Miraggio d'eternità
Lo zio Francesco viene ridicolizzato, deriso, sparlato come un povero folle, un dissennato, un visionario troppo avanti coi tempi. Piccardo ne ha sentite tante in questo numeroso Capitolo delle Stuoie, un convegno di confratelli da mezza Europa e forse anche oltre, anche il più sozzo buco dei territori cristiani.
Falsità e bugie. Questi nuovi frati non fanno altro che lamentarsi e pretendere, pretendere, pretendere dallo zio a iosa. Si radunano all'aperto, intorno a lui, un anello di assetati di verità, dipendenti dagli insegnamenti che Francesco dispenserà loro a tempo debito, restii a conformarsi al modello univoco di povertà assoluta, attaccandolo con una ferocia insensata.
I grandi reprimono rabbia. Piccardo non si è ancora capacitato del perché esatto.
«State buoni e in silenzio.» ha avvertito lo zio lui e Giovannetto, mandandoli a sedere tra le prime file della folla, di modo che li possa serbare sott'occhio.
Papà è in viaggio per affari e loro due sono scesi a giocare. Non potevano capitare in momento più sconveniente per passare. Povero zio, oberato da questi allocchi impertinenti e... e vanagloriosi!
Uno, per esempio, cadenza germanica nell'accento, si pavoneggia del suo percorso di studi. «All'università ho studiato diritto, teologia, grammatica e retorica.»
«Il tuo maestro era forse un tale di nome Gesù di Nazareth?» Lo zio, capo chino sotto il cappuccio, resta inginocchiato nella polvere, centro di quell'uragano turbolento.
Il germanico s'offende. «Quello che dici per alcuni equivarrebbe a una bestemmia, te ne rendi conto?»
Un tarchiato, olivastro novizio del Meridione gli da manforte. «Ci ripeti passi del Vangelo che conosciamo a memoria Francesco, ma quello che chiediamo, che pretendiamo, sono regole, strutture, comandamenti!»
Lo zio la presenta più fedele all'originale. «C'è un solo, universale comandamento: amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi.»
Il ragazzo affonda il coltello.
«Quindi, secondo te, dovremmo amare anche gli eretici.»
«Sono nostri fratelli.»
«E ambiscono a demolire la Santa Madre Chiesa da Cristo fondata!»
«Si può porre forse un freno alla misericordia e all'amore di Dio?»
Accanto al tedesco si solleva uno stizzito francese, studente della Sorbona. «Tu vivi il Vangelo alla lettera, ma il Vangelo richiede interpretazione, una lettura approfondita e corretta delle sue allusioni, le metafore, i significati...»
Fuffa per lo zio.
«Credi che alla povera gente che invoca Nostro Signore e s'appiglia alla sua bontà con tutte le forze di cui dispone importi d'allusioni e metafore?»
«Per questo ci siamo noi!» Il francese glielo illustra come se stesse discorrendo con un poppante ritardato. «Per aiutarli a non fraintendere la Parola nella loro ignoranza.»
«Ma Cristo chiamò a sè volgari pescatori e sgherri da bettola, non studiosi della Legge. A loro svelò per primi il suo messaggio.»
«Lui era Cristo!» Cavoli, i tedeschi hanno fuoco nelle vene. «È diverso!»
«Era Dio che si è fatto uomo e ha vissuto da uomo, praticato scelte da uomo.» Giusto zio! Contraccambia all'asprezza ostentando una calma serafica. «Cosa ci trattiene a noi, figli della carne, dal seguire le sue orme?»
«Non sai di cosa parli!»
«Sempliciotto!»
«Ingenuo!»
«Vorresti che patissimo tutti la fame e vestissimo di stracci malconci?»
«Che ci abbassassimo a mendicare?!»
«Ci hai scambiato per dei pezzenti?»
«Non ho sgobbato anni sui libri per terminare i miei giorni in miseria!»
«Sarebbe umiliante!»
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la Terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.» parafrasa Francesco a memoria, dolce e potente a un tempo, dondolandosi, mani inghiottite dal saio largo. «Chetate i dilemmi della vostra ragione. Lasciate che sia il cuore a guidarvi, lasciatevi asservire all'amore. Porgete l'altra guancia e ascoltate le parole di colui che ci trasmise l'insegnamento più grande: dare. Dare tutto. Sempre.»
«Dare cosa?» Storce il naso il francese.
«Non ci permetti di possedere nulla!» si leva una voce dalle retrovie che Piccardo non riesce a identificare.
«Voi stessi.» indica lo zio. «Il vostro amore. Servite e prodigatevi per i fratelli con amore.»
L'amore motore, fulcro, sole e luna. L'amore sede di tutto, dimorante nel Tutto. Quell'amore di cui lo zio predica con trasporto, ammirazione, pietà, sequestrando l'attenzione chi gli porge orecchio.
«Ci imporresti di basare la nostra vita su questi sentimentalismi?»
Francesco abbassa il cappuccio. «Il Vangelo non è sentimentale. È un grido d'amore!»
«Di chi? A chi?»
«E la povertà che c'entra con l'amore?»
Come che c'entra? Sono interconnesse. Almeno per quello che Piccardo impara dallo zio. «La povertà è la porta sull'amore. Sei libero, alleggerito da tuoi beni che erigevano barriere e divisioni. Fratello davanti al fratello.»
«E ci vorresti tutti così? Poveri, decrepiti e vagabondi?»
«Voi dovete volerlo. Siete giunti qui di vostra iniziativa, attratti non da me, ma dall'esempio proposto da Cristo. Dio non obbliga a seguirlo. O ad amarlo. Nemmeno io vi obbligo a seguire Madonna Povertà. L'amore non s'impone. E non giudica. Io non giudico voi, fratelli sapienti e letterati, ma capite il mio punto di vista?»
«Quello d'uno straccione?» Qualcuno ride. Della prospettiva. Di Francesco. «Uno scarto della società?»
Lo zio si prostra, fronte a terra, le unghie ficcate nel terriccio.
«Quello d'un uomo nudo al mondo come tutti gli uomini lo sono, nudi nella vastità dell'ignoto. Quello di chi ha scelto il basso.»
«Tu! Mica noi!»
Nessuno li ha obbligati, ha detto bene lo zio. Giovannetto s'è immusonito, farnetica d'andare a prendere a botte questi cialtroni stupidi e somari - assorbe le parolone degli adulti come una spugna ultimamente - e Piccardo lo dissuade.
«Allo zio non piacerebbe.»
Zio Francesco che, mentre tutti smontano le tende di quella riunione fallimentare, rimane faccia a terra, inerme.
Sconfitto.
Piccardo soffre per lui, un gozzo che gli occlude la gola e graffia il palato.
Origliare è maleducato.
Piccardo se ne assume la colpa. La curiosità lo divora. I pezzi grossi dell'Ordine dei Frati Minori - il patrono porporato Ugolino vescovo di Ostia, Pietro Cattani, Ministro Generale dopo le dimissioni dello zio, Frate Elia, Frate Cesario da Spira e altre eminenti personalità - si sono riuniti a discutere e prendere decisioni nello stanzone della casa per poco demolita dalla furia dello zio.
Escludendo proprio lo zio, l'inventore di tutto.
Ha azionato il motore di Dio e non lo invitano. Che scortesi marrani!
Raggomitolato sugli scalini, spiante dallo spiraglio tra le assi deteriorate della porta, Piccardo spia, frizzante dall'esperienza segreta. Un muoversi e confondersi di sai, il luccichio degli anelli del Cardinale.
«È testardo..» Questo è Frate Elia, marcia avanti e indietro, irrequieto. «Un irriducibile, ostinato testardo. Cieco di mentalità, non solo d'occhi. Ma non lo vede il catafascio a cui stiamo andando incontro?»
Ugolino subentra a mitigare la sua asprezza. «Francesco dimostra una devozione fuori dal comune e il suo attaccamento alla Chiesa è ammirabile.»
«Allora perché persevera in questa... in questa resistenza vana? La Chiesa pretende solo che tutto sia sistemato, in ordine. Perdonate l'assonanza alquanto buffa, ma dobbiamo diventare un Ordine ordinato. Schematizzare, strutturare, altrimenti non saremmo diversi da qualsiasi banda di vagabondi a zonzo per il mondo!»
«Non lo siamo già?» Piccardo non ha idea di che voce contraddistingua Frate Cesario da Spira, insigne studioso. S'immagina che sia questa, profonda, accorata. «Francesco tiene la porta aperta a tutti. Fattori, braccianti, ricchi, nobili, studiosi, analfabeti, gentaglia dal passato oscuro, persino ladri e briganti! Vanno e vengono! Manca disciplina, rigore...»
«Cristo accoglie chiunque e Dio non esercita distinzioni o preferenze.» Pietro Cattani si sporge, timidamente, tra quei rovi spinosi del loro astio.
«Pietro, tu sei un uomo erudito e pragmatico, non imboccarti d'illusioni.» l'ammonisce Elia. Piccardo preme l'orecchio. Ci tiene a sentire meglio. «La Santa Madre Chiesa può forse affidarsi sulle spalle di malandrini e lestofanti?»
«San Pietro era un pescatore, San Matteo un pubblicano corrotto. Non c'è limite all'amore di Dio, Francesco lo ripete. Perché l'uomo dovrebbe essere da meno?»
«Perché nel Regno dei Cieli, diversamente da quaggiù, non rischiamo di degenerare nell'anarchia più completa!»
«Ma-»
Cesario foraggia la posizione d'Elia, arpionando Pietro. «Molti fratelli, quando viaggiano e predicano, arrivando in città straniere, sono vittime di vessazioni, soprusi e violenze, almeno questo ti è chiaro? Non hanno documenti e perciò i locali li scambiano per banditi e intrusi fuorilegge.»
«I documenti legano. Noi abbiamo abbracciato la libertà.»
«Allora perché ci siamo offerti ai servigi della Santa Romana Chiesa eh?»
«Elia, è tutto così semplice, se solo-»
«No Pietro, non lo è. Francesco sarà pur un santo e ragionerà secondo Dio. Io, mio malgrado, sono un uomo e ragiono secondo l'uomo. Non siamo più passeri del cielo o gigli nei campi, ma stormo e foresta. E vanno nutriti, curati.»
«Nostro Signore nutre e cura, lo sottolinea il Vangelo!»
«Affinché il Vangelo si concretizzi dobbiamo renderlo fattibile!» s'inalbera Elia, secco e crudele nella sua integerrima integrità e onestà. «Umanamente fattibile! Non è materia di sogni, non è un idillio bucolico, una fantasia. Non stiamo giocando. La posta in palio è alta: migliaia di membri e l'adesione alla Chiesa.»
«La Chiesa ci ha già riconosciuto.» gli sottolinea Pietro.
«Senza una Regola approvata il processo è incompleto.»
«Francesco non si discosterà mai dai suoi principi.»
«Dispone dell'intelletto necessario a comprendere la gravità della situazione. E, non dimentichiamoci, vuole bene ai suoi fratelli. Con un po' di pressione si schioderà anche lui. Il voto d'obbedienza lo vincola.»
«Elia, ti prego.»
«Mi sto impegnando per noi Pietro, per la nostra fraternità.» Impegnandosi? Ma la visione dello zio verrebbe calpestata! Ed è bellissima così com'è! Cosa s'intromettono a fare? «Vuoi che tutto questo vada perduto? Dissolto al vento?»
«No, ma nemmeno che questo sogno si trasformi in un incubo! Che la libertà diventi prigionia! Elia, prova a porti dalla prospettiva di Francesco-»
«E se anche lo facessi? Come convincerei quelle masse là fuori? Sono l'unità vincente, noi siamo in minoranza. Dobbiamo... adeguarci ai compromessi.»
«Lui non ne sarà felice.»
«Le scelte drastiche spesso comportano infelicità. Ma sono necessarie.»
«Almeno parlagli! Discutine con lui!»
«È esattamente quanto ho intenzione di fare...»
Frate Elia ne parlerà con lo zio, ma Piccardo è sicuro che lo zio Francesco non accetterà mai e poi mai. Sarebbe una richiesta eccessiva.
«Che guardi? Parlano dello zio?»
Si rizza, sussultando. Il suo fratellino, palla a fianco, lo fissa imbambolato.
«Che-Giovannetto fila via!» lo scaccia Piccardo, spintonandolo.
Fiato sprecato. Giovannetto spinge per ritagliarsi un posticcino da buon imbucato. «Voglio vedere!»
«Chi fa la spia non è figlio di Maria!»
«Sono curioso!»
«Ti ho detto di no!» Ma l'intende l'italiano?
Cigolando, la porta si apre e Frate Elia torreggia sopra di loro. Oh oh. Beccati. Tutta colpa degli starnazzi di Giovannetto. «Piccoli impiccioni... non vi hanno insegnato che origliare è peccato?» Miniera d'informazioni preziose no? «Pussate via! Sciò! Via!»
Piccardo e Giovannetto si levano di torno e l'acredine di Elia si merita per ripicca una pernacchia sonora da parte del più giovane.
«Maleducato, villano e screanzato!» l'insulta suo fratello, prima di sgambettare via. Da chi ha imparato quest'improperi raffinati!
«Giovannetto!» Sta peggiorando la figuraccia. Piccardo l'agguanta, distogliendolo.
Elia li scova mentre colgono ciliegie, un'attività fantastica se qualcuno avesse la briga di domandarlo a Piccardo. Zio, nipotini, i loro coetanei delle topaie in riva al Rivortorto e Giovanni, quell'ottuso dalla mente semplice che imita lo zio in qualunque cosa.
«Francesco! Francesco!» lo chiama Elia, appostandosi imbronciato ai piedi dell'albero che stanno esplorando, in bilico tra i suoi rami. Il frate s'arresta, perplesso da tutto quel fruscio tra i petali rosa. «Posso sapere che diavolo state combinando?»
Cascano ciliegie, buttate nel cestino già ricco di maturi, piccoli rubini.
Piccardo sbuca, petali rosati tra i capelli. Che vuole quel brontolone d'Elia?
«Raccogliendo ciliegie! Mi sembra ovvio.»
«Le manderemo a Sorella Chiara e alle Povere Dame!» aggiunge Giovannetto, disperso tra le fronde.
«O gliele porteremo di persona!» ipotizza Pietruccio, stracci per calzari.
Irene, ricciolina e con un dente da latte oscillante sul davanti, esprime la verità. «Dobbiamo ancora decidere...»
«Bella Sorella Chiara...» dice strascicato Giovanni, ricopiando la raccolta dello zio.
«Sì Giovanni, è molto bella.» Piccardo è d'accordo. Quel mentecatto, nel suo cervello annacquato, afferma molto spesso cose vere, cose che i grandi trascurano.
«È buona Sorella Chiara! Mi tratta bene!»
«Lei tratta tutti bene Giovanni!»
«Ha un cuore grande e generoso!» rincara Pietruccio.
Giovannetto stacca i frutti. «Compassionevole!»
«Come Gesù!» Irene si esalta. «Come il cielo!»
Si esalta anche Giovanni. «È bello il cielo!»
Elia no, Elia non si esalta o s'impietosisce. Si pianta lì, sbuffando. «Francesco, mi faresti la gentilezza di scendere?»
Finalmente lo zio parla.
«Ti sento benissimo anche da qui Elia.»
«Devo parlarti.»
«È urgente?»
«È importante.»
Francesco sbuca a testa in giù, dondolante su un ramo, una scimmietta appesa al suo trespolo, i capelli spioventi. «Ciliegie?» offre, porgendogli un cestino tracimante.
Elia batte il piede, braccia ai fianchi.
«Ti sembro in vena di scherzi?»
Gli ha solo offerto uno spuntino... «Una ciliegia addolcisce l'asprezza Frate Elia!»
«Sagge parole Piccardo!» Piacciono allo zio.
«Grazie zio!»
«Francesco.» Elia ignora frasettine fatte e infiocchettate. «Mi dispiace che le nostre opinioni divergano, ma-»
Mentre parla l'altro sperimenta l'arte del cogliere le ciliegie a testa in giù, il sangue affluente al cervello, gettandole nel cesto.
«Mi stai ascoltando?»
«Le orecchie ascoltano, le mani lavorano.» Si ficca un bocca un frutto, masticando la polpa, sputando il nocciolo, proiettile nell'erba.
«Ma.» riprende Elia, contrariato. «Per salvare il tuo sogno, la possibilità di vita che ci offri-»
«Cristo ce la offre, io fungo solo da mezzo.» specifica lo zio. «Sono un araldo.»
«Puoi smetterla d'interrompermi?» Perché ha la pazienza così corta? Piccardo detesta gli adulti che s'insuperbiscono, predominando nel battibecco e prendendolo tutto per sé. Elia n'è l'archetipo perfetto. «Dicevo, affinché il sogno non si dissipi occorre adeguarsi. Trovare un... un punto d'incontro con chi ti critica.»
«Gesù si adeguò a una provinciale e anonima vita da carpentiere? Cercò un punto d'incontro con gli aguzzini che lo crocifissero?»
«Stiamo parlando di due contesti opposti. Al tempo di Cristo-»
«Gli uomini soffrivano, dentro e fuori, esattamente come oggi.»
Frate Elia esala un sospiro rassegnato.
«Francesco, per favore, cerca di essere ragionevole...»
«L'amore è pazzia Elia.» Lo zio morde un'altra ciliegina. «Ricordi le ballate?»
«La vita non è il corrispettivo d'una ballata!» sbotta esasperato.
«Lo è. Altrimenti sarei sposato alla più pudica, splendida e cortese delle Madonne?» S'accendono in faville gli occhi dello zio, offuscati dalle lacrime, come ogni volta che menziona Madonna Povertà, la sua spasimante prediletta.
«Francesco...»
«O tutto o niente Elia. L'amore è un salto della fede e non conosce mezze misure.» Francesco ritorna a rivolgersi ai bambini, ponendosi a cavalcioni sul ramo. «Giovannetto!» grida al nipotino dalla bocca sbrodolata di succo rosso. «Dobbiamo raccoglierle, non farci una scorpacciata!»
Giovannetto, immancabile, s'è abbuffato a dismisura. Piccardo rotea gli occhi. «Ma momo momissime sio!»
Scioglie il cuore dello zio, sedotto dall'adorabile nipotino pestifero. «Qualche manciata, d'accordo?»
«Evviva!»
Il cuore di Frate Elia è, per contro, ghiacciato, insensibile. S'allontana scoraggiato, uno che ha perso la partita.
«Sei incorreggibile Francesco...»
Un anno e Pietro Cattani trapassa a miglior vita, librandosi verso la casa del Padre con un Ordine impelagato tra mille conti in sospeso. Le responsabilità gli hanno scavato la fossa, ritiene Ugolino. Pietro era troppo malleabile e tendente alla scuola di Francesco. Serve un capo di polso, arbitrario tra le fazioni e il poverello.
Fioriscono miracoli dalla tomba di Pietro, attirano devoti. Francesco gl'intima di smetterla e i miracoli cessano di colpo.
Ugolino s'apparta con lui all'ombra d'un graticcio di frasche nei dintorni della Porziuncola, il pomeriggio tiranno nell'arsura, frinente di grilli.
«Ora che Pietro, malauguratamente, ci ha lasciati, la direzione dell'Ordine non può rimanere vacante. Lungi da me interferire, ma privati di una guida rischiate grosso. Avresti già dei nomi da suggerirmi Francesco?»
Silenzio. Sta scarabocchiando assorto nella polvere.
Ugolino si schiarisce la gola, trapela un velo d'irritazione. «Francesco? Gradirei avere la tua attenzione quando discutiamo di faccende inerenti il tuo Ordine figliolo.»
«Non è il mio Ordine.» mugugna Francesco, non sollevando neanche il capo dal suo scribacchiare, un rametto disegnante solchi nel pulviscolo, forante buchi.
«Ma tu ne sei il fondatore!»
«Dio, nella sua infinita bontà, mi ha donato dei fratelli e delle sorelle.»
«Va bene...» Ugolino gli da corda. In certe occasioni questo ragazzo gli pare un indovinello indecifrabile, santi numi. «Dio ti consiglia qualcuno in particolare quale sostituito di Pietro, buon anima, a capo di questa fraternità? Orienta il tuo giudizio su un nome specifico che incontra il tuo favore?»
Reputerà qualcuno idoneo quantomeno! O Francesco era talmente estraniato nelle sue fantasie che non ha ascoltato nemmeno la prima parte del discorso?
«Elia.»
«Te l'ha confidato Nostro Signore?»
«No.» Francesco rialza lo sguardo, giocherellando con il bastoncino, lo sguardo innocente d'un bimbo con il carboncino degli scarabocchi e dei graffiti durante l'ora buca a scuola beccato in flagrante dal maestro. «Il mio giudizio.»
Come far rimangiare la parola, elegantemente.
Tuttavia, Ugolino riscontra i motivi, più vantaggiosi che il contrario, della proposta di Elia quale candidato alla dirigenza della baracca: colto, posato, diplomatico e svelto nell'azione e nella lingua. Un uomo dinamico, attivo. Moderno.
Ed è esattamente questa ventata di modernità, nuova linfa, che Francesco deve ficcarsi in testa, dannazione! La povertà andava bene finché erano in dieci, venti... ma ora sono centinaia, migliaia! L'Ordine dilaga in tutta Europa e la Chiesa non può lasciarsi sfuggire quest'inondazione di nuove pecore all'ovile.
Francesco e il suo esempio sono un rete nella quale molti rimangono impigliati, affascinati dalla predicazione, dalle gesta narrate. È vitale che Roma colga al volo questo frutto prelibato e lui, Ugolino, un intenditore di uomini santi, che ha fiutato l'affare in Domenico quando dei domenicani nessun cristiano aveva mai udito parlare, modestamente, ha occhio per materia di questo tipo.
Diamanti grezzi da lui mondati, lavorati, rifiniti.
Collocati nell'albo della grande famiglia della Chiesa.
Elia è l'alleato ideale - ha già avuto modo di constatare come molte loro posizioni si allineino - l'uomo che fa al caso suo...
Cioè loro, ovviamente, prima di tutto, loro, benefico per l'Ordine.
«I fratelli sembrano trovare congeniale la sua persona...» smozzica Francesco, picchiettando l'estremità del bastoncino a terra, bucherellando il piano polveroso. Per cosa poi? Ugolino non ci perde senno a capirlo. «Apprezzano il suo modo di porsi, la sua flessibilità. Elia sa destreggiarsi bene nei loro cavilli. Io sono un povero ignorante, un illetterato.» Ha studiato il ragazzo, Ugolino n'è informato, con scarso impegno, applicato più all'irruenza dei giochi di gioventù che a un buon libro di latino. Illetterato fino a un certo punto. «Non ci capisco niente di queste problematiche e non sto messo bene in termini di salute ultimamente. Elia servirà bene i nostri fratelli.»
I fratelli... e la Curia.
Ugolino si cuce le labbra. Ogni cosa a tempo debito. Sorridendo sornione, batte una pacca paterna sulle spalle di Francesco, ricurvo a scribacchiare nella polvere.
«Scelta assennata figliolo, i miei complimenti.»
Francesco bofonchia qualcosa sottovoce, rapito nella realizzazione della sua strampalata opera d'arte. Ugolino inclina il capo, curioso.
«Si può sapere a che ti stai dedicando?»
Il fraticello lo fissa profondamente - quel suo sguardo penetrante e carismatico, diverso dalla solita fanciullesca, placida, dolcezza - e si picchietta il bastone sul palmo della mano. Spire di soggezione avvincono il Cardinale.
«Sentieri e scorciatoie per Sorelle Formiche.» rivela con una nota di noncuranza, come se scavare solchi per gli insetti e i loro sciami fosse materia quotidiana, normale, e i turbamenti dell'Ordine una nonnulla in confronto. «Non faticheranno a trasportare le loro provviste verso il formicaio d'adesso in avanti.»
Alle formiche - microscopiche, fastidiose, nere insignificanze - Francesco pensa, assumendosi i loro affanni, liberandole dai loro crucci. Quando è tirato in mezzo l'Ordine e gli ostacoli che ne ostruiscono la piena maturazione, da l'impressione di volersi sottrarre, scomparire, volatilizzato nell'aria satura di pollini e odori campestri, di volersi tuffare nei boschi e laggiù, in quelle ombrose, secolari profondità, nascondersi. Da tutto. Uomini, accuse, provocazioni.
Da solo, lui e le belve.
Ugolino si rilassa sullo scranno, sorridendogli bonario, asciugandosi la fronte sudata, sospirando. Il caldo grava sulle vesti appesantite da ricami, dorature, cosparse di perle. Il caldo strizza e prosciuga, inaridendo la gola, acuendo la sete.
Francesco è veramente un rompicapo.
«Chiara si è sentita male.»
Uno stralcio di frase e Leone vede Francesco scordarsi completamente della raccolta delle olive e saettare lungo i terrapieni, sfrecciando a rotta di collo così rapidamente, come se null'altro rivestisse importanza. Leone non perde tempo a seguirlo.
Si catapulta in San Damiano, l'amico, tempestando le monachelle di domande.
Dov'è Chiara? Che ha accusato? Sta male? È grave? È svenuta?
Ortolana - al secolo prosperosa matriarca del ricco casato che ha dato i natali a Chiara, Agnese e Beatrice - gli sintetizza sommariamente come, per l'ennesima volta, la figlia abbia esagerato con la pratica del digiuno.
«Non ha addentato cibo per quattro giorni di fila! Quattro! Abbiamo provato a smuoverla. Credi che ascolti? Sono sazia di Dio, diceva. Ammirevole e pio, l'amore di Chiara per l'Altissimo è edificante, ma ha perso i sensi davanti ai miei occhi!» La madre vede in Francesco un faro di speranza. «Convincila tu, a te ubbidisce senza battere ciglio. Rimarcale il consiglio del vescovo.»
Francesco la tranquilizza, addentrandosi nel dormitorio sgombro. Leone gli viene dietro, un segugio.
Anche nel giaciglio i costumi di Chiara si sono stemperati. I primi tempi dormiva su uno scomodo guanciale di tronco, irrorandolo di pianto mentre pensava alla Passione, il pavimento suo materasso. Francesco, da amico pronto all'aiuto, è intervenuto, obbligandola a un letto meno disumano e Chiara s'è adattata a un pagliericcio e dei sacchi di sarmenti.
Povero quanto basta, uniforme ai lettucci delle sorelle, ma non doloroso.
Si rialza contro una muraglia di cuscini, pallida, una bellezza smunta, il soggolo allacciato a occultare il rado ciuffo biondo gaudente di riflessi dorati. Un sorriso si dipinge in lei, assoggettando tutto il viso d'una luce meravigliosa.
La luce di Chiara.
«Francesco...»
Lui ruba una sponda del letto, le prende le dita macilente, che pasti nutrienti stanno rimpolpando. «Stai mangiando adeguatamente?»
«Certo!» conferma senza titubanza.
Francesco le rifila uno sguardo da maestro a conoscenza della birichinata operata dalla sua alunna. «Chiara...»
A quello sguardo lei cede.
«Digiuno per amore.» gli confessa, non perdendo il sorriso. «Agli innamorati non si chiude spesso lo stomaco?»
«Fratello Corpo è tempio dello spirito. È contrario all'intenzione creatrice di Dio che crepe e crolli ne minino il basamento, lo capisci?»
«Sono lieta di farlo!» dichiara Chiara con enfasi, puntandosi un dito al petto. «Le sofferenze altrui le vivo dentro di me!»
«È lodevole il tuo desiderio di spartire e sobbarcarsi i dolori dei nostri fratelli e delle nostre sorelle angustiati dai morsi della fame.» si complimenta Francesco, tornando alla ramanzina. «Ma, credimi, a tutto c'è un limite. Fratello Corpo va tutelato, Fratello Stomaco appagato.»
«Sarebbe ingordigia.»
«Basta rimanere frugali. E poi questa storia d'un tronco di legno come guanciale!»
«L'ho eliminato.» Chiara distoglie lo sguardo, mortificata, imporporandosi. «Sono stata ubbidiente, l'ho eliminato da un po'. Ora dormo su un pagliericcio, non più sul pavimento nudo, come mi hai imposto.»
«Rinnovo il mio invito a nutrirti con almeno un'oncia e mezza di pane al giorno.» L'amico intreccia le dita con le sue. «Il vescovo Guido concorda con me, lo sai.»
«Sì... mi rincresce caricarti di nuove stupidaggini a cui pensare.» sospira la badessa di San Damiano, vergognandosi d'aver disturbato Francesco per un motivo, a suo parere, futile. Chiara si considera indegna pianticella, Leone sa che sbaglia. Non c'è nessuno, salvo Dio, che Francesco ami con una tale bruciante, totalizzante, abnegante intensità. «Sei già tanto preso, ti sto solo facendo sprecare tempo...»
«Pianticella mia, con te non spreco mai tempo.» Addolcisce la severità.
«E tu invece?» pone discreta Chiara. «Non te la passi bene?»
«Cosa te lo suggerisce?»
«Una bestia da soma sarebbe meno stravolta Francesco.»
L'assillo per la Regola e l'apprensione per le sorti dell'Ordine si rispecchiano sulle sue occhiaie. Dal suo riapprodo in Italia Francesco non sembra in forma. Oddio, onestamente una salute ferrea non l'ha mai vantata, però pare che si sobbarchi un malloppo gravoso, pesante più d'un quintale.
Preoccupazioni, preoccupazioni e preoccupazioni.
Sospira, stringendole la mano. «Elia e altri protestano e schiamazzano, premono affinché dia loro una Regola. Hanno dimenticato di possederla già.»
«Incarnata e trafitta per amore.»
«È un Dio troppo umano o un umano troppo Dio per loro, non lo so. Non so più cosa pensare. Mi sento...»
«Come?»
Francesco reclina il capo, si smarrisce nella contemplazione del soffitto.
«Mi sento come se l'oscurità intera del cosmo mi stesse travolgendo e non avessi nessuna luce per fronteggiarla. Sono solo. La luce di Dio è un fioco lucignolo. La sua voce soverchiata e dispersa nel brusio incessante di lagne e feroci critiche. Mi chiedo dove ho sbagliato, se ho sbagliato. Se ho fallito in quanto padre, guida.»
Sbagliato? Francesco non ha sbagliato un accidenti, casomai sono quella masnada d'incontentabili livorosi che imbastiscono conciliaboli intorno a Elia quelli da incolpare! Leone si trattiene, tossicchia nei margini in penombra.
Chiara infligge colpetti sul dorso di mano dell'amico. «Io ardo costantemente davanti all'altare di Dio, l'olio mio si consuma, sono una zattera di candela nel mare insidioso delle tenebre. Minuscola, ma tenace. Sola, ma pur sempre una luce.»
Su Francesco rinasce il sorriso.
«Una chiara luce. Di nome e di fatto. Per me e per il mondo intero.»
Si sorridono, lui le sbaciucchia cortese le nocche, quei loro dialoghi di sguardi, fusione dolce. Infine Francesco si alza, sgranchendosi.
«Cerca di riprenderti e non deviare dai miei ammonimenti! Lo dico per il tuo bene.»
«Lo so.» se ne pente Chiara. «Sono una scolaretta discola.»
«Un'amante devota fino all'estremo.» le accarezza la fronte, la carezza tenera d'un padre, d'un fratello maggiore. «La fedeltà coniugale è una virtù.»
Dopo un secondo d'immobilità esplodono a ridere in sincronia, paralleli nel sentiero pure su questo, complici in fieri.
Francesco le scansa una ciocca ribelle, ricacciandola nel soggolo.
«Riposa mia pianticella, riposa...»
Elia impone a Francesco, vincolato dal voto d'obbedienza, di scrivere una Regola di vita. Guarirà l'Ordine dalla sua paralisi.
Francesco si sottomette al suo volere.
È lui il Ministro Generale, suo superiore. Non si ribatte.
«Il cammino è impervio, lungo e faticoso.» Francesco fessura le palpebre, inalando gli odori. Sonda la vastità che si staglia innanzi a loro, le colline velate d'ulivi e le pianure fertili, pregne di grano, papaveri e i calici sfumati dei fiordalisi. «Gradirei allietarlo con una canzone che ci solleverà lo spirito. T'importuna Leone?»
«Niente affatto Francesco, canta pure.»
«Posso?»
Leone assente.
«Ne riesumo una dalla mia infanzia.» La corona merlata d'Assisi si rimpicciolisce, Francesco individua il sentiero biancheggiante, ma, suo solito, intraprende la via più strampalata. «Maman la cantava ogniqualvolta dovevamo partire o prima d'un congedo per un lungo viaggio. La canticchiavo anch'io, più avanti, quando galoppavo per commerciare e la bottega mi portava lontano.»
«È in francese.» deduce Leone.
L'ha previsto: italiano e francese rimbalzano a intermittenza sulla lingua di Francesco, invasandolo con il loro prorompente ardore quando allestisce le sue prediche.
«Oui!» esclama Francesco e si lancia giù per il pendio, la via strampalata, aprendo le braccia, saltellando, manca poco che s'erga in volo, leggero come una foglia nella presa del vento. «Le jours s'éteint soudain, là-bas au lointain. La tours illuminé, n'est plus ma maison. Je couche désormais sur du sable noir. Je quitte mon passé pour une autre histoire.» Il canto cavalca le ali del vento, Leone non perde tempo: corre dietro a Francesco, rallegrato da quel canto tanto vivace, fitto di ricordi. «Appel moi, appel moi terre éloigné. Je dois commencer cette longue journée. Il me faut commencer cette longue journée.» L'altro l'aspetta alle pendici, ansimante, ma con gli occhi sfavillanti di brio, eccitazione, monelleria. I versi s'incupiscono, una cupezza passeggera. «J'ai la gorge sèche, le ventre affamé. Mes force s'épuise, mais j'dois continué. Mes pieds sont fatigués, le voyage est long. Rien pour me consoler à par cette chanson.» Francesco piroetta, il cordone fustigante nell'aria. «Chante pour moi, chante pour moi terre éloigné. Voudrais tu me guider en cette journée. Promet moi de m'aider en cette journée.» Si volta, incrocia Leone e sorride, sgravato dai pensieri di Ugolino e potenti amici. «Andiamo Leone!» varia all'italiano, incitandolo. «Prima si parte, prima si giunge!» S'inoltra nell'erba, giù fino al sentiero, un nastro abbacinante di ghiaia che si snoda nella campagna. «Enfin viens la réponse, du gèle et du froids. Tous ceux qui ce cherchent ne ce perdent pas. Qu'importe le chagrin, la peur ou l'effroi. Tous ceux qui ce cherchent ne ce perdent pas...»
Tutti coloro che si cercano in realtà non si smarriscono mai.
Chi erra non erra, contrae Leone.
«Siamo come un cavaliere e il suo fido scudiero!» intona melodioso Francesco lungo la via. «Francesco e Leone, al servizio di Cristo Gesù, l'Emmanuele e il Signore!»
«O un pastore e la sua pecora.»
«Frate Leone, Pecorella del Signore... non potevano assegnarti nome più contraddicente la tua indole! Sei l'inverso: mansueto come una pecorella. Leone, Leone, Pecorella del Signore! E scudiero di Frate Francesco piccolino!»
«Tralasci scrivano.»
«Preferisco raccontastorie. Condisce con un tocco epico il tutto!»
Epico. Vede proprio la vita come una ballata.
I campi sono mari di grano dorato. Tavolozze di papaveri, fiordalisi, nuvolette dei signorili fiorellini di camomilla. Ciuffi d'erba crepano i sentieri. Francesco si ferma, pone in salvo vermicelli, insettini, cavallette, cicale, ranocchie, persino i coaguli delle uova di rana, ovuli biancastri, o i girini nelle pozzanghere. Lo toglie dalla strada, questo brulichio del sottosuolo, ponendoli nei fossi che la costeggiano o nelle radure, deponendoli sulle foglie, per evitare che vengano calpestati.
Marciano in sintonia con il paesaggio leggero, impalpabile, dipinto a pennellate da un innamorato, dall'amore del buon Dio, da un bel po', il sole calante. Uno stridio li costringe a voltarsi. Francesco esulta. Leone è interdetto.
Un... fagiano svolazza nella loro direzione.
«Un altro valente avventuriero s'associa alla nostra combriccola!» Francesco l'abbraccia, il pollastro gli balza in grembo, lui casca a terra, scoppiando in fragorose risate. «Fratello Fagiano, bentornato! Ci sei mancato.»
Bentornato. Quello è il fagiano proveniente da Siena che non poteva starsene separato da Francesco! Da dove sbuca?
«Leone, approvi la permanenza di Fratello Fagiano presso di noi?» glielo chiede trepidante, bimbo implorante il babbo di poter tenere il randagio salvato per strada. Un fagiano randagio in questo caso.
«Non vedo nulla in contrario Francesco.»
Non poteva renderli - umano e volatile - più felici.
«Allora ben venga nostro adorato Fratello Fagiano!»
Mietono un campo per un contadino in cambio d'un fienile in cui trascorrere la notte. Il sole picchia, la calicola infierisce, le spighe si piegano, gravide di sementi. Il loro anfitrione li ricompensa tramite un vassoio di pane e formaggi.
Leone si risveglia di soprassalto, la luna smunta in una falce. Il lato di Francesco è pervaso del calore disertato. Non c'è.
È uscito, scopre. Scandaglia le profondità d'un pozzo poco fuori dal fienile, sporgendosi sul bordo. S'accosta, Francesco osserva la luna riflessa sull'acqua in fondo, frammentata nelle increspature.
«Cosa vedi nel pozzo Francesco?»
«Vedo... vedo il volto di Chiara.»
La vede dappertutto. Chiara è la stella più fulgida del suo firmamento, la sua opera d'arte, il suo capolavoro. Come tutte le cose belle, va ammirata da lontano.
La lontananza non svigorisce il loro legame, un cordone di luce tra due anime gemelle, predestinate, cantanti all'unisono.
Monte Raniero. Speroni di roccia irti, irsuti di boschi intricati e maestosi lecci secolari, un paesino adagiato alle pendici. Sarà il loro eremo, calderone da cui estrarranno la Regola, plasmandola per l'Ordine e le sue discordia.
«Leone guarda!»
A una fonte d'acqua cristallina zampillante dalla roccia uno stormo di colombe bianche s'abbeverano, spulciandosi nel piumaggio, pulendosi e pucciando il beccuccio. Francesco congiunge le mani, estasiato.
«Sorelle Colombe s'abbeverano alla fonte dispensata loro da Madre Terra. Noi c'abbevereremo alla Parola di Nostro Signore, quassù, nella sacra quiete di questi boschi incontaminati. E le nostre anime sbiancheranno fino a rasentare il candore immacolato e casto delle nostre sorelline alate.»
Sarà il loro Sinai.
«È un buon presagio questo.» sostiene Leone. Le colombe sono creature bibliche, dal forte significato e rimando.
«Un segnale dall'alto.» pondera Francesco, chiudendosi nella meditazione. «Fonte Colombo... mi piace come nome.» Sottopone il nuovo battesimo del monte al suo giudizio. «Incontra la tua simpatia Pecorella del Signore?»
«Francesco, perché domandi sempre il mio parere?»
«Se calpestassi la tua opinione svetterei come capo, il potente tra noi due. Non lo sono e non ho intenzione d'iniziare a esserlo ora, condizionato da queste crisi d'onnipotenza che girano.» Una frecciata alla supremazia d'Elia? Francesco leva lo sguardo alla vetta annuvolata, incombente sopra di loro. «Forza Leone, ci conviene cominciare a salire e rintracciare una grotta.»
L'autunno imbeve, umido, ventoso.
Sferza e flagella, ululando nelle gole, nella cavità, colmando le depressioni rocciose e la solitudine delle selve. Avanza, incedendo lento, con la strascicata, sonnolenta andatura preludia del letargo. Il sonno greve che scenderà sulla vita, congelandola e irrigidendola fino allo sboccio della primavera.
Mangia come un morbo nocivo, l'autunno, decompone, presentimento della fatalità delle cose, della brevità. Scolora e sbiadisce, l'autunno. È uno straccio logoro, stinto, trasandato nel suo fogliame vorticoso, sbarazzino.
Consunto, coriaceo, imbacuccato nel muschio.
Germinano funghi, bulbosi e molli. Gli alberi si denudano, s'incendiano in roghi fiammeggianti, rutilanti e marciscono, accartocciandosi, rimboccando coperte di foglie secche e mosce alla terra conservante l'ultimo palpito d'estate.
Il calore si sigilla sottoterra, rintanato, nell'utero terroso, venato d'un viluppo di radici pallide, fini, che s'ingarbugliano in una trama da cui non s'imbuca nemmeno un flebile fiotto di luce. Le fiere s'acquietano, sonnecchiano. Gli stormi migrano.
L'autunno è un pigro mutare, progressivo, naturale.
Il funerale della natura.
Dove prima c'era movimento, frenesia, baruffa, ora c'è immobilità. Il silenzio spodesta il chiasso, la pace lo sprezzante veleno delle critiche mosse a Francesco.
S'impiantano bene, nella grotta, lui e Leone. Una profonda frattura nelle viscere della montagna, stretta e obliqua, come una ferita aperta su questo grembo roccioso. Circondati da un bosco di lecci secolari, a picco su strapiombi coronati di guglie affilate, creste acuminate e massi appuntiti, ringraziano Dio di quel riparo fortuito.
Bevono al ruscello, raccolgono frutti dagli alberi. Castagne, fichi, mele cotogne. Un pero sbilenco è generosamente addobbato di succose offerte.
La compagnia umana viene meno, quella animale - se le bestiole non si sono già rincantucciate nel tepore indolente del letargo - s'intesifica.
Fratello Fagiano è presto affiancato da Fratello Lupo, le immancabili tortorelle che riescono a stare senza Francesco, debitrici della loro libertà. Uccelli che non migrano con l'avvento dei primi geli. Innaturale. Ma, quando si conosce Francesco, l'anormale diventa normale, quasi abitudinario.
Leone non è turbato dalla loro presenza e non li scaccia.
«Da dove iniziamo?»
La Regola li ha condotti in quest'alta solitudine e la Regola stileranno. È il loro dovere, entrambi lo riconoscono. Accomodandosi in un mucchio di foglie crocchianti, Leone intinge la penna nel calamaio in terracotta, una roccia sporgente suo leggio.
Francesco si sfrega le palpebre, alitando nell'aria penetrante e osservando la condensa del suo fiato dissolversi, svaporando.
«Dal principio.»
Leone si prepara, teso alle parole che stanno per fuoriuscire da Francesco. Le normative dell'Ordine. I cardini. Ciò che Francesco detterà sarà scolpito quale legge.
«Scrivi Leone.»
Capitolo I
Che i frati vivano in obbedienza, in castità e senza nulla di proprio
La regola e vita dei frati è questa, cioè vivere in obbedienza, in castità e senza nulla di proprio, e seguire la dottrina e l'esempio del Signore nostro Gesù Cristo, il quale dice: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi tutto quello che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e poi vieni e seguimi», e: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»; e ancora: «Se qualcuno vuole venire a me e non odia il padre, la madre, la moglie e i figli, i fratelli e le sorelle e anche la sua vita stessa non può essere mio discepolo». E: «Chiunque avrà lasciato il padre o la madre, i fratelli o le sorelle, la moglie o i figli, le case o i campi per amore mio, riceverà il centuplo e possederà la vita eterna»
Tratta dei fratelli che devono venire ricevuti e accolti, il loro anno di prova e i voti intrapresi. Sul digiuno Francesco richiama le Sacre Scritture.
Capitolo III
Del divino ufficio e del digiuno
Dice il Signore: «Questa specie di demoni non si può scacciare se non con la preghiera e col digiuno». E ancora: «Quando digiunate non prendete un'aria melanconica come gli ipocriti».
Nel digiuno si calza la fame altrui, patendo e spartendo le sue sofferenze. L'uomo che soffre la fame non è solo. I frati s'abbassano a poveri tra i poveri.
Leone verga, uno svolazzo d'inchiostro, il pennino raspante sulla pergamena, al galoppo sfrenato su campi di pelle. Francesco detta a una velocità frenetica, le parole spillano impetuose, s'accavallano.
Non riesce a stargli dietro. Leone arranca, il polso dolorante. «Vai piano Francesco, vai piano. Non riesco a seguirti.»
Ripete con pazienza, scandendo, fissando assorto il bosco, le giravolte delle tortorelle. Francesco è sprofondato nel suo mondo, un velato sorriso rivolto alle creature sue sorelle.
«L'obbedienza.» prorompe di getto. «Sanciamo il punto dell'obbedienza.»
«Ai superiori.» Pennino spiluccante l'inchiostro. Leone ha riguadagnato terreno, è pronto a ricominciare. «Ci sono, dimmi pure.»
Custodite, perciò, le vostre anime e quelle dei vostri fratelli, perché è terribile cadere nelle mani del Dio vivente. Se poi qualcuno dei ministri comandasse a un frate, qualcosa contro la nostra vita o contro la sua anima, il frate non sia tenuto ad obbedirgli, poiché non è obbedienza quella in cui si commette delitto o peccato.
Disobbedienza e ribellione osteggiante i superiori.
Leone n'è costernato, si blocca. Francesco sta rivendicando il diritto di opporsi, difendendo il moto della propria coscienza. Contradditorio. Enormemente contraddittorio. E divisorio. Elia non ne rimarrà contento, lo sente.
Un azzardo, un pugno alle invadenze della Curia.
«Francesco...»
Ma lui è perso, trascinato nella narrazione, un ruscello travolgente e rapinoso.
Capitolo VI
Del ricorso dei frati ai loro ministri e che nessun frate sia chiamato priore
I frati, in qualunque luogo sono, se non possono osservare la nostra vita, quanto prima possono, ricorrano al loro ministro e glielo manifestino. Il ministro poi procuri di provvedere ad essi, così come egli stesso vorrebbe si facesse per lui, se si trovasse in un caso simile.
E nessuno sia chiamato priore, ma tutti siano chiamati semplicemente frati minori. E l'uno lavi i piedi all'altro.
Uguaglianza e parità, giusti concetti. Ma la ribellione? L'istinto e il cuore guerreggianti con l'ordine, l'imposizione e le gerarchie.
Il ringhio livoroso di Elia, quando s'imbatterà in quel passo, lo sente già schiumare di rabbia e stizza. La Curia dibatterà, sorgeranno discussioni, lo bocceranno.
Francesco sta rischiando, esponendo una posizione che più assennati e timorosi gli avrebbero consigliato caldamente di tenersi per sé.
Leone non vanta il senno o ha maturato un discernimento e un piglio da studioso, però la proporzione del polverone, dello scapore, che il confratello, inserendo quelle parole controverse e chiare, desterà, gli rizza i peli del collo.
Che Elia le sorvoli...
E possano avere gli arnesi e gli strumenti adatti ai loro mestieri.
Tutti i frati cerchino di applicarsi alle opere buone; poiché sta scritto: Fa sempre qualche cosa di buono affinché il diavolo ti trovi occupato, e ancora: L'ozio è il nemico dell'anima. Perciò i servi di Dio devono sempre dedicarsi alla preghiera o a qualche opera buona.
Si guardino i frati, ovunque saranno, negli eremi o in altri luoghi, di non appropriarsi di alcun luogo e di non contenderlo ad alcuno.
E chiunque verrà da essi, amico o nemico, ladro o brigante, sia ricevuto con bontà. E ovunque sono i frati e in qualunque luogo si incontreranno, debbano rivedersi volentieri e con gioia di spirito e onorarsi scambievolmente senza mormorazione.
E si guardino i frati dal mostrarsi tristi all'esterno e oscuri in faccia come gli ipocriti, ma si mostrino lieti nel Signore e giocondi e garbatamente amabili.
Gaudenti e vivaci, rifuggendo i musi lunghi e i bronci e le lagne. Saltellanti, esuberanti e vispi, euforici d'amore. Pazzi sgangherati di gioia, ebbri di contentezza.
Fratelli del sole, raggianti nella carità.
Fratelli della luna, meditabondi nella contemplazione.
Leone approva.
«Il lavoro.» Un millepiedi striscia sull'avambraccio di Francesco, gli si inanella giocoso intorno alle dita, zampine sottili come crine. «Il lavoro è l'anima del frate operoso. Dobbiamo sempre tenerci occupati, quando non recitiamo le orazioni. Quando lavoriamo non accettiamo compendio in denaro.»
Non si discosta d'una virgola dalla loro quotidianità. Ricompense in cibo e solo se viene offerto.
«Chi non lavora.» Il millepiedi s'avventa sul saio di Francesco. «Non mangia.»
Il Padre Celeste penserà a rimpinzarli, lui che nutre ogni giorno, i passeri.
Leone copia, trasporta il disegno di Francesco sulla pergamena, bagna il pennino e scrive, scrive e scrive, riccioli artificiosi d'inchiostro, i caratteri piccoli e stringati che s'assiepano sulla pagina, susseguendosi eleganti.
Pregano e scendono a valle a mendicare e l'autunno conquista. La carica, ubriaca pienezza dell'estate soccombe a una malinconia intirizzita di brinate notturne.
Si svegliano al buio, quando l'alba è un'immatura striscia rosata, un fioco barlume, lungo il profilo dell'orizzonte, sedendosi sul terriccio e intonando le consuete preghiere. Gli animali partecipano, qualche volta, il loro fragore una preghiera in un diverso idioma, la lingua primordiale della concordia.
Uno strato iridescente di gelo ammanta i rami sfibrati e i cespugli svigoriti, poi evapora con il sorger del sole. I respiri si disperdono in sbuffi vaporosi. Francesco tratteggia in uno schizzo una croce a T sulle ruvide pareti.
Un tau.
Il simbolo dei salvati. I prescelti alle meraviglie del Regno alla fine dei tempi. Diciannovesima lettera dell'alfabeto greco, sarà dipinta sulle fronti degli eletti nel giudizio finale. Ispirato dall'Apocalisse? Leone non indaga.
I contatti umani, quando non avvengono nel paesino ancorato alle pendici del monte, sono orchestrati dal Signore.
È mattina e stanno revisionando la bozza, rileggendola in una prova di come suoni, e un avvicendarsi di passi - crepitio di foglie e ansimi in avvicinamento - li distolgono dall'operato. Chi sale a quest'ora? Un pellegrino? Un curioso?
«Silvestro!»
Frate Silvestro, l'affabile e amabile Silvestro prete ordinato, incespica, calciando i massi di foglie in voli rossi e ingialliti. S'appiglia a un tronco, una bisaccia a tracolla suo unico bagaglio. Riprende fiato, stanco dall'arrampicata.
Francesco, dimentico della Regola, salta in piedi, buttandosi in un abbraccio. Silvestro trasecola, ma lo spavento si tramuta in sollievo.
«Ben trovato Silvestro!» gioisce Francesco, trascinandolo all'interno del loro rifugio. Si munisce della loro riserva d'acqua, una brocca, facendolo sedere e lavandogli i piedi dalle incrostazioni, la fanghiglia del viaggio.
Che si lavino i piedi l'un l'altro, rievoca Leone. Francesco applica il precetto da lui stesso impartito, estratto dal Vangelo, praticandolo con fermezza, sordo a Silvestro, divagante su come sia da scellerati sciupare acqua per lui - Francesco, per favore, davvero, sono a posto - e convizione.
Sbollito l'imbarazzo, Silvestro vira su argomenti più lieti.
«Felice d'appurarvi integri e felici.»
«La letizia del Signore ci sostiene.» L'altro ricolloca la brocca nell'angolo. Leone si sgranchisce, arrotola la pergamena. Riprenderanno più tardi. Un amico non si fa attendere. «Tu, piuttosto, come te la passi?»
«Resisto e lodo Dio.» Silvestro s'incupisce. «Mi duole ritrovarvi latore d'infauste notizie, ma ad Assisi il clima è teso, rovente.» Arpiona Francesco con lo sguardo, mesto e contrito. «Ammattiscono affinché tu ti spicci con questa Regola.»
«E Bernardo, Ginepro e gli altri?» Interrogativi leciti. L'opinione dei loro compagni sarà calcolata? «Che dicono?»
«Sai che noi primi siamo e saremo sempre dalla tua parte Francesco.»
Se l'avessero bastonato avrebbe esternato una smorfia meno piccata.
«Non ci sono parti, solo fraintendimenti. E noi siamo qui per rimediare. Strumenti di pace per riappacificare. Delegati dal Medico per risanare.»
Silvestro interpreta la sua stizza, riparando immediatamente all'offesa.
«Certo, certo, perdona la mia sbadataggine... oh!» S'illumina, sfilandosi la borsa. «Ecco appunto! Me lo stavo scordando!» Fruga, sbrogliando i lacci, estraendone due pani tondi, segnati dalla croce. L'involto d'una coperta rammendata è deposto sopra di loro. «Chiara ti manda questi, pregandoti di riguardati e augurandosi che stiate bene.» Emerge un cavallino in pietra. Lucido, forma elementare, un accenno di frogie e sella scanalata. «Angelo e i tuoi nipotini t'inviano questo, con gli auspici d'un pronto rientro. Ai bambini manchi Francesco.» Elencati tutti i doni, Silvestro esala un pesante, intenso sospiro. «A tutti noi.»
«Cristo è il vostro faro, non io, suo spregevole servo.» Francesco esamina il cavallino, i suoi zoccoletti tozzi. È ricavato dai ciottoli screziati arenanti sui banchi d'un fiume.
Così interessante il balocco? Leone tributa a Filippo la gratitudine al posto suo, assorbito dal giocattolo. «Ringraziali tutti da parte nostra.»
«Chiara sta bene?» Il cavallino gira, s'impenna sulle sue ginocchia. Pur rapito dall'immaginazione, Francesco pone la domanda con vivo interesse. Si preoccupa della sua pianticella. «Mangia a sufficienza?»
«Beh, l'ultima volta che mi sono intrattenuto presso di lei... ci stava provando... con molto impegno e piena solerzia, te lo posso assicurare!»
Il gioco s'interrompe. Francesco appunta un'occhiata espressiva su Silvestro, poi si curva in avanti, preleva una pagnotta e la spezza a metà.
«Francesco-» Leone è allibito. Consumano quanto necessario, ma mezza pagnotta non sosterrebbe nemmeno un redivivo!
«Riportalo a Chiara e dille che le ordino di nutrirsi di più.» ingiunge a Silvestro.
La Pecorella del Signore deve obbiettare. «Ma Francesco-»
«Un fattore cura la sua pianticella Leone.» taglia corto l'amico.
Curare. Naturale. A Chiara è interdetto dal suo Padre e amico dormire su un tronco di legno, scabroso e duro, convertito in guanciale. È vietato, sconsigliabile per la sua salute, digiunare a oltranza. Francesco invece se ne arroga il diritto, a quanto pare, ignorando volontariamente le conseguenze che una vita aspra, penitente, all'insegna delle rinunce e delle privazioni implicano per il suo fisico.
Leone non spiccherà per estro o scaltrezza, ma ha avuto modo di vedere il letto - se quella conca si può paragonare a un letto - su cui Francesco riposa - dormire è un'esagerazione - nelle ore esenti da veglie, digressioni sulla Regola e scorribande a racimolare il minimo indispensabile per campare.
Roccia. Nuda escrescenza di roccia.
Niente coperte, i cuscini li ripugna, paglia o fogliame manco a scherzarci sopra.
Le febbri lo bersagliano a intervalli, passeggere al momento. Leone teme, in completa onestà, che possano aggravarsi e la tosse - sbotti dirompenti di sangue, Francesco crede che ne sia all'oscuro, ma l'ha udito scatarrare rumorosamente nel cuore della notte - intensificare la sua morsa, risucchiandogli l'aria.
Sta male e persiste tenacemente, temerariamente e, soprattutto, testardamente a mortificarsi. Lui, che sostiene che Fratello Corpo non vada castigato invano!
La roccia su cui dorme non assorbe calore. A qualsiasi ora del giorno è in ombra, un coacervo di tenebre immanenti, immobili e fitte. È gelida.
Lo stuzzica la malsana, scriteriata teoria che, torturando il suo corpo, Francesco stia cercando di scuotere qualcosa nel suo interiore. Una forza. Una vitalità che prima sprigionava a bizzeffe e ora cuoce fiacca, debole.
Di attizzare la fiamma da ceneri sopite.
Quale fiamma?
«Non puoi sostentarti con mezza pagnotta!» Nelle tue condizioni, gli piacerebbe aggiungere. «Fai tanto la paternale a Chiara e poi...»
La risata di Francesco lascia Leone interdetto.
«Un genitore si sacrifica per i suoi figli.» motiva lui, una risata reale, genuina, di quelle che costellavano il loro cammino. «Anche se tu sei come una madre!»
«Una madre?» Che paragoni insoliti!
«Amorevolmente assillante quanto una mamma. Segnalo nella Regola.» Torna a concentrarsi, remoto, sul cavallino intagliato. «Che i frati, tra di loro, debbano amarsi e soccorrersi come madri.»
Maternità. La faccia tenera, guardiana dell'amore.
A valle s'inasprisce, bruciante, il tanfo agrodolce della muffa.
La brina al mattino ricama arabeschi sui vetri appannati. Il muschio s'impregna d'umidità, una spugna bagnata e soffice.
Spremono la vendemmia in colossali vasche e botti, pigiandola in saltelli che degenerano in balli, in balli che si deformano in un tripudio di gozzovigli, ubriachi, alterchi, zuffe e sconcerie davanti a cui i baccanali depravati dei pagani impallidirebbero.
Ma intervengono i santi intronati sui catafalchi delle processioni a ripristinare il decoro e sedare le baruffe. I paesani allora moderano la loro festosa irruenza, cantilenando nei cortei attraversanti il borgo.
Riposti i patroni sui loro altari, pampini e grappoli riprendono a intrecciarsi e la musica allieta i cuori, attenuando la sbornia e i postumi che derivano.
Bagordi da cui Leone e Francesco ben si guardano, ribalderie scostumate. Bazzicano le strade alla ricerca d'un tozzo di pane e un briciolo di carità, benedicendo i passanti. Appena gli si presenta l'occasione Francesco coglie il momento per predicare e allora pare fondersi con il colorito, triviale e giocoso circondario.
Improvvisa, gesticolando, recitando, cantando, piroettando alla stregua d'un matto, dello svitato del villaggio. I bambini lo attorniano, ridendo sguaiati, roteando inviperiti, entusiasti, eccitati nel gioco.
«Dio ci ama!» scandisce, sbracciandosi in esibizioni fantasmagoriche. Giullaresche, nel pieno senso della parola. «Dio ci ama e in che altro modo possiamo celebrarlo se non sorridendo e amando a nostra volta? Ricambiamo il suo amore, la sua indicibile tenerezza mostrandoci attenti e aperti verso i fratelli! Concateniamoci nell'amore e saremo inarrestabili!» Mima una catena, allestendo una boccaccia, scatenando un putiferio di risatine dai bimbi. «Cavalieri della Tavola Rotonda! Paladini di Gesù! Eroi solenni e insigniti della spirito! »
È proprio contornato da una baraonda di bambini scalmanati, figli di braccianti e bottegai e contadini, che Leone lo becca, una sera, di rientro dalla ronda d'elemosine.
Francesco, sugli scalini della chiesetta, ne fa rimbalzare uno sulle ginocchia. Un monello si diverte con il suo cordone, annodandolo e sciogliendolo. Un trio di signorinelle arrossisce ai suoi raffronti tra la Povertà e un'avvenente, pudica donzella dei racconti cortesi. Ai suoi piedi, un lattante si ciuccia le manine paffute.
«Ciao Leone!» l'omaggia al rilevare la sua venuta.
Coglie subito che, nell'ameno quadretto, manca qualcosa d'essenziale.
«Dove l'hai messa la coperta di Chiara?»
«L'ho regalata.» dice Francesco candidamente, come se fosse una cosa da nulla.
«Regalata?» A chi l'ha rifilata? Lo teneva al caldo!
Francesco annuisce sorridente, fiero del suo gesto. Normalità per uno come lui, però Leone apprezzava quel tocco da parte di Chiara, un pensiero a un Francesco maggiormente perseguitato dalle febbri.
«A una povera vecchietta che tremava di freddo davanti alla sua stamberga!»
Tremiti che assaliscono lui. Il profluvio di bimbi non emana abbastanza calore. «Francesco, tu stai tremando di freddo adesso.»
«Ma no!» lo contraddice, sorridendo a iosa, abbracciando due piccoli che l'affiancano. «È eccitazione, giubilo, brucio e mi sciolgo d'amore!»
Si lancia in avanti, imprigionando Leone in un girotondo. I bambini scrosciano risatine, applaudendo. Leone, che è tutto meno che un ridicolo fenomeno da baraccone - in circostanze diverse non esiterebbe a giocare con Francesco, adora i pargoli, ma si preoccupa per lui e il suo bene vola in primo piano! - si svincola, liberandosi.
«Va bene, va bene... chiudi le danze, festa conclusa.» Scrolla la polvere dal saio, perentorio. «Rientriamo.»
«Che madre protettiva sei Leone!» lo scopiazza Francesco.
La Pecorella del Signore sta per sferrare un colpo. «Devo sfoderare l'arma segreta delle madri se non mi ascolti?»
«Leone snuda le zanne e ruggisce, attenzione!» Francesco ride spensierato. Lo sta scimmiottando per caso?. «Quale?»
Il pezzo di repertorio d'ogni madre dello Stivale.
«Lo zoccolo che non possiedo!»
«Ma calmati Leone!» Il fraticello gli indica tutt'intorno. I paesani pasteggianti, i brindisi, i bambini che s'acchiappano nei vicoletti. «Siamo nel posto stabilito per noi dal Signore: in mezzo alla gente, nelle piazze, nelle vie. Perché dovremmo andarcene?»
Una ragione fondamentale. «Perché temo per la tua salute!»
«Sto bene!» insiste Francesco, forzando un sorriso volto a rassicurarlo.
Leone non si dichiara ancora un citrullo. «Pallido è indicatore di vigore e robustezza adesso? Francesco, non mi freghi...» L'afferra rudemente per il polso, trascinandolo lontano. «Forza, muoviamoci prima che scenda il buio.»
Una madre... calzante! Deve sopportare un discolo!
Il lupo ulula alla luna, Fratello Lupo, un canto saturo di solitudine, nostalgia e un'attanagliante senso di lontanza. Leone, quando si sveglia di notte, nella grotta, le gambe sfreganti sul giaciglio, si lascia trasportare da questa serenata.
Sa, da alcuni giorni, che Francesco prega con lui.
Non scovandolo a letto, allarmato, era uscito e l'aveva avvistato accucciato sul masso sporgente, vicino a Fratello Lupo, le ginocchia raccolte intorno al corpo. Scrutava il firmamento, pietrificato. Due sagome, quelle del lupo e di Francesco, stagliate contro una volta ingioiellata d'astri, trasmettenti una malinconia ancestrale, come se stessero piantonati lì da sempre, oranti davanti all'immensità inspiegabile, insondabile, sconvolgente dell'universo.
Cosa ti angustia amico mio?
Francesco non dorme o, al massimo, s'appisola via ogni tanto durante il giorno, ma quando crede che nessuno lo stia osservando e combatte l'inaspettato colpo di sonno sprizzando il doppio dell'euforia. Leone, preoccupato, insiste perché aumentino le pause, già brevi, quando scrivono e maneggiano la Regola. Francesco non l'ascolta, s'intestardisce e detta a raffica, quasi per ripicca a una proposta mossa per il suo bene.
Mangia poco. La pagnotta dimezzata era solo la prima d'una strada contorta lastricata di sporadici, miseri bocconi. Quello che Leone scarta Francesco sfreccia a distribuirlo ai poveri, di consumarlo lui e irrobustirsi un minimo - giusto giusto perché il pallore spettrale si colori d'ardore sano - equivale a eresia.
Un atteggiamento stonante con il solito Francesco.
Nei momenti di solitudine parla dei peccati, si confessa con lui, li distilla uno a uno e li consegna all'amico. A quanto pare trattiene qualcosa. Una spina conficcata nel cuore, una colpa inespressa, fardello da cui è reticente a separarsi e per cui sente di dover pagare, mortificandosi.
Leone non lo capisce e risente di non sapere come lenire il suo male.
Ci sono, al mondo, peccatori di gran lunga più efferati e sanguinari che sperperano la vita in crimini osceni, per cui non chiedono ammenda neanche in punto di morte. Francesco è l'uomo più virtuoso e buono - non perfetto, ma, nella sua originalità, si sforza di migliorarsi - che abbia mai conosciuto.
Per cosa, esattamente, si percepisce colpevole?
Striscia nell'oscurità densa e incombente, appiccicosa come pece. Cade, picchia la spalla. Cos'è stato? Un tronco? La protuberanza d'un sasso? Cade di nuovo, sbatte, si graffia palmi e ginocchia, il saio s'impiglia tra i rovi.
Francesco tira, uno strattone e un lacerante squarcio cozza contro le sue orecchie. Il bordo s'è sfilacciato. Chiara lo rattopperà.
Chiara. Chiara luce.
Luce...
Non c'è. Affonda nell'oscurità, inciampando, cascando a terra come un grullo, uno zotico scemo. Sì. È uno scemo. Cieco e mascalzone e peccatore. Vile peccatore, tanto peccatore! Il peccato - ma quale? Quale?! Si vaglia ogni giorno, la preghiera un setaccio, estirpando il sedimento di peccato e tentazione che s'è accumulato dentro la sua anima putrida - ha tappato la bocca di Dio, cucito le labbra della salvezza, sbarrato i cancelli del paradiso.
Il Signore è furibondo. Deve esserlo. Non può saperlo. Francesco è piccolo, piccolissimo, un granello che si scortica le ginocchia, cadendo su un letto di rocce aguzze e taglienti, i piedi uno strazio di ferite sanguinanti. Come può ardire a conoscere la volontà dell'Altissimo?
Ha scatenato la sua ira fallendo con i suoi fratelli. Pastore deludente, ha permesso che il gregge si disperdesse. Ha acconsentito che Madonna Povertà fosse vessata, derisa, beffeggiata quale fantasia e umiliazione.
Madonna Povertà è letizia e una porta sulla libertà! Splendidamente liberi al pari delle allodole incappucciate di terriccio...
Francesco ha perso il controllo. Ha sbagliato, evidentemente.
Altrimenti i frati non strepiterebbero nell'esigere una dettagliata forma su cui improntare le loro vite. Altrimenti la Porziuncola non sarebbe assediata da dibattiti e opinioni divergenti e fratelli lusingati dall'apparenza e non dalla sostanza. Altrimenti la calorosa, rigeneratrice pace di Dio s'impadronirebbe di lui, come un tempo, agli albori, all'alba del loro minuscolo, folle e disgraziato mondo, quando fiorivano papaveri e fiordalisi e il grano biondeggiava e l'essenza divina fluttuava su ogni cosa, la penetrava, la rimodellava da zero, seminando scintille d'amore e luce.
Luce. Francesco non scorge una luce. Non un pigolio, non un barbaglio.
Soccombe al buio, i tagli bruciano sui palmi. Le ginocchia, deboli, capitolano e lame di roccia gli trafiggono la carne. Prova a rialzarsi, ma è peggio di prima. Allora imprime la faccia in quelle schegge.
Che gliela devastino. Che gliela sfregino e rendano un pastrano di sangue e lacrime.
Privato di Dio, del suo conforto, la morte gli appare un sollievo, una scorciatoia sull'eternità felice. Felicità se il Signore lo ripudia? Oh, mondo impossibile! Che vita sarebbe? Un eterno tormento!
Spalanca la bocca, ingoia il vento insapore, un boccone di gelo e vuoto. Vuoto. Cavo. Francesco è una crisalide. Vuota, fragile.
I parassiti mangiano l'oro, le carogne banchettano su una carcassa. Strappano e s'accapigliano su lembi di pelle e pezzi di carne. I tarli corrompono il legno. La morte guasta il corpo truccato in parvenza - solo parvenza, tutto è parvenza, la vita un vetro che ognuno può ammirare e commentare, ignobile vanità - e lo spompa dell'alito vitale. Corvi e cornacchie gracchiano striduli, uccelli disordinati e perfidi, dal becco a mezzaluna, artigli e zampe squamose.
Notte. Apoteosi dei segreti, dello schifo che al giorno si nasconde.
Sorella Luna s'assottiglia in una falce. Miete un cielo di stelle. Francesco le ammira da lontano. Gli occhi ardono, arrossati. Se li sfrega. Niente. Ritenta. Il bruciore lo perseguita. Il mondo si contrae, informe. Per un secondo i contorni scompaiono, tutto si mescola. Sbatte le palpebre. Pizzicano.
Non vede bene. Il buio predomina sovrano.
Dio gli recide anche il filo della vista. È disperato: il Creato, sentire e toccare la sua bellezza, effondeva in lui un rinnovato vigore. Se non può più vederlo...
Cos'ha fatto per meritarsi questo?!
Permissivo sei stato, ti stai arrendendo. Ambiscono a rivisitare Madonna Povertà, adulterandola con ampollose strofe di latino, con ricchezze, possedimenti, contributi. La disonoreranno. Salvala. E non mollare, non mollare.
Un uomo non può farcela da solo. Francesco è allo stremo. Dio, invoca Dio. La sua voce, la sua vicinanza. È un toccasana. Armato di Cristo chi può resistergli? Dio s'è ammutolito, stufato. Il silenzio ronza insopportabile, l'opprime.
Non sa se ha sbagliato, dove ha sbagliato.
Non ha idea di come rimediare.
«Signore!»
Silenzio, frullo d'ali.
Il cibo ingrassa il corpo, non nutre l'anima. Sbocconcellando poche briciole sarà in grado di accoglierlo. Il sonno impigrisce e rammolisce la fede. Restando sveglio quanto riesce sarà in costante vedetta, in trepidante attesa, come le vergini prudenti della parabola.
Chiara comprende un altro conto. Lei è più giovane, inesperta. Una pianticella che si sta fortificando, piantando radici salde. Matura al calore del sole. Francesco le vuole bene, la ama dell'amore illibato e unico e inimitabile che nutre verso di lei. È il suo cavaliere, il suo protettore e quale protettore resterebbe a guardare come un fesso mentre la sua pupilla si massacra nelle penitenze?
Francesco... è diverso... mendica Dio...
I pensieri s'accalcano, inconsistenti, disordinati, gli martellano le meningi. Francesco si stringe la testa tra le mani, geme.
Colori battagliano nell'oscurità foderata delle palpebre chiuse, nessuno prevale sull'altro. Formicolano, i pensieri malvagi del Tentatore - o sono prodotti dalla fame e dalla stanchezza? O li manda Dio? Non lo sa, non ha più le energie per scoprirlo... - s'avviluppano in un telo funebre, trasparente, una ragnatela di pensieri.
«Signore...»
Da qualche parte sopra di lui Fratello Lupo guaisce, quasi lo stesse compatendo.
Il primo incontro con Elia - solo Leone viandante, Francesco resta in cima - si svolge nella sacrestia della rurale chiesetta alle pendici, il cuore del paesello.
«Leone, ben trovato.» l'accoglie il Ministro Generale, la felicità d'un padrone di casa che rivede un vecchio ospite. «Come ve la passate in montagna?»
Francesco è angosciato e io non so come aiutarlo.
«Il silenzio rigenera lo spirito, emenda l'anima dal malessere.»
Elia assente in cenni pensierosi. «Francesco? Sta bene?»
Niente affatto. Non vorrebbe che il lavoro imposto sia troppo faticoso per lui, è tartassato da questo tarlo rosicchiante.
«Gioierebbe d'una tua visita Elia.» Vieni e verifica con i tuoi stessi occhi se sei scettico. «Sei il benvenuto, lo sai.»
«Vedrò se riesco a fare un salto e salutare.» dismette Elia, un gesto artefatto della mano, come se stesse scacciando una mosca insolente. Sorvola queste formalità. «Avete completato la Regola?»
È venuto qui solo per quella, rileva con rammarico. Non gli importa di Francesco? Delle sue condizioni? È una mucca da mungere, la Regola suo latte?
Leone gliela consegna, l'involto accuratamente arrotolato. Elia sciorina la pergamena e la sua espressione si rabbuia con il procedere della lettura.
«Questa?» chiosa amareggiato.
Dettata da Francesco in persona!
«Non... non è soddisfacente?»
«È una miscellanea di stralci evangelici. A noi servono delle disposizioni!» Elia arrotola goffamente la pergamena. Che fa? Così si spiegazzerà tutta, vale una fortuna e non ne hanno in eterno!. «Non dirmi che Francesco è convinto di presentarla al Santo Padre. Sarebbe una burla bella e buona. Non l'accetterà mai e ne capirei la ragione: non avete scritto una Regola! Questi sono passi estrapolati e ricopiati pari pari dal Vangelo!»
Le fondamenta del loro essere. Il disagio è palpabile. «Perché è il Vangelo la via da imboccare per il Paradiso!»
«Signore mio...» Il Ministro Generale si strizza la radice del naso. «Leone, sei suo amico, l'ho afferrato. Ma lasciarti plagiare dalle sue convinzioni arcaiche anche no, te ne prego!»
Plagiare? Francesco non plagerebbe neppure una mosca!
«Arcaiche?»
«Lo vedi in che stato versiamo!» Gli scaraventa il manoscritto addosso. «Francesco non può continuare a imputarsi, i nostri fratelli esigono altro, ben altro, e solo lui può fornirlo.»
Ma-
«Gesù fornisce il necessario a tutto!»
«Leone... suvvia...» lo riprende Elia, un genitore frantumante le fantasie d'un bimbo.
«Quando abbandonasti i tuoi agi e il lusso della tua vita secolare, sicuro d'unirti a noi, coltivavi anche tu queste certezze!» gli ricorda Leone, pitturandosi in mente il baldanzoso Elia Buonbarone vendente l'intero suo patrimonio per correre dietro a Francesco. «N'eri certo Elia! Hai cessato di crederci?»
Gli scocca un'occhiataccia collerica. «Dubiti della mia devozione?»
«Non ne scorgo i frutti.»
Elia accantona la litigata che si profila. Bene. Nemmeno Leone è in vena di litigare. «Questa Regola non va bene.» gli appioppa schietto. «Cerchiamo altro e la Curia non l'approverebbe mai. Dovete riscriverla.»
«Ma Francesco-» Leone maledice la sua linguaccia.
Avviato all'uscita, Elia si volta. «Sì?»
Dopotutto non gli interessa. Brama solo la sua Regola.
«N-Nulla.» Abbassa remissivo lo sguardo, una pecorella sottomessa. «Pace e bene Elia.»
Il superiore gli augura altrettanto, terminando l'infruttuoso incontro.
«Pace e bene a te e a Francesco Leone.»
Risalendo la ripida salita Leone avrebbe gradito scoprire una grotta abitata e animali tranquilli. Avrebbe quietato le spire d'ansia ghermenti il suo cuore. Francesco che stava bene, al sicuro, e non si era avventurato a spasso su queste rocce degradanti in strapiombi, precipizi e gole crepanti la terra.
Irreale.
La grotta è vuota, di Francesco e compagni boschivi neanche una traccia. Leone scalcia esasperato un sasso. Si può sapere che gli prende?!
Francesco ha sempre mangiato volentieri, con gusto, in maniera frugale e parca, accettando tutto quello che gli veniva apparecchiato dinanzi. Escluse le quaresime e le novene e i giorni d'Avvento, giudica inopportuno privare Fratello Corpo del nutrimento che gli spetta.
Di venerdì ci si astiene dalla carne, consueto. Tranne quell'anno che Natale cadeva di venerdì e un frate, dubbioso, domandò a Francesco se dovessero sospendere il consumo della carne e ottenne quale risposta la stravagante trovata di non lesinare sulla carne, anzi, di spalmarne addirittura sui muri esterni, cosicché ne trasudassero, ne grondassero unti a palate e anche Fratelli Uccellini e le altre creature potessero celebrare benevolmente la nascita del Salvatore in terra.
Sul sonno ha sempre dimostrato regolarità, per quanto, quando non è esausto - esausto rasentante il collasso - sia facile svegliarlo.
Un penitente all'estremo Francesco non è mai, mai, stato.
A cosa deve addurre Leone dunque quest'inversione di rotta? Non se ne raccapezza, davvero, orbitano mille domande nel suo misero cervelletto.
Uno stridio graffia il silenzio. Leone trasalisce. Voltandosi, la coda piumata di Fratello Fagiano ondeggia. Il pennuto si catapulta da lui, spalanca il becco, il verso dissacrante e stridulo sgorga. Sbatte convulsamente le ali, salta su una roccia. Leone s'acciglia. Fratello Fagiano vuole che lo segua, è urgente.
Francesco. È successa una disgrazia a Francesco.
«Fammi strada.»
Fratello Fagiano recepisce, emettendo di nuovo il canto che fa sanguinare le orecchie. Irrequieto, a tratti isterico. S'inoltra nel bosco, guida di Leone. È venuto ad avvisarlo. L'ansia divampa. Che non sia capitato niente di brutto a Francesco...
«Signore! Signore!»
Annaspa, inciampando, sul declivio tappezzato di foglie. Cade e striscia, Francesco il poverello, Francesco piccolino, ultimo degli ultimi. Capelli e barba impiastricciati di lacrime, muco e sporco. Le orbite due crateri rossastri. Il saio fradicio, gli orli sfrangiati e impiastrati di fango e sprofonda in quel gorgo di foglie mollicce, sbriciolandole alcune, un fruscio lamentoso.
Esterrefatto, Leone s'impietrisce un istante.
«Francesco!»
«Leone?» geme, intercettando la sua voce. «Leone sei tu?»
Corre da lui, lo solleva. Una cascata di lacrime inonda le guance bianche di Francesco, lava dal lerciume, s'incrosta sui graffi, catturata dalla barba.
«Sì Francesco, sono qui.»
«Vedo male Leone, vedo... è tutto sfocato, nebuloso... è tutto indistinto!» È la quintessenza della disperazione. Scuote la testa, indiavolato. «Non lo sento più, non lo sento più. Dio è silente, Dio... il Signore...»
Dio è lungimirante a non palesarsi, dato in che stato si sta riducendo!
«Aggrappati a me.» lo sprona, avvolgendosi un braccio di Francesco intorno al collo.
«Mi sono perso, Dio mio, mi sono perso.» C'è qualcosa di selvatico e inquietante che gl'infiamma gli occhi, i capillari iniettati di sangue. «Non sento più la sua voce, non si manifesta, il Signore mio.» Smolla il braccio, ruzzola a terra, un impatto morbido, picchiandosi estenuato le tempie. «C'è silenzio! Silenzio! Sono perso, perso, perso!»
Vaga nella selva oscura, in crisi.
Crisi, attacco di panico, respiro accellerato e Francesco sono vocaboli che mai Leone avrebbe pensato di poter congiungere insieme in un medesimo momento.
Eppure, con suo immenso sbigottimento e impreparazione, sta succedendo.
«Non è vero Francesco, stai calmo.» S'accovaccia alla sua altezza, braccandolo per la spalla. Francesco arretra, neanche ustionato, rantolando come un cucciolo abbandonato e ferito. Leone maschera il dolore.
«Brancolo nel buio, vedo male, oddio, vedo male...»
Boccheggia, il respiro un cavallo imbizzarrito, indomito, fuori controllo, lo sguardo rimbalzante dovunque, terrorizzato, un terrore viscerale di perdita. Leone s'avventa, lo placca a sè, pone il palmo a contatto con il suo cuore, il battito pulsante e vitale di Francesco. Gli sbotti d'aria rallentano, si distanziano.
«Calmati.» gli sussurra sommesso. «Respira.» Francesco, vuoi intontito dalla scenata, vuoi stremato, per una volta ubbidisce. «Sono qui. Inspira... bravo, così... espira...»
Da saltuari i boccheggi svaniscono. Francesco si calma, abbandonandosi all'abbraccio confortante di Leone.
«L'ho detto a Chiara. Pensavo... p-pensavo che quassù, isolati dalle diatribe, dalle matasse, dal c-chiasso... pensavo...»
«Che avresti riallacciato con Lui?»
«S-Sì... insomma... che la sua voce, il suo legame... m'illudevo di ritrovarlo, smagliante e luminoso come in principio.» Torna a stringersi la testa tra le mani, artigliandosi le tempie a unghiate. «C'è confusione invece! Una confusione indicibile, un viavai di pensieri, affollanti, martellanti.» Sospira, il sospiro più stanco che Leone abbia mai udito emesso da lui.,«Le critiche, le preoccupazioni! Manca... manca...»
«La pace?» incalza Leone.
«Mia e sua.»
Ma la pace del Signore non la si attira macerandosi! Dovrebbe saperlo!
«Riesci a vedermi?» Sventola una mano davanti al suo sguardo infuocato, irritato dagli sfregamenti. «A individuarmi?»
«D-Da vicino... da vicino ti distinguo.»
«Le mie fattezze?»
«Sì.»
«E la voce?»
«Mi sembrerà pur di sguazzare in un lago di nebbia, ma l'udito mi asseconda ancora magistralmente, grazie tante!»
È tornato lui. Scanzonato anche nelle avversità.
«Quando non mi vedi, ma mi senti, focalizzati sulla mia voce, d'accordo?» Poniamo dei paletti, sperando che Francesco li rispetti.
«D'accordo...» mugola, rintanandosi dentro la sua stretta, un bimbo impaurito.
«Lo stavi invocando?»
«A s-squarciagola... m-mi hai trovato che vagavo alla cieca... vero?»
E rischiava di spezzarsi l'osso del collo rotolando in un dirupo.
«Guai a te se mi fai prendere un altro coccolone di questa sorta Francesco!» l'apostrofa aspro Leone. Dio mio, che spavento. «La grotta era vuota, sgombra, se non fosse stato per Fratello Fagiano... Francesco?»
Sta sbiancando in maniera agghiacciante, un pallore lugubre.
«Sono solo... un... pochino... stanco...»
S'accascia tra le sue braccia, un peso morto e insensibile, un forno febbricitante irradiante calore. Leone lo schiaffeggia per rianimarlo. Nessuna reazione.
«Francesco!»
L'inverno attutisce i suoni, rimpicciolisce vastità, l'inverno ammutolisce in un silenzio religioso. Cattedrale di ghiaccio merlettata di fregi di brina, arabeschi superlativi, delicati, guglie che pendono minacciose dai rami.
L'inverno è il tempo dell'attesa. La terra attende le primizie e i virgulti sboccianti. Gli animali dormono e attendono che il sole balzi fuori dalle nubi sciatte, spesse e grevi. L'uomo attende che il maiale sia sgozzato e appeso, le sue budella squartate e insaccate nei salumi, il suo sangue raggrumato in bacili di salamoia, una patina si coagula in infiorescenze crostose sulla superficie stagnante.
L'inverno asporta i suoni, amputa il tempo. La natura si pasce in questo limbo, il buio necessario alla luce sfolgorante della primavera. L'inverno - rigido, canuto, severo e austero inverno arrivante pencolante di fiocchi e rami spezzati e membra violacee, rattrappite e assiderate - asporta l'allegria e il buonumore.
Francesco loda Sorella Neve, Sorella Galaverna, Fratello Brivido. L'inverno fomenta l'insicurezza. Riscrivono la Regola, ma l'indecisione lo assale. Si contraddice, si corregge. Leone cancella e ricomincia, il coltello grattante via dalla pelle tesa della pergamena. Devono centellinarla. È rara, costosa e le loro scorte non dureranno all'infinito. Francesco scuote il capo, si morde le labbra, allo sbaraglio.
Sosta a un bivio, Leone percepisce il suo dilemma, il suo tormento: accontentare Elia e i capricciosi senza sminuire l'impronta del Vangelo, non deviando dal solco impostato da Cristo.
In compenso il vento spira notizie piacevoli: a San Damiano Chiara mangia con regolarità da mesi, sana e amministrante con ferrea dolcezza il convento delle Povere Dame. Quassù, Leone sprona Francesco a rifocillarsi quel poco che serve a restare in forze. Lui dissente e mangiucchia i suoi soliti tre bocconi. Di questo passo, se si ostina, dovrà appellarsi ai superiori, a Elia, se gl'importa ancora di lui, e al voto d'obbedienza. Non lo lascerà morire di fame!
Fratello Lupo, la notte, le zaffate di vento pugnalate gelide che s'infrangono fuori dalla loro grotta, si raggomitola intorno a Francesco, riscaldandolo con la sua pelliccia, leccandogli il viso.
Le febbri si moltiplicano, visite oramai consuete.
Leone scende al fiume, bagna delle pezze e le stende intrise e gocciolanti sul viso incavato di Francesco. Ciocche nere gli s'incollano flosce alla fronte, la pelle trasparente, orbite infossate e occhi vitrei di delirio. Tenta di fargli ingollare sorsate di quella zuppa che raccoglie a valle, donata, una brodaglia di verdure e tranci di carne scartata messa a scaldare sul fuoco, Fratello Fuoco amato da Francesco.
«Leone?»
La mattina è livida, diluvia. Francesco congelato sopra il suo letto di pietra congelato. Leone ha raccolto foglie, arrangiando un giaciglio, sfruttando le sue coperte.
«Dimmi.»
«Ho fatto il furbo con Gesù Cristo?»
Furbo? Manco l'avesse fregato! E Dio mica si frega, batte tutti in astuzia.
«Cosa vaneggi? Hai lasciato tutto per seguirlo, per vivere nella sequela del suo amore. Per amor suo!»
«Amore...» mormora Francesco atterrito, come se realizzasse solo ora una verità di proporzioni epiche. Lancia via la coperta, intralciante.
Leone annuisce, spreme una pezza e gli tampona la fronte. «L'irrazionalità che governa questo mondo razionale.»
Il governo ordito del mondo, culminante in Dio Padre, reggitore dei cieli, in Gesù Cristo suo figliolo, sovrano sovrastante i sovrani, e nello Spirito Santo paraclito.
«L'Amore non è amato!»
«Francesco?»
S'è scagliato in piedi, barcollando e rovinando a terra. Leone si fionda, prova ad arpionarlo. Francesco scivola via, addossandosi alla parete della grotta.
«L'Amore non è amato!» proclama, sgranando gli occhi. «È offeso, infangato, disprezzato, vituperato! Crocifisso ogni giorno per le nostre nefandezze! L'Amore non è amato! E io... io...»
L'Amore? Dio? Cristo? Ma se nessuno l'ama più di lui! Francesco è un fuoco d'amore, diffondente i suoi raggi, rifulgente della sua gloria. Che farnetica? Delirio, le forze al capolinea, Leone arraffa ogni scusa convincente per spiegarsi questo scenata.
«Stai giù, stenditi!»
«Io sono il più vile e meschino e ignobile peccatore della terra!»
«Francesco-»
«Ha smesso di palesarsi perché è arrabbiato!» urla, rauco, cavernoso, un urlo affiorato dal polo di quel dolore. «È arrabbiato con me! Io l'ho tradito, ho tradito Madonna Povertà, marito infedele che sono! Acconsentendo a quella Regola più indulgente lo... lo sto tradendo! Non è questa la vita che Cristo ci propone!» La coglie, avvoltolata tra gli utensili e le bisacce di Leone e si butta in avanti, tarantolato, cercando d'impadronirsene. «Stacciala! Buttala via! Bruciala!»
«Francesco!» Leone si para dinanzi. Non distruggerà il frutto dei loro sforzi. «Fermo!»
«Brucia quel patto col diavolo!» Improvvisamente s'arresta, guardandosi le mani, tremanti negli spasmi febbrili, con disgusto. «Bru-no, no, no!» Voltandosi, scioccato da se stesso, prende a pestare la fronte sulla nuda, ruvida roccia.
Leone riprende possesso della pazienza. Calmi, stiamo calmi. Protende il braccio, approcciandosi a Francesco con diplomazia, delicatezza.
«Stai male, hai la febbre, blateri a vanvera.» Mangi il nulla e riposi scarsamente. Lo serra sulla spalla. «Fidati di me: stenditi.»
Francesco non l'ascolta, s'affloscia a terra, sguardo basso. «L'ho scritta per i fratelli, per amor loro. È amore, carità. Obbedienza. Se l'elimino infrango il voto d'obbedienza e... e... il comandamento dell'amore. I perni del Signore. Che padre sarei? Li manderei al macello tra loro stessi! Ma Dio... m-ma... la povertà...»
«Devi riposare.»
«Pensieri cozzano nella mia testa Leone!» esplode, sorprendendolo, scuotendolo in preda a un'agitazione disumana. «Che devo fare? Cosa?! E se lo faccio? E se non lo faccio? Chi sono in un caso? E nell'altro? Perché è tutto così complicato?! Perché l'hanno complicato?! Vivere in povertà, lavorare scagionati dalla tirannia del denaro, del possesso. Amare chiunque. Essere liberi. Era così! È così! È semplice, semplice, semplicissimo! È il Vangelo! L'Amore!»
«Francesco, in questo momento-»
In questo momento scappa fuori, nel temporale, imperturbabile all'acqua che s'insinua nel saio, gli striscia sul viso, gli appiccica le ciocche alla fronte. Il grido di Francesco soverchia il rombo del tuono.
«Mio Signore il tuo umile servo implora la tua voce!»
Leone si getta, trafilato, a ricondurlo dentro.
«Francesco!»
Sta roteando su se stesso, punto fisso, braccia tese. Un bambino in un girotondo solitario, cantilenante, il saio che gli penzola addosso, zuppo. «Parlami, parlami, parlami, Signore parlami. Signore! Signore ascoltami! Mostrati a me! Parlami, te ne supplico! Parlami, Signore, parlami!»
Leone scapicolla a prenderlo, trascinandolo per il cappuccio. Francesco piange, la pioggia mischiata con le lacrime, s'affida inerte alla presa di Leone.
«Francesco per l'amor di Dio!»
Affonda il viso nel suo saio, soffocando un singhiozzo.
«Parlamiii!»
La prima volta Francesco ha accettato di procurare una direttiva di vita all'Ordine, da solerte padre che orienta i figli smarriti.
La seconda volta, rifiutata la proposta iniziale, con mansuetudine e mitezza s'è rimesso al lavoro, rimaneggiando i punti più controversi e dibattuti.
La terza volta una delegazione, capeggiata da Elia, si è inerpicata sulle scoscese ripide del monte per esprimere il proprio disappunto, i frati novelli presentanti a Francesco il loro timore che la Regola la stia scrivendo per imporre il proprio stile di vita e insistenti affinché sia più indulgente e stemperi la durezza.
La quarta volta - Elia e contestatori in avanscoperta, sprezzanti e inamovibili, pretendenti da Francesco l'ennesima revisione di questa bozza - si verifica un evento che Leone credeva fosse stato destinato a capitare una sola volta, con la casa.
Francesco perde le staffe.
«Basta!» sbraita, meritandosi occhiate impaurite, spiazzate, la sua voce una scudisciata zittente il farfuglio incomprensibile. Si ripara dietro un tronco, squadrando quel manipolo in cagnesco. «Questa è la nostra forma di vita, votata alla povertà e al servizio dei più poveri! In tanti trascorrono una vita di stenti, cosa ci preclude a noi dall'abbassarci allo stesso livello? Cosa?!» Non si leva una risposta o un filo di vento. «Non l'ho decisa io, così l'ha voluta il Signore, così parla il Vangelo! E chi non è disposto a seguirla esca dall'Ordine!»
Elia e sodali sono muti. Leone si aggrega. Le sorprese non si esauriscono qui.
«Andate via, via! Lasciatemi in pace!» Francesco scaglia un sasso agli scocciatori, rubandolo alla montagna. Ne brandisce un altro in mano. Elia capisce l'antifona e intima a tutti d'andarsene, che evidentemente non sono i benvenuti, prima di venire fiocinati da una valanga di scaglie di selce e sassi tondi. «Via!»
Svoltati in basso, filati via, il suo amico molla l'arma. Francesco che strepita e scaccia qualcuno. Mai visto. Crolla in ginocchio, guardando incredulo il folto degli alberi, dove sono indietreggiati i loro fratelli.
«Li ho cacciati... Leone, li ho cacciati...» biascica. Non può crederci nemmeno lui.
Gli s'accosta, massaggiandogli la schiena.
«A tutti capita d'arrabbiarsi Francesco. È umano.»
Lampeggia furore, manco avesse bestemmiato. «Sono i nostri fratelli!»
«Gesù calciò a pedate i mercanti dal tempio e scaraventò a terra i loro banchi.» gli puntualizza Leone. L'esempio illustre gli campeggia davanti. Francesco non è il primo e non sarà l'ultimo a scoppiare in escandescenze.
«Ma lui era nel giusto!» S'appoggia al tronco, slittando lungo il legno, seppellendo il volto tra le mani. «Io... io erro nella valle oscura e Lui non è al mio fianco... perché sta andando tutto a rotoli?!»
Se Leone possedesse la risposta sarebbe pronto a barattare la sua anima per dispensarla a Francesco e far tacere i suoi demoni.
Non c'è limite alle stranezze.
L'inverno smorza la sua spietatezza e il sole bacia i cumuli innevati, sobillando scintillii favolosi, polvere adamantina. Un mattino Francesco è seduto all'ingresso della loro fessura, della grotta, vezzeggiante i suoi fratelli animali e giochicchiante con il cavallino scolpito cimelio dei parenti. Leone gli ha fasciato le mani contuse dall'ultimo capitombolo, medicato le ginocchia scorticate con un unguento frutto della bontà dei popolani a valle. Sta affastellano la legna per il fuoco, lieto d'aver consegnato l'ultima bozza rivista e corretta a Elia pochi giorni fa.
Canta vittoria troppo presto. Sperava che fosse la definitiva, e invece...
Invece Elia sbuca dalle frasche, omaggia i due confratelli d'un timido saluto e, alquanto stranamente imbarazzato, si profonde nello spiegare la sua inattesa venuta.
«Avete presente il manoscritto che ci avete consegnato? Quello che vi avevo detto avrei esaminato scrupolosamente?»
«Sì...?» Un presentimento si radica dentro Leone.
«Ecco.» Elia non sembra orgoglioso di se stesso. «L'abbiamo... perso.»
Perso. La notizia rimbomba ovattata dentro Leone. Che significa perso?! Il foglio di pergamena vitale, per il quale hanno rognato mesi perso?!
La pacatezza della Pecorella di Dio è giunta al traguardo.
«Elia, finora mi sono contenuto, ma dopo questa temo-»
Francesco, silente e focalizzato sul cavallino, placa la sua irruenza.
«Non agitarti Leone, la riscriveremo.»
Ma si sente?«Francesco, ti sei visto? Questa Regola ti ha stremato.»
Non se ne cura minimamente. Accenna un vago sorriso, il primo che non si sciolga tra scrosci di lacrime.
«L'aiuto non va negato neppure al più piccolo dei fratelli, ricordi?»
Elia n'è compiaciuto.«Quindi posso contare su di voi, riscriverete la copia perduta?»
«Per amore e obbedienza.» concorda Francesco, cavando le parole di bocca a Leone. «Leone ha una memoria di ferro.»
Quell'inspiegabile adesione l'ha spaesato.«Beh, lo credo...»
Non basta altro. Elia bacia riconoscente loro le mani, estremamente sollevato.
«Vi siamo debitori, mille volte grazie!»
Sì. Grazie. Una gratitudine amara secondo Leone. Francesco avrà pur raffreddato i bollenti spiriti delle sua ultima sfuriata, però, com'è ormai consolidato, non calcola quanto la sua salute ne possa risentire.
«Francesco, davvero dobbiamo ricominciare tutto da capo?» chiede appena Elia si eclissa, raggiante per l'intoppo risolto.
«Che male c'è?» Tossisce, uno spruzzo bavoso di sangue. Si pulisce un rivolo che gli cola sul mento con il risvolto della manica. «Tanto tu ricordi, no?»
Non ci porrebbe la mano sul fuoco, però il midollo, l'intelaiatura dell'insieme la conserva impressa, tante le volte che ci si sono soffermati sopra, lambiccati su come impostarla. «A-Abbastanza.»
«Facciamoci bastare quell'abbastanza allora.» Francesco s'apposta davanti a un albero, mentre l'amico si munisce dell'occorrente. «Scrivi Leone: la Regola dei Frati Minori è questa... Fratello Albero...»
«Eh?»
È crollato. Alla fine il suo corpo estenuato ha preteso il conto. Francesco è scivolato in avanti, addormentandosi con la guancia spiaccicata al tronco e le braccia circondanti il legno.
«Oh Francesco...»
L'accarezza intenerito. Fratello Lupo gli annusa i capelli. Sorelle Tortorelle tubano curiose. Fratello Fagiano inclina il capo, quasi sottoponendo quesiti a Leone. Perché il loro fratellino giace in quella posizione buffa?
«Tranquillo, proseguirò io.» gli promette Leone. Il grosso se lo ricorda, è vero.
«Ehilà!»
L'intruso dai cespugli gli fa spiccare un salto acrobatico dallo spavento.
Intruso lui?
«Angelo?!»
Il fratello di Francesco lo saluta gioviale, una borsa bitorzoluta infilata di traverso. Solare come un pellegrino.
«Messo di provviste in persona!»
La provvidenza tende orecchio ai loro bisogni! Leone recita sottovoce una preghiera di ringraziamento al cielo. Dio pensa a loro, diversamente da tutti i dubbi e i fantasmi che possono assillare Francesco.
«Oh, beh... ecco... benvenuto!»
Angelo si guarda intorno, corrucciato.
«Leone?»
«Sì.»
«Per quale assurdo motivo mio fratello sta abbracciando un albero?»
Chiedilo a Elia.
Chiariti perché e come, Angelo s'issa il fratello maggiore sulla schiena, trasportandolo all'interno. Leone, in fretta, allestisce in giaciglio alla buona raggruppando coperte e fagotti. Francesco riaffiora a sprazzi dal dormiveglia.
«Chiara...»
Angelo chiocciola una risatina.
«Sul biondo ci sei andato vicino, sul resto una cilecca grandiosa fratello.»
L'altro ciondola assonnato, ripiombando nel dolce oceano nero. «Chiara...»
«A nanna!» Il fratello gli rimbocca la coperta, scontento all'appurare, tastandogli la fronte, l'insorgere malefico d'una nuova febbre. «Da quanto non mangiate carne?»
«In questa stagione è dura reperirla.» l'informa Leone. «Non ce l'hanno data nelle elemosine...»
Anche il grasso si conserva, nutriente.
«Francesco deve ristabilirsi.» sentenzia, sfilandosi il bagaglio. «Per vostra fortuna porto un orto in borsa!»
In che senso?
«Verdure?» azzarda Leone, ammirando carote, sedano e altre leccornie emergere allo scoperto.
«E pollo.» Un pollo spennato, piccolo e roseo. «Raccogli legna e accendi il fuoco, vengo provvisto di paiolo e tutto l'occorrente per il viaggio!»
Sia lodato e magnificato il Signore per questa pioggia di delizie e aiuti!
«Sei un miracolo Angelo.» Non sa cos'altro aggiungere. Veramente... è... è fenomenale.
«Un angelo... letteralmente.» ironizza lui, modulando il tono per non svegliare Francesco dal suo meritato pisolino. «Bando alle ciance, stasera si cena con il brodo!»
Scendono definitivamente a valle, Leone, Angelo e Francesco. Quest'ultimo cammina lentamente, alle volte sostenuto dagli altri due, sorreggendosi alle loro spalle. Le soste aumentano, Francesco si decide a toccare cibo in quantità umanamente accettabili e Leone rasenta la commozione al vederlo finalmente mangiare senza bizze, bocconi accantonati e regalati ai poveri.
Sul pavimento marmoreo e intarsiato sede umbra della Curia, a Perugia, ammantato d'una nube d'incenso e canti baritonali, Francesco si stende, crocifisso, volto a terra, ponendosi sotto la protezione e il manto della Chiesa. In sottofondo vibra violento il colpo inferto alla bolla, la ceralacca impressa con il voluminoso sigillo papale.
Solet Annuere, un nome altisonante, approvata da Onorio III.
In penombra, spettatore, Angelo incrocia gli sguardi giudiziosi di Frate Cesario da Spira e Frate Bonizio da Bologna.
Poco prima che partissero sono giunti da Leone e Francesco, aiutandoli nella logorosa stesura della bozza perduta. Esperti e dotti in diritto canonico, non riesce a non crederli scagnozzi di Elia, suoi amici mandati a dirottare il travagliato parto della Regola perché soddisfi il disegno del Ministro Generale e dei suoi criticoni.
Per tutto il tempo, gli ha riferito Leone, Francesco pareva... assente. Distaccato, impassibile. Oserebbe apatico. Perso nei suoi farfugli sconnessi, nel canto degli uccelli, nelle carezze al lupo.
Ci ha... ci ha forse rinunciato? Non se l'aspetterebbe, ma Angelo avrebbe poco da biasimarlo se così fosse.
In realtà i suoi timori potrebbero rivelarsi fondati. Nel declamare, dinanzi alla corte pontificia riunita, suo fratello sempre steso in terra come un agnello immolato, la Regola a voce alta, riscontra parecchie omissioni.
Che sa esattamente a chi impuntare.
«Esigo spiegazioni!»
Irrompe nello studiolo d'Elia quella sera, interrompendo al leggio. Il Ministro Generale gli rifila un'occhiata truce.
«Scusami?»
«Gli ordinamenti cari a mio fratello sono stati rimossi.» gli riassume Angelo. Leone gli aveva mostrato la bozza, gli elementi salienti intesi da Francesco e nella lettura ufficiale... mancavano. Soppressi. Chi maneggiava quest'impasto all'infuori di Elia e della sua cerchia eh? «Il servizio agli ultimi, la possibilità di disobbedire ai superiori...»
La noncuranza di Elia gli da sui nervi. Il frate scrolla le spallucce, riprendendo la lettura saltata.
«Pezzi sovversivi.»
«Sovversivi?!»
«Instigavano alla ribellione.»
«Lavare i piedi a un lebbroso fomenterebbe la ribellione?!» In quale mondo e universo sottosopra? «Accidenti, quale scenario mi hai aperto, diamine!»
Elia lo squadra, inarcando un sopracciglio.
«Quello forse no, ma accogliere gente d'ogni sorta, ladri, banditi, malfattori... siamo una fraternità, non un rifugio per chi se ne infischia della legge!»
«L'amore di Dio annienta colpe e guarda ai cuori!»
È il fulcro del messaggio di suo fratello, un messaggio nel quale anche Elia si era innamorato un tempo!
«Noi non disponiamo di quella facoltà.» rimbrotta Elia. «Come acclariamo le reali intenzioni di chi viene a noi apparentemente smanioso di prendere i voti. Illuminami»
L'illustre precedente va tenuto in considerazione. Angelo si stanzia a un palmo di naso da lui. «Ricorda che Cristo tra gli apostoli enumerò il suo traditore.»
«E tu che ti stai rivolgendo al Ministro Generale dei Frati Minori.»
Sai che personalità!
«A cui non sono vincolato.»
«Angelo, senti-»
«Senti tu Elia!» gli sputa spazientito. Questo è tradimento, ideali uccisi. Francesco ne soffrirà. «Eri suo amico e adesso lo pugnali alle spalle!»
«Rimango suo amico!» S'erge in piedi, fronteggiandolo, il leggio e il tomo traballano. «E in nome della nostra amicizia mi sto arrischiando in ogni modo per salvare il suo sogno quanto più possibile!»
«Alterandolo.» sibila Angelo. Respirare la stessa aria d'un traditore è stomachevole.
«Meglio che vederlo tacciato d'eresia.» borbotta Elia, una punta di dolore.
Angelo preferisce chiudere baracca e burattini o l'alterco rischia di sfuggirgli di mano. Non riesce a pensare a altro che alla sofferenza, impilata sopra altre sofferenze, che la Regola inficiata e manomessa procurerà a suo fratello.
«Mi riesce arduo persuadermi che tu sia mosso dall'amicizia con Francesco.»
Elia torna a sedersi, distante. «Da cos'altro altrimenti?»
Angelo indugia sulla soglia, materializzando l'opinione che gli ballava sulla lingua.
«Ambizione.»
Scova suo fratello nella rientranza della finestra nella stanza che, in questo labirintico complesso, gli hanno assegnato. Avrebbe preferito le stalle e del fieno caldo, ma Ugolino non ha voluto sentir opposizioni.
Per fortuna le febbri si sono diradate e colore sano brilla sulle gote di Francesco.
«Sorelle Stelle brillano più intesamente sulle alture.» Avverte l'entrata di Angelo, pur non schiodandosi d'un centimetro.
Osserva il cielo dalla bifora, le ginocchia premute contro il petto.
Angelo s'appropria dello spazio libero al suo fianco. «Siamo più vicini al cielo.»
«E alla grazia infinita di Dio.»
Si frappone tra di loro un muro di silenzio. Angelo congiunge la sua visuale a quella del fratello. Ricami di costellazioni palpitano sopra l'illuminazione urbana.
«Mi piace pensare che siano squarci di paradiso, lo sai fratellino?» rompe Francesco.
«Affascinante.»
«E da lassù, attraverso quegli squarci, siamo inondati dall'Amore.»
L'amore. L'amore di Dio. Deve interpretarlo come un riavvicinamento al Signore lontano? Pensare di sì lo riempie di gioia.
«L'Amore...»
«La sorgente di tutto.»
Ritornare intatti a quel Tutto, quella è l'impresa.
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