mossi, coperto dai cassonetti della spazzatura, chinato in avanti. Le strilla si erano fatte più forti.
L’uomo che si era lanciato prima di me si mosse rapido, a stento riuscii a seguire i suoi spo spostamenti. A sorprendermi non fu la sua velocità, quanto il modo in cui riusciva a mimetizzarsi tra i muri, contro le strade stesse. Camminava con un passo addestrato. Un civile non sarebbe mai stato tanto accorto da tirare fuori quell’andatura, quei riflessi. Sollevai lo sguardo. Dalla finestra ora sbucava il viso pallido di qualcuno dei ragazzi del locale. In giro ancora non si sentiva il rombo delle sirene della polizia.
Lo seguii. Mi mossi dietro di lui, ben più attento, sicuro della potenza del mio quirk. Volevo sfoderare Frusta Nera, ma mi trattenni. Non era il momento, non dovevo far saltare la copertura. Speravo solo che Katsuki non se la prendesse troppo. Infondo, era mio dovere aiutare i cittadini.
Sorpassammo l’angolo, la strada in quel punto si faceva più buia, ma riuscii a scorgere alla perfezione il viso ossuto dell'uomo che se ne stava lì. Teneva tra le braccia una bambina, gli stava torcendo i capelli all'indietro mentre con l’altra mano gli puntava una lama alla gola. La donna che aveva urlato doveva essere quella che se ne stava ferma al ciglio del marciapiede, in preda al terrore. Fissava la bambina e poi subito dopo il rapitore, era pallida, stretta in un tubino nero, i capelli dapprima raccolti, ora erano sciolti da un lato, cadenti sulle spalle. Era terrorizzata, piangeva, strillava, teneva le mani sollevate. Aveva lanciato una borsetta firmata ai piedi dell'aggressore, lo pregava di prendere tutto ciò che aveva.
La rabbia mi esplose in petto come una schioppettata.
Si fomentò alla vista della risata sfottente dell'aggressore che proruppe quando l’uomo che stava prima di me, si scagliò in avanti. Pensai che fosse uno sciocco, mi preparai ad intervenire, ma prima che riuscissi a farlo, l’aggressore aveva già cacciato dalla tasca una pistola. Ora con un braccio teneva la piccola a sé e con l'altra puntava l’arma contro l'uomo vestito di nero.
Mossi passi cauti, al riparo dalla loro vista per via della colonna di cemento. Mi sporsi ancora di più. L'aggressore era impallidito, tremava, ma non lo dava a vedere. L’uomo disse qualcosa.
«Lascia andare la bambina.» riuscii a sentire.
Quello cacciò un lungo latrato derisorio.
«Manco per il cazzo. Lo sai quanto vale questo tesorino?»
«Solo i pezzi di merda se la prendono con i bambini.»
«E tu chi sei per dirmi cosa devo fare? Eh?»
Non riuscii a sentire la risposta dell’uomo. Ci fu uno sparo, un movimento generale in cui l’uomo scattò in avanti e si gettò addosso al rapitore. La donna strillò forte, gridò il nome della bambina, - o almeno questo dedussi - mi paralizzai.
Fu questione di pochi secondi.
Il proiettile sfiorò il fianco dell'uomo vestito di nero. Lui e l'aggressore ruzzolarono a terra, il tempo di una lotta che lo sembrava a malapena, poi l'aggressore strillò a sua volta, la bambina fuggì tra le braccia della donna, caddero sulle ginocchia. Due donne infreddolite, tremanti, spaventate, ma salve.
L’uomo in nero aveva intrappolato il rapitore sotto il ginocchio, lo teneva fermo con una gamba e con la mano gli bloccava i polsi. Gettai un'occhiata alle due armi poco distanti dal luogo in cui i due erano a terra. L'aveva disarmato. Lo teneva bloccato, aveva salvato la vita a una bambina e non si era neppure ferito.
Non era decisamente un civile.
Solo quando sentii le sirene della polizia farsi più vicine mi decisi ad avvicinarmi, ma prima che ci riuscissi l’uomo in nero era sparito. Mi parve di averlo solo perso di vista, così gettai lunghe occhiate intorno, ma non riuscii a trovarlo da nessuna parte. L’aggressore era svenuto, gli aveva legato gambe e braccia con un lungo filo nero. Mi allontanai, sbirciai negli angoli, scrutai nel buio, non vidi nulla.
Stavo per tornarmene nel palazzo quando una mano mi afferrò il polso. Attivai il quirk, mi voltai bruscamente.
Riconobbi il suo odore dolciastro alla nitroglicerina prima ancora di vederlo.
«Che cazzo fai qua fuori? E per favore fa' che la risposta non sia che stavi facendo ciò che pensavo.»
«Non lo so. Dipende da cosa pensavi.» lo pizzicai, ancora risentito per il trattamento di poco prima.
«Non prendermi per il culo, Izuku.» ringhiò in un modo che mi ricordò fin troppo Hachiko. «Siamo qui sotto copertura, non siamo venuti per salvare le vecchiette dalle rapine.»
Rafforzò la presa sul mio polso, il suo sguardo si fece più duro.
«Non era-» sbuffai. «Oh, lascia stare. Non stavo facendo nulla e non ho salvato nessuna vecchietta. Stavo solo-»
«Stavi solo?»
«Nulla.»
«Porco cazzo, non posso neppure mandarti a pisciare da solo. Ma come fai ad essere il Number One?»
Lo guardai offeso e mi sottrassi alla sua presa. Mi avvicinai al luogo del reato appena avvenuto. Le due donne erano state soccorse dalla polizia. Avevano coperte termiche sulle spalle e si stringevano le une alle altre. La piccola piangeva ancora. I suoi occhi blu fissavano la madre, la stringeva forte a sé. Mi fece tenerezza.
Sarebbe potuta esserci Eri al suo posto…
Quel pensiero mi fece accapponare la pelle. Deglutii. Mi avvicinai alla macchina della polizia, sentii i passi di Katsuki dietro di me. Nel vedermi il poliziotto corrugò la fronte, spazientito.
«Ragazzo questo non è posto per-»
«Sono un hero.» lo interruppi.
Cacciai dalla tasca della giacca un cartellino e glielo mostrai. Lui sbiancò di colpo, si prostò in lunghe scuse e mi chiamò Number One.
«Sono sotto copertura.» aggiunsi allora. Lui annuì e si mise a parlare a voce bassa.
«Che cos’è successo, comunque?» chiesi. L’aggressore era stato caricato nella macchina della polizia, ancora in stato d'incoscienza.
«C’è stata un’aggressione.» mi spiegò lui, parlottando. Si guardò attorno e mi fece cenno di avvicinarmi. «Un villain voleva scippare una donna e ha preso la figlia in ostaggio. Era un tipo scappato da un carcere qui vicino, ma la cosa che ci ha più sorpresi è che quando abbiamo interrogato la donna per sapere chi avesse disarmato e legato l’aggressore, la descrizione che ci ha fatto dell'uomo che le ha salvate, coincide con quella di-»
«Number One.»
La voce di Katsuki, mischiata al fastidio che gli dava quel nome in bocca, interruppe il poliziotto. Mi afferrò il polso, mi trasse contro il suo petto. Scorsi con la coda dell'occhio l’occhiataccia che rivolse all’ufficiale.
«Siamo in missione.» mi biascicò contro l’orecchio. Il suo respiro caldo fece sfociare un brivido lungo la mia schiena.
«Oh lo so. E lo sa anche lui.» aggiunsi, indicandogli il poliziotto. «Lui è Dynamight, agente.»
Il povero poliziotto si fece purpureo, chinò la testa, strizzò gli occhi.
«D-Dynamight?» mormorò, incredulo.
«Ma che cazzo, Deku!» mi rimproverò lui, indignato. «Hai sbattuto la testa? Ti sei per caso scordato che siamo in missione segreta?!»
Lo ignorai e mi rivolsi al poliziotto.
«La descrizione coincideva a?»
Quello ci mise un po' a collegare le mie parole. Continuava a gettare occhiate impaurite a Katsuki, poi guardava me e si faceva pallido. Sbuffai gli ripetei la domanda e lo pregai di rispondermi.
«Coincideva a quella di Hiroshi Han. Un criminale molto noto alle forze dell'ordine, ma che non riusciamo a-»
«Hiroshi Han?!» proruppi. Gridai così forte che alcuni poliziotti lì vicino si voltarono a guardarci male. Uno di loro si avvicinò, intimò qualcosa al poliziotto con cui stavamo parlando.
«Mi spiace, dovete andare ora, non potete stare qui.» ci disse, desolato. «Ma non preoccupatevi, manterrò il vostro segreto!» promise, portando i mignoli alle labbra. Ci lasciò su un bacio.
«Sarà meglio per te.» aggiunse Katsuki, scrutandolo accigliato.
Ringraziai l'ufficiale, - che si era di nuovo fatto pallido - e ci allontanammo.
Solo dopo che avemmo raggiunto la strada principale, Katsuki mi afferrò per la spalla e mi inchiodò tra il primo muro che incontrammo e il suo corpo. Dedussi dalle sopracciglia aggrottate che era molto adirato.
«Puoi dirmi che cazzo è successo? E perché sembri uno che ha appena visto Hiroshi Han in faccia?»
Deglutii. «Oh. È perché l’ho davvero visto in faccia, Kacchan.»
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Angolo autrice:
Povero Katsuki, ci resterà secco prima o poi. Izuku è troppo intraprendente.
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