2. Goccia di luna
«Mira! Mira! Puoi venire un momento?»
La voce di Letizia che mi chiama dalla sua cella ha un tono squillante che camuffa un po' di preoccupazione. Ormai la conosco: viviamo in due stanze che si affacciano sullo stesso corridoio da circa un anno e mezzo e quindi siamo diventate molto amiche, affiatate, quasi complici.
Lei è arrivata in convento qualche mese prima di me direttamente dalla campagna pugliese dove ha lasciato un padre e due fratelli. La sua mamma invece è morta di tumore qualche anno prima e lei, come unica donna di casa, si è presa cura dei suoi famigliari fino a quando la chiamata del Signore è stata così insistente da "costringerla" ad abbandonare tutti per rinchiudersi in monastero: da serva di casa a serva di Dio.
«Arrivo subito, Tizia!»
La trovo seduta sul letto con lo sguardo atterrito che fissa un punto sulla parete.
«Lo sai che sono allergica alle api, vero? Ecco, guarda lì cosa c'è!»
Seguo il suo dito che indica qualcosa e la vedo: un'enorme vespa gialla e nera che passeggia beata sul muro.
«Tu sei un catorcio dal punto di vista fisico: sei allergica alle api, ti riempi di orticaria se mangi mezza fragola, smetti di respirare quando la primavera è nel suo massimo rigoglio per i pollini sparsi nell'aria, svieni come una vergine se vedi una goccia di sangue e attiri virus gastrointestinali come le feci attirano le mosche.»
«Hai finito di declamare il mio bollettino medico? E poi non è vero che svengo se vedo una goccia di sangue.»
«Ma che sei vergine, sì!»
«Sssh, parla piano che se ti sentono ti sbattono fuori! Ah, e per la cronaca, anche solo l'odore del sangue mi fa sbarellare...e sì, sono vergine, come tutte qui dentro!» e mi fa l'occhiolino senza mai perdere di vista l'ape sul muro.
Ridiamo sotto voce.
«Ora puoi occuparti di quella bestiola? Se mi punge, ci sarà una giovane illibata in meno in questo mondo.»
Avvicinandomi all'insetto, comincio a raccontare:
«Sai, mi ricordo di quella volta quando in Africa mi sono trovata faccia a faccia con una vipera soffiante, mamma mia quanto soffiava! Avevo nove anni e stavo raccogliendo fiori e radici dell'artiglio del diavolo tra le rocce della savana accanto al mio villaggio. Improvvisamente da una pietra è spuntato il serpente, ha tentato più volte di mordermi la mano. Ma è piombata su di lui una mangusta con i denti affilati che l'ha ucciso in pochi secondi.»
Letizia mi guarda con gli occhi sgranati, so di averla in mio potere e così continuo il racconto.
«La osservavo mentre si leccava i baffi e lei sembrava sorridermi, ma d'un tratto un latrato alle mie spalle mi ha gelato il sangue.»
«Oddio!» grida Letizia ormai senza fiato.
Abbasso la voce per creare tensione.
«Con un balzo, un gigantesco lupo africano mi ha scavalcato e si è avventato sulla dolce mangusta, sventrandola davanti ai miei occhi.»
«Basta così, Mira! Sto per vomitare! Non potrei mai vivere in un posto così selvaggio come l'Africa, proprio non potrei! Ma come hai fatto a scampare al lupo?»
«Quale lupo?» dico candidamente sorridendo soddisfatta.
«Quello che ha sventrato la man...» ma la mia amica si accorge del mio sguardo insolente e della mia espressione beffarda. Così si fa seria e con le braccia conserte sibila:
«Mi stai prendendo in giro per caso?»
«Sì»
«Da che punto del racconto?»
«Dalla vipera...»
«Sei tu la vipera! E io ogni volta ci casco come una mangusta!»
«Però ho raccolto davvero l'artiglio del diavolo, una pianta bellissima con quei suoi fiori di colore rosso-violetto! La mia yaya mi ha insegnato tutto sul potere curativo di piante e veleni.»
«Yaya? Cos'è, un'altra delle tue bestie feroci?»
«Beh, in un certo senso... Yaya in swaili significa tata, bambinaia. Nella missione c'era una suora molto speciale: era una specie di infermiera e curava le persone con la medicina naturale. Si chiamava suor Morgana e la sua capanna era un laboratorio rudimentale pieno di piante di ogni tipo, provette e barattoli di vetro, teche con rettili vivi, insetti stranissimi e ragni enormi. Io trascorrevo tutta la mia giornata con lei in quel contesto misterioso e nascosto, quasi esoterico e magico agli occhi di una bambina come me.»
«Il nome suor Morgana sa più di fattucchiera che di suora...»
«In effetti non era come le altre e, anzi, le consorelle la veneravano quasi come un essere superiore. Non l'ho mai vista pregare o trascorrere il tempo insieme alle altre suore o agli ospiti della missione. Mal sopportava tutti, tranne me. Io e lei ci capivamo al volo, forse perché anch'io ero un po' emarginata, gli altri bambini mi trattavano come una creatura strana a causa del mio aspetto. Mi tolleravano ma non mi cercavano, anzi preferivano starmi alla larga.»
«Che strana donna questa suor Morgana, a me avrebbe messo paura!»
«Paura è il tuo secondo nome, Tizia. Comunque era davvero una creartura particolare. Aveva occhi azzurri come il ghiaccio, piccoli come capocchie di spillo e quando ti fissava ti sembrava di prendere fuoco. Una mattina sono entrata nella sua capanna che stava albeggiando e l'ho trovata di schiena davanti alla finestra con una cascata di capelli rosso fuoco che in morbide onde le arrivavano fino a coprirle il fondoschiena. Ha girato la testa di un quarto verso di me e, facendomi l'occhiolino, ha messo l'indice sulle labbra per assicurarsi il mio silenzio. Io sono rimasta con la bocca spalancata per alcuni secondi: la creatura che avevo dinnanzi sprigionava sensualità, trasgressione, carisma da ogni poro. Si è avvicinata, mi ha preso le mani e mi ha detto, con la sua voce bassa e pacata, che i suoi capelli le ricordavano ogni giorno di essere una donna prima che una suora e che non poteva tagliarli: sarebbe stato come uccidere una parte di sé. Subito non ho compreso tutto il senso della sua spiegazione, ero solo una bambina. Ma crescendo ho capito che cosa intendeva... e così anch'io...»
Letizia si copre la bocca con la mano.
«Non mi dire che lì sotto i tuoi capelli sono come quelli di una Barbie!»
«Beh, assomigliano più a quelli di Raperonzolo.»
«Oddio! E come hai fatto a scampare alle sforbiciate bimestrali di suor Cunegonda?»
«Semplicemente non mi sono mai presentata alle falciature, come le chiama lei, e lei non se n'è mai accorta... forse perché è mezza cieca?»
«Sei incorreggibile, Mira, e la tua vita è in pericolo: se madre Antonietta lo venisse a sapere, ti taglierebbe non solo i capelli, ma anche la testa! Sai che è molto rigida sulle regole della congregazione e la prima è proprio quella di lasciare fuori dal monastero ogni frivolezza, capelli compresi!»
«Non se ne accorgerà mai, è tutta presa dalle sue mille incombenze spirituali e materiali che i miei capelli sono di sicuro l'ultimo dei suoi pensieri.»
«Beh, speriamo... altrimenti ti toccherà una seduta da...»
«Suor Cunegonda: se ti distrai un attimo, ti ritrovi rasata e bionda!»
«Ne hai una per tutte, eh!»
«Certo, e ne ho una anche per te: suor Tizia, se sei sana è una notizia!»
Letizia mi guarda di sbieco. Adoro farla arrabbiare.
«Davvero molto molto divertente.»
Sfodero un sorriso sbarazzino, poi ritorno seria perché i ricordi mi travolgono.
«Anche per suor Morgana aveva composto una rima: Suor Morgana, la guaritrice della savana. Mi ha accolto come sua apprendista, mi ha insegnato tutto sui veleni di serpenti, ragni e sul potere curativo di certe piante, come l'artiglio del diavolo appunto, fenomenale antinfiammatorio. Mi mandava a raccogliere erbe e radici e mi insegnava i trucchi per catturare animaletti venefici che potevano essere utili nella preparazione delle sue medicine. Mi chiamava goccia di luna e mi raccontava ogni sera la storia del mio ritrovamento, condita da elementi fantastici per renderla più comprensibile a una bimba di pochi anni. L'ho imparata a memoria, parola per parola, da quante volte l'ho ascoltata.
Una notte piena di stelle, una piccola goccia è scivolata giù dalla grande madre luna che, vedendo la cattiveria e la miseria degli uomini, non è riuscita a trattenere una lacrima. Questa goccia si è posata ai piedi del maestoso sicomoro, padre di tutti gli alberi africani, ed era così luminosa che per una notte la luce ha inondato questa terra nera e selvaggia portando armonia e speranza tra le tribù. Un uomo buono e semplice, mentre cacciava gli uccelli per sfamare la sua numerosa famiglia, è stato attirato dal fulgore proveniente dal grande sicomoro: sotto le sue grandi frasche ha trovato una piccola bambina candida come la luna e l'ha portata qui alla missione. E da quel giorno la mia piccola goccia di luna rende luminose le nostre umili vite. È il nostro miracolo.»
«Che bella storia Mira, detta così le tue origini sono davvero fiabesche.»
«Ma la realtà è molto diversa e per certi versi ancora avvolta nel mistero, purtroppo. Se solo potessi tornare in Africa, forse troverei le risposte alle mie tante domande.»
«Magari un giorno... così potresti tornare a far visita a suor Morgana, ne sarebbe felicissima, credo.»
«In realtà è stata trovata riversa sul pavimento della sua capanna la mattina stessa del mio trasferimento qui in Italia, morsa da tre crotali sfuggiti da una crepa della teca in cui alloggiavano. È morta dopo alcune ore di agonia, mentre io venivo imbarcata su un volo di sola andata verso l'istituto dove mi hanno istruita. Avevo dieci anni, uno spirito indomito e una gran confusione in testa, proprio come ora che sono in monastero da quasi due anni ma non ho idea di chi io sia davvero e soprattutto di che cosa voglia veramente.»
Un lieve bussare alla porta della cella di Letizia mi fa sobbalzare immersa nei ricordi e nei dubbi. Dall'uscio spunta la testolina incappucciata di Margherita, una novizia come me, ma con le idee molto chiare e la serenità dipinta sul viso.
«Mira, la madre superiore vuole parlarti. Se riesci ad andare subito sarebbe perfetto» e sfodera uno dei suoi sorrisi luminosi che rischiarano tutta la stanza. Come vorrei essere in pace come lei!
«Vado subito, grazie Rita»
Letizia percepisce la mia ammirazione per la nostra amica e bisbiglia curiosa, indicandola:
«E anche su di lei avrai composto qualche rima interessante, immagino...»
«Margherita, che ha sempre il sole tra le dita... la rappresenta, no?» e le faccio l'occhiolino.
Letizia mi rifila una rumorosa pernacchia.
«Lo sai che ti voglio bene anche se mi maltratti» e le sorrido innocente.
Letizia ricambia, così posso congedarmi da lei, ma non senza prima mostrarle la salma ridotta in poltiglia della vespa che la importunava poco prima.
Mi incammino lungo il corridoio infinito che conosco a memoria, poi giù per le scale che ormai riesco a precorrere a occhi chiusi. Giungo alla porta dell'ufficio di madre Antonietta e, prima di bussare, faccio un profondo respiro e alzo lo sguardo.
Un sorriso increspa le mie labbra.
Sono pronta.
fonte immagine: https://www.google.it/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fwww.rollingstone.it%2Fpop-life%2Fperche-gli-utenti-di-tiktok-sono-cosi-ossessionati-dalla-luna%2F525719%2F&psig=AOvVaw1w0BS3nVW7bdm6BPLPIE3R&ust=1705859570327000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBIQjhxqFwoTCLjCvqzE7IMDFQAAAAAdAAAAABAF
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top