Fedeli esecutrici del volere patriarcale, spesso aguzzine delle loro figlie, solo raramente, con grandi sforzi, si sono scoperte solidali. Chiara è riuscita a evitare questi ostacoli e imporre la sua volontà, senza gridare né pretendere, con felice lealtà verso se stessa. Potremmo dire, senza paura di forzare la mano, che la piccola volitiva Chiara di Assisi è stata una antesignana della difesa dei diritti delle donne, anche se non ha mai pensato in termini di rivendicazione, sentimento lontano dalla sua natura e dalle sue scelte di vita. Ma certamente ha messo in pratica quello che molte donne avrebbero voluto e non hanno potuto fare: conciliare una adesione formale alle regole misogine disposte dall'alto con una prassi di libertà. Una libertà non dettata da egoismi e vendetta, ma da una fedeltà ancora più profonda alle proprie scelte religiose. Padrona di sé, autonoma nell'elaborazione di un pensiero proprio, rivendicatrice di una libertà se non sociale, cosa impossibile per quei tempi, per lo meno psichica e mentale.
Dacia Maraini - Chiara d'Assisi: elogio della disobbedienza.
I used to float, now I just fall down
I used to know but I'm not sure now
What I was made for
What was I made for?
«Hoc est enim Corpus meum.»
All'atto della transustanziazione il campanello segnala ai fedeli di genuflettersi e chinare il capo, meditando sul prodigio inumano che si sta verificando davanti ai loro occhi: l'ostia di pane, quel candido dischetto, si trasmuta in carne, e il calice in vino sangue. Innalzato nelle mani di Frate Silvestro, il viatico cristiano rifulge come un sole in miniatura. Un silenzio tombale avvolge i presenti, investiti dalla forza magnetica promanante dal Santissimo Sacramento.
Le monache e i frati rimpiazzanti i chierichetti.
Già, rimpiazzanti.
Mai Chiara avrebbe immaginato di vedere chiesa vuota e clausura accostati in una stessa frase. Lei e le sue sorelle si accalcano dietro la grata, la griglia simile a una galera. Freddo metallo. Separate, distaccate, come appestate. Come scarti. Incarcerate assistono alla funzione, le riottose monachelle che proprio non si piegano a sottostare ai cambiamenti vigenti nella nuova Regola dei frati minori.
I frati non possono camminare per la strada insieme a loro. Vietato pranzare in loro compagnia. Raccomanda loro, il manoscritto, di evitare d'incrociare le donne. Impensabile, poi, obbedire a delle femminelle insulse!
La clausura, lecito mezzo di controllo.
La clausura, ostacolo di Chiara.
Le sue serviziali, ammesse all'uscita, a mendicare, a portare sostegno ai lebbrosi e ai derelitti senza che i cosiddetti lebbrosi e derelitti si rechino da loro, vanno controcorrente quindi? Donne all'aperto. No, sostiene Ugolino, la cui regia dietro questo strutturalismo Chiara fiuta. Il progetto del cardinale di Ostia sembra formulato per spegnere punto dopo punto le novità del programma di Francesco che Chiara ha fatto proprio, assumendolo quale impianto della sua vita e di quella delle sue discepole: niente povertà, niente lavoro manuale, ma separazione dal mondo esterno, preghiere, mortificazioni corporali, severo silenzio e tenebrosa austerità e, infine, rendite e dotazioni che permettano a quelle galere sante di funzionare e fatturare.
Signore, prega Chiara, al momento di ricevere la comunione attraverso uno spioncino tra le sbarre, in composta fila indiana. Signore, se tu sei il pane della vita, un pane matetiale e immateriale, insito nei nostri fratelli bisognosi, come possiamo nutrirci di te se loro mancano? Li hanno scacciati, i loro poverelli.
Si rispecchiava in loro Dio!
Soli visitatori? I frati. I quali, però, devono limitare il più possibile i contatti.
Il sapore sopraffino dell'Eucarestia, sciolta nel palato, scompare, sostituito da amara cenere. Pietrificata, una statua di sale mostrerebbe più espressività, Chiara segue il resto della messa, scandagliando con occhi passivi la cappella vuota.
Dov'è il bimbo di Spoleto con le narici ostruite da ciottoli che, grazie all'intervento di un paio di pinze e una benedizione, ha guarito? E il piccolo con una ciste intaccante l'occhio? Il ragazzo con un ascesso purulento sotto l'ascella? La puerpera dai seni flaccidi, a secco di latte? Il lebbroso dalle dita ridotte a monconi consunti? O quello dalle protuberanze ulcerose sul ginocchio ingigantite quanto dei cocomeri? La fanciulla vittime di una violenza? Il tarantolato epilettico?
Dov'è il mondo che Cristo amò a tal punto da elevarsi in croce per lui?
Le porte della cappella sono chiuse.
Niente tramestio di uomini e animali e carri.
Dovrebbero essere aperte, spalancate come il cuore di Dio.
Chiara non pretende di modificare tutto subito, di rivoltare a soqquadro le regole. L'amore lo fa, ma pure l'amore mantiene un suo ritmo, un suo tempo. È troppo presto, prematuro, conviene muoversi con lentezza. Ma la clausura toglie alle suore la libertà di muoversi in cerca di cibo, elemosina o lavoro per sostentarsi, agevolando anche la cooperazione dei frati. Non sono gli unici a uscire. Francesco ha insegnato che chi si consegna a Dio deve farlo sinceramente e totalmente, senza riserve.
Abnegazione allo stato puro.
Per sopravvivere basta il lavoro manuale - in cambio del quale non si domanda un salario in denaro, quanto in cibo - o la questua. Non ci si deve vergognare a supplicare un pezzo di pane o un torsolo di mela. E se, nonostante tutto, un poco di vergogna la si sperimenta, tanto meglio, che serva da lezione: è una sconfitta dell'orgoglio, lo si mortifica l'orgoglio, si umilia quell'io troppo umano ed egocentrico che deve essere sempre corretto e dominato.
Adesso, stando alle nuove disposizioni, se per esempio Frate Bentivenga non rincasa con una fascina di ramoscelli affastellati, non si può neanche porre a cuocere sulle braci quei ceci consegnati da un qualche contadino gentile.
Felicita si sta grattando la testa in continuazione, Chiara lo nota. Pidocchi. Le casalinghe d'Assisi usano una ricetta a base di pece e olio, oppure lavano con l'aceto. Chiara si appunta che deve preparare un intruglio per la consorella, con pece, olio, o magari qualche altra erba del loro fazzoletto d'orticello. Radici, foglie, fiori. Malva, biancospino, dragoncello, valeriana, camomilla, conoscenze rurali e rimedi approssimativi, decotti e tisane, tramandati con pragmatismo da madre in figlia.
Nota anche Frate Silvestro, tracciata la benedizione nell'epilogo della funzione, ripegante la stola preziosa. Gli segnala, tramite un cenno, di avvicinarsi.
Titubante a causa delle regole ferree, mentre consorelle e confratelli, alla spicciolata, se ne vanno, Silvestro osa trasgredire e si appressa alla grata.
«C-Chiara, non sarebbe conveniente...» farfuglia il frate, guardandosi intorno.
«Sarò concisa: aggiornami su Francesco. Come sta?»
Silvestro sospira sconsolato. «La scrittura di quella Regola l'ha logorato, che ti devo dire? Si rifugia nella solitudine, preferisce bande di bambini, animali e infermi ai dibattiti ampollosi dell'Ordini. Cinguetta con frotte di uccellini... soffre. È evidente.»
A tutti tranne a lui. Ah, la testardaggine cocciuta di quell'asinello!
«Lo rammento, quando ci onorò della sua ultima visita.» Chiara annuisce vaga, il ricordo vivido come il panorama favoloso su cui si affaccia San Damiano. «Strascicava i piedi, sorrideva a malapena.»
«Un medico non lo vuole consultare manco a scherzarci.» Silvestro tossicchia, sta sudando freddo. Se lo beccano ne passerà delle belle. «Perdonami ora Chiara, non posso trattenermi a lungo, le conosci l-le nuove normative...»
Ahinoi. «Non ti agitare Silvestro, vai pure.» Si aggrappa tenacemente alle sbarre, avventandosi in avanti, infilando una mano e afferrando il polso di Silvestro. Lui sgrana gli occhi, calmandosi quando, nel palmo, gli recapita il bocciolo reciso aulente e rigoglioso d'una rosa. Chiara gli chiude le dita a pugno, furtiva. «È la prima fioritura del mese. Dalla a Francesco, salutamelo e digli che mi manca.»
Da morire.
Silvestro, frastornato, contempla il piccolo pegno.
«Lo farò.»
«Ora va'.» bisbiglia Chiara. «Non sarò io a farti correre rischi. Raggiungi gli altri.»
Contrito, Silvestro storce le labbra in una smorfia di commozione e nostalgia. Occhi patinati di sale. «M-Mi dispiace, credimi. Mi mancano i primi tempi, ma devo, dobbiamo, attenerci. Siete donne, dobbiamo stare alla larga da voi.»
Takin' a drive, I was an ideal
Looked so alive, turns out I'm not real
Just something you paid for
What was I made for?
Accomiatatasi da Silvestro, Chiara scende impensierita i consunti gradini comunicanti con il chiostro. Si prevede pioggia, l'aria n'è permeata. Agrodolce pioggia fortificante la campagna. Sorella Pioggia. La frase di Silvestro l'ha travolta in pieno.
Spietatamente diretta.
Siete donne, dobbiamo stare alla larga da voi.
Donne addomesticata. Donna mansueta e inoffensiva. Donna con cui bamboleggiare. Donna dalla natura perversa e approfittatrice. Donna progenitrice di streghe. Donna imperfetta e difettosa. Donna credulona. Donna inetta. Donna da temere e imbavagliare. Donna da fustigare e a cui impartire il precetto dell'obbedienza cieca e indiscutibile al marito. Donna animalesca. Donna incline a lasciarsi abbindolare dalle lusinghe biforcute e avvelenate del demonio. Donna, il cui fuoco va estinto.
Donna, colpevole della disobbedienza della mela.
Un uomo volontariamente povero è una seccatura eretica. O un devoto innovatore ligio a imitare le orme di Nostro Signore. Dipende dai punti di vista. Una donna volontariamente povera abbocca all'amo del diavolo, che la schiavizza, frullandole quel briciolo di senno di cui dispone, tramutandola nella sua concubina. Non può resistere da sola, una donna, non senza supporto maschile. Rendite, possedimenti, donazioni di benefattori. Di arrabattarsi con le proprie forze neanche menzioniamolo.
Una donna è dipendente dall'uomo.
Persino quando lo spasimante alla sua mano non è un uomo mortale, ma il connubio perfetto e illibato di uomo e divino. Devono discuterne gli uomini, pure in quelle circostanze. Ficcare il becco in un matrimonio che si consumerà solo nell'estasi della preghiera, se la fanciulla prova sinceri sentimenti verso Nostro Signore e non è stata barbaramente immolata sull'altare di una paventata devozione solo per disfarsi di un fardello da sfamare in eccesso. Perché? Perché intromettersi? La femmina, depravata e perfida, è inaffidabile al cospetto di Dio? Può cospirare con l'Altissimo? In combutta con lui per sovvertire l'Ordine costituito?
Per questo va tenuto sotto custodia? Prigioniera. Vigilata.
I suoi sgarri rischiano di condannarci di nuovo alla perdizione.
In un circolo vizioso.
E l'uguglianza spianata dell'amore di Cristo? Amore destinato a chiunque, scavalcante barriere e vincoli e costrutti sociali.
Se il Verbo s'incarnò e visse quella vita, significa che è attuabile, è possibile riproporre quel modello, metterlo in pratica. È possibile. Non sono una manciata di parole volanti via nel vento! Imitatio Christi. Un sogno avverato. La Santa Madre Chiesa ha smesso di crederci in questo sogno? Ha perduto la sua magia? Per questo si è isolata, abbarbicata sul suo cocuzzolo di privilegi e rituali, distanziandosi da quelle strade, da quella gente, da quelle storie e quei respiri e quelle giravolte, in cui Cristo aveva sguazzato fino in fondo?
Il primo vicino all'ultimo.
E Francesco? Il suo non è stato un tradimento, no. Chi tradisce ci guadagna sempre un compenso. Francesco ne ha guadagnato solo dilemmi e malanni e truci dubbi assillanti, che lo inducono a ricercare silenzio e pace. Ha perso. Un glorioso fallimento. Può definirlo, Chiara, fallimento, quando ne ha ottenuto una pace duratura e una stabilità interna all'Ordine? Ma ha barattato il suo - il loro - sogno, per quella pace. Il prezzo è stato altissimo. Il prezzo sono stati tutti loro.
La felicità d'un mondo irreale.
No, pensa Chiara, reale.
Perché se non è stata concepita per questo mondo - per risollevarlo e purificarlo con il balsamo splendente dell'amore - per cosa è sta concepita allora?
E tutte le sue sorelle?
Si morde il labbro. Il suo camminare a falcate stizzite accelera in una corsa rocambolesca. Vorrebbe sbraitare. Vorrebbe recarsi da Ugolino e costringerlo a ritirare le sue normative ingiuriose. Vorrebbe andare da Francesco e abbracciarlo e sussurrargli che, dopo l'oscurità del sepolcro, risorge sempre l'aurora rosea della speranza. Il loro sogno non si inabisserà nei meandri della Storia, nel pantano delle utopie. Ispirerà futuri riformatori, schiere di uomini e donne caparbi, militanti nelle truppe della fede. Vorrebbe... cosa vorrebbe Chiara?
Piangere e strepitare e invocare la clemenza celeste.
Vorrebbe venire ascoltata.
Dio è un bravo interlocutore, discreto, efficiente. Le manca discorrere con un uomo.
Possibilmente non Ugolino.
Siete donne, dobbiamo stare alla larga da voi.
La sua andatura si fa più incalzante, i passi più svelti. Siete donne. Non è propensa a lasciarsi maneggiare dalle emozioni come una bambolina, Chiara. Si è già prestata troppo alle mani invasive dei parenti, ispezionanti critici il suo corpo immaturo, correggenti la sua postura, limanti l'impasto informe di una ragazzina in una donna in età da marito. Una badessa deve ragionare lucidamente.
Siete donne.
Eppure il soggolo le prude, il velo le tiracchia sullo scalpo in maniera tormentosa, tremenda. Simboli di un patriarcato oppressore, di cui insistono che sia esecutrice accomodante. Se li strappa via, scagliandoli a terra. Refoli freschi, profumati di prospettive tetre di pioggia, le schiaffeggiano le guance. Il freddo accentua il rossore, l'umidità traspira attraverso le trame del tessuto e l'ordito del suo cilicio.
Chiara corre, il cuore inalberato, martellante dentro il petto, il sangue rombante nelle orecchie. Corre come se fuggisse. Da cosa? Da chi?
Siete donne.
Una pressione interna, un macigno, un paletto trapassante il cuore. La rabbia si mischia alla mestizia. Un groppo alla gola le inceppa il respiro.
Un cappio di mani invisibili. Sta soffocando.
Sente di stare per esplodere, a un soffio dal ridursi a brandelli completamente.
Sopporta. Sopporta. Sopporta.
Una donna, secondo le logiche bieche del mondo, è il prodotto di un uomo.
Lei... lei sta solo percorrendo la strada individuata da Francesco, diretta alla meta di Cristo. Lei è stata artefice del suo destino. Lei è scappata di casa.
«Chiara?» Sta proseguendo talmente di fretta che Ortolana è interdetta. Le fila dietro, raccogliendo l'orlo, insieme a un nugolo di consorelle allarmate. «Chiara? Chiara dove vai? Chiara? Tutto bene? Chiara!»
Sopporta. Sopporta. Sopporta.
Deve badare a donne come lei, è circondata da donne come lei. Ortolana l'abbranca per il gomito. Chiara, a capo scoperto, sul punto di scoppiare, si divincola, scapicollando nel cortile.
Siete donne.
La povertà assoluta voluta da Francesco e da Chiara suscita scalpore e paura. È una volontà eversiva che lascia i penitenti privi di qualsiasi sicurezza per l'incerto avvenire - esiste la sicurezza di Dio! - ma concede loro una grande indipendenza che inquieta le autorità. La povertà è libertà. È compassione. Compatire. Patire insieme, per amore. Sfonda i livelli della piramide sociale, pialla le differenze. Unisce.
Unisce tutti.
Sopporta. Sopporta. Sopporta.
I piedi scalzi di Chiara, dai calli spessi e fessurati - quei piedini bianchi, venati d'azzurro, che per diciotto anni hanno indossato scarpine foderate di vaio e velluto, scarpine vezzose dalle fibbie luccicanti - quei piedi calpestano la ghiaia aguzza cosparsa sui sentierini del chiostro, in quel quadrato ripartito tra aiuole e pozzo, al centro. Chiara si ferma, sosta immobile. Indugia, si sbilancia in avanti.
Ansante, inala boccate d'aria arroventata. Un temporale è alle porte.
«Chiara! Chiara che ti prende?»
Siete solo donne, dobbiamo stare alla larga da voi.
Chiara urla.
'Cause I, I
I don't know how to feel
But I wanna try
I don't know how to feel
But someday, I might
Someday, I might
Urla lì, nel chiostro, nella pioggia scrosciante dalle grondaie in torrenti, nel cuore di quell'acquazzone torrenziale. Urla.
D'instinto, così. Come un fuoco latente, assopito a lungo sotto la coltre di cenere, che finalmente riemerge, sgorgando impetuoso. Esplode un fulmine poco lontano, il suo fragore rimbomba tra le colline, uno schianto pervadente l'aria d'un sentore fumante, elettrico. Vivo. Vivo come il suo urlo disperato.
Le brucia nei polmoni, le lacera la gola. Non ha mai urlato, Chiara. Non di rabbia. Non di frustrazione. È una sensazione viscerale, come qualcosa - tanti qualcosa, troppi qualcosa - che, nelle sue profondità, si risveglia. Uno scatto. Una sopportazione giunta al limite, atavica quanto il mondo e i suoi torti. La pioggia le martella la schiena, il ciuffo di capelli corti le aderisce alla fronte. Scivola via, la pioggia. Colano, le gocce, disegnando sentieri tortuosi nelle insenature, nelle curve, negli spigoli e nelle rughe del suo corpo. Penetra nella trama del saio, l'acqua, infierisce con spilli di gelo lungo la schiena, le infiamma il torso, imprigionato nel ruvido, mortificante abbraccio del cilicio in crine di cavallo. Le setole si avvinghiano con il tessuto grezzo della ruvida sottoveste in peli di porco, calzata per intensificare la penitenza.
Il suo grido è sopraffatto dalla furia del temporale.
La sua furia è come quella del temporale. Intensa. Selvaggia. Una furia primitiva e cieca, connaturata a lei, alle sue ossa, alla sua natura di donna.
Basta, basta, basta.
Non ha mai urlato, Chiara. Un grido a lungo trattenuto, represso come innumerevoli parole, innumerevoli opinioni, innumerevoli contestazioni di donna.
Un grido che si affievolisce, indebolendosi, mentre il bagliore di lampo squarcia la sospesa, immanente, staticità dell'etere. Un cielo scolorito, bigio, nuvoloni cupi che si addensano, rabbuiando l'orizzonte, il brontolio sommesso del cielo che si accresce, amplificato, tonante, come il rullio dei tamburi da guerra di un esercito alla carica.
Un grido che le raschia la gola come un coltello, una lesione inferta di proprio volontà, riverberante dai polmoni, spezzandole la voce, incrinandola, in un roco gorgoglio, un saliscendi di gozzi in gola e singhiozzi spumeggianti sulle labbra.
Guerreggia, spaccato, il cuore di Chiara.
Basta, basta, basta.
Sottomissione. Sottomesse. Il suo non è un atteggiamento consono a una badessa, a una guida spirituale, timone di una comunità di donne votate alle rinunce e alla contemplazione. Non le si addice. Dove ha lasciato la mitezza edificante, il decoro, il senso del pudore? Scorrazza in giro a capo scoperto, nel suo convento?
Se l'è strappata perché il peso la schiacciava.
Le sue esili spalle - le esili, fragili spalle di migliaia di sue progenitrici - sopportano un peso quotidiano che, con l'accavallarsi dei secoli, diventa insostenibile.
Basta, basta, basta.
Chiara crolla in ginocchio, schizzandosi il saio in una pozzanghera. Infradiciarsi è l'ultimo dei suoi affanni al momento. Si tortura la cordicella stretta in vita, i tre nodi simboleggianti le tre sacre promesse di obbedienza, povertà e castità, lo sguardo sbarrato nell'acqua grigiastra, torbida e perennemente picchiettata dalla cortina di gocce. Le rimanda un riflesso sfocato, indefinito, tremolante.
Basta!
Lo picchia, uno schizzo adirato nell'informe ristagno d'acqua. Il riflesso si frantuma.
Il pianto erompe. Crede di stare per vomitare fuori ingiurie, per sputare il cuore che sente oscillare, incerto, nella trachea. Chiara si conficca le unghie nel palmo, strizza le palpebre. Se le strizzerà abbastanza forte forse il temporale mitigherà la sua furia e il velo di pioggia si attenuerà e il sole filtrerà nuovamente tra le nuvole.
Forse.
Sogni futili.
Chiara piange. Piange in singulti isterici, disperati. Piange con un'energia aggressiva, ferina, che le formicola sulle braccia, sulle gambe, che arde dentro di lei come un crogiolo di fuoco. Soprusi. Rassegnazioni. Accettazioni a capo chino, pietosamente genuflesse al padrone. Al marito. Al figlio. Al superiore. Alla tutela di un uomo.
Uomo.
Maledetto uomo - il singhiozzo rilascia un verso disarticolato, insensato, un gutturale gemito - e maledetta la sua paura! Sì, sì, dannazione. Accusa dei peccati più infami, più empi, colei che il Signore gli ha assegnato quale compagna e madre della sua discendenza, e poi, lui stesso, ne cade invischiato. È debole. Ha costruito un alone di stregoneria e bestialità intorno al sesso a cui gli è impossibile resistere. Demonizza la lussuriosa belva attentatrice della sua castità e poi è lui stesso che non riesce a rimanerne saldo, fedele a quel giuramento di astinenza. Cade. Precipita dal suo piedistallo. Un'umiliazione, per l'uomo, una crepa nell'indistruttibile armatura di onnipotenza e arroganza. L'arroganza della superiorità, l'arroganza della forza muscolare - solo forza muscolare, solo per un blando innesto di nervi e bile e muco e sangue! - che prevale e opprime, soggiogando.
Maledetta la debolezza dell'uomo che non impara dai suoi errori, che non assorbe l'umiltà di rinnovare, no! Non ammetterà mai, l'uomo, d'essere un codardo, un pusillanime, deviante l'attenzione da sé alla meretrice lasciva, che sosta lì, perenne, esca e trappola, cocchio di libidine carnale su cui montare per venire scagliati dritti nel precipizio dell'inferno. La colpa è della donna. La colpa è donna. È femmina. Colpa. È subdola come il serpente che la circuì, capricciosa, volubile. La sua avvenenza è il coperchio d'un vaso di Pandora scatenante un proliferare di mali, di lezzo e carcame. Putrida donna. Nevrotica donna. Inerme donna. Incoerente, volubile donna.
Seduttrice, malefica, strega.
Che l'uomo - che la sua genia - si decida.
Esalta i tuoi capelli, coronamento di cure, lozioni e pettini. Occulta i tuoi capelli, la modestia è il caposaldo di una reputazione impeccabile. Chioma, orgoglio di vergine, vanità di sposa. Esibisci le tue morbide, tenere forme per il godimento del fidanzato, attrarrai uomini come il miele stordisce le api. Copri, ammanta il tuo corpo infingardo, sei forse una baldracca da lupanare? Il ventre, contenitore del seme, il tuo corpo campo arato dalle sue rudi movenze, da carezze raspose e baci nauseabondi di vino, mentre lui schiaccia e tu distilli il suo seme in figlio dopo figlio dopo figlio. Truccati, lavati, come sei conciata? Vestiti, spogliati. Ottempera alla tua funzione sponsale. No, basta, serra le gambe, mi hai stufato, rigida come una lastra di ghiaccio. Ribellati, saresti formidabile! Ma cosa fai? Infrangi le regole, te ne infischi delle convenzioni? Sei una tra tante, che solfa trita e ritrita. Sii gentile, sii severa, non eccedere.
Un passo falso e ti giudicano. Rispetti la tradizione e ti giudicano. Osservata, costantemente. Non si accontenteranno mai. Possono anche spolpare Eva fino all'osso, profanandola con beffarda crudeltà, e si inventeranno comunque il modo di disonorare le sue figlie. Onore e disonore. Per una donna il confine è labile, asseconda la bramosia dell'uomo. Uno sfocia nell'altro - può succedere, se l'uomo lo stabilisce - con la più tiepida naturalezza del mondo.
Il giudizio di un uomo decreta il valore di una donna.
Chiara aspira, le parole cavate di bocca, le spalle sussultanti, trema. Le gocce si confondono con le lacrime, zampillano ovunque, tintinnanti, persistenti, smaniose di ricongiungersi alle sorelle allaganti il chiostro. Cerca di acchiappare i pensieri, ma quelli se la svignano, evadendo, e la rabbia sepolta, ingoiata, riaffiora.
L'invisibile e letale - catastrofica - rabbia di una donna.
Dovrebbe pentirsi? Perché non prova vergogna di questo sbotto improvviso e violento? Di quest'impulsivo, irragionevole grido? Un lampo balena, il suo crepitio sconvolge la terra, quasi ambisse a reclamarla con la potenza inaudita del suo fascio di luce. I richiami delle consorelle, le esortazioni di Ortolana a levarsi di lì, che si ammalerà, che si sta bagnando tutta, risultano ovattati, come provenienti da un'altra dimensione a lei estranea, sorda. Una pellicola tra Chiara e il mondo esterno.
Sono pericolose? Serpi che s'insinuano nei santi pensieri? Sta sbagliando lei, ora, qui? È presunzione la sua? È il suo guscio di donna a prendere il sopravvento sopra il raziocinio arbitrale di anima? Un guscio illividito da colpi segreti, la carne che prevale sullo spirito? Si sta arrogando diritti di lamentela che non dovrebbe?
E perché? E con chi?
Con Dio, il quale esordì con rivoluzionaria uguaglianza... o con la collegiata dei patrizi amministranti il vascello di Pietro, le cui parole di disequilibrio e sudditanza sono sedimentate così a fondo negli animi da erodere le lapidarie dichiarazioni di Cristo?
Amore universale. Amore egualitario.
Oppure... oppure quello di loro, di loro donne, di loro monache, è troppo lurido di peccato perché sia dispensato al mondo intero? Al bimbo dalle pietruzze incastrate nel setto nasale, a quello con una ciste assoggettante l'occhio, al lebbroso dalle dita rinsecchite a monconi incancreniti, alla madre dai seni flosci e sguardo vacuo e vuoto, al contadino ferito con il falcetto durante la mietitura, alle suore incontinenti, con i vermini brulicanti che prolificano sulle loro seggette. Un amore contaminato dall'errore di Eva. O sono loro a essere statue pure, marmoree, linde, da preservare immacolate, come barlumi luminosi d'un paradiso troppo santo perché scenda a omaggiare la plebaglia peccaminosa e deviata d'un suo cenno?
Una masnada di consorelle da tutelare, segregate nel convento, ingabbiate nei reticoli della grata, con le loro preghiere - cosa buona e retta, per Chiara la preghiera è il primario beneficio di una monaca all'anima sua, il suo primo e immediato contributo ai malesseri piaganti l'uomo - propulsori invisibili e leggeri dei loro colleghi uomini, in contatto con il cielo che si spalanca tra quelle quattro mura.
Chiara loda la preghiera. È uno scrostare l'intonaco del cielo per farne piovere frammenti sulle anime affamate, un diluire il suo azzurro per rinfrancare le anime assetate, ma la preghiera non combinata alla carità costituisce un mucchio di parole sterili. Predicare e non attuare. La teoria espropriata della pratica. Un seme che non attecchisce. Nullità. Convenienza. La convenienza di pregare perché così è imposto a una monaca integerrima. La convenienza partorita dall'obbligo.
Come fornire d'un panno per alleviare una febbre senza il catino d'acqua dove immergerlo. E senza il corpo a cui apportare sollievo.
Chiara è scappata dalle convenienze fiacchenti l'animo. Dalla macchina delle convenienze - nozze prestigiose, ricca badessa d'un venerabile, antico convento - che fagocita la volontà, la inibisce, sopisce il fuoco impetuoso della gioventù.
Si domanda, recentemente, se Francesco l'appoggi in questa sua serrata, silenziosa opposizione. Se la sostenga anima e corpo. Le sue visite si sono diradate - l'istituzione li ha allontanati, una dolorosa scucitura di anime siamesi, di menti comunicanti e cuori connessi - e, quando si manifesta a lei, effimero come lo spirare dello scirocco, la fiamma della sua preoccupazione divampa. Stanco, tanto stanco. Gli rimane la forza di combattere in nome del loro ideale? O la pace collettiva ha vinto sul sogno? La realtà infetta, patibolo dei sogni. Demolisce i sogni, la realtà.
Francesco preferirebbe forse che abbassasse le armi? Che si arrendesse?
Lo sta tediando? La sua pressione assommata alle altre?
Una docile, leggiadra figurina piegata ad accudire i frati, a proteggerli con le sue orazioni, faro e molo a cui ormeggiare. Certo, Chiara non negherà mai aiuto e supporto, sono i suoi - i loro - fratelli.
Ma relegata all'ombra? Alla connotazione di accessorio?
Mai.
Il silenzio urla. Ne esistono di innumerevoli tipologie. Persino il silenzio fragoroso della pioggia, tamburellante sui tetti, rimbalzante, pioggia rombante ch'è andata scemando, acquietandosi in soffici carezze argentine, trasfigurando la campagna e purificandola dalla cappa d'afa e dal suo morso aguzzino.
Il silenzio notturno. Il silenzio diurno. Il silenzio ostile. Il silenzio felice. Il silenzio devoto - quanto concima la meditazione nelle prime ore della giornata! - e il silenzio punitivo. Il silenzio di quando s'è spiazzati dalla meraviglia. Il silenzio costernato. Il silenzio riposante. Il silenzio fitto d'una selva di dialoghi aleggianti sulle labbra.
Il silenzio remissivo di Chiara urlerà.
Rimarrà fedele alla dottrina di Francesco e costruirà la sua dimora sulla pietra ecclesiale del Principe degli Apostoli. Solida.
Potrà protrarsi anche per anni, questa diatriba tra lei e i vertici della Curia. Non n'è spaventata. Dio la sosterrà. La fede è il miglior antidoto all'apatia, alla tristezza e il più robusto e resistente bastone. Come il coraggio.
«Chiara!»
Un intruso nel suo campo visivo. Chiara si appiglia al bordo del pozzo, la pietra scabra sotto i polpastrelli anneriti. La pioggia s'insinua nelle vesti, le striscia sui lineamenti. Il moccio è seccato sul labbro superiore. Se lo scrosta via con una passata di mano, poco encomiabile da parte di una badessa.
Ganci e catenacci impediscono che la pesante graticola sia sollevata e che, per sciagura o disattenzione, qualcuno o qualcosa ci caschi dentro.
Chiara li fissa con occhi vitrei, inespressivi.
Respira. Le spalle tese si rilassano. Il suo cuore batte regolarmente.
Non mi arrenderò Signore.
«Chiara!»
Ortolana la scuote, la preoccupazione sovrana in viso. Chiara si volta di scatto, collassa nell'abbraccio della madre, sciupandole il saio mentre lo ghermisce, stritolando la rozza stoffa tra le dita. Disperata. Sollevata. La testa, goccioline di pioviggine scroscianti tra le ciocche corte come setole, ciondola inerte, picchiando la fronte sulla spalla di Ortolana. Sorreggendola, un braccio attorniante la vita e un altro posato sulla spalla, riconduce la figlia tra le arcate del chiostro, affollate di consorelle in apprensione, caotici gruppetti cicaleccianti. Cauta, l'aiuta a sedersi nel muro corrente lungo tutto il perimetro, tra due colonne.
Chiara abbandona la testa all'indietro. Ortolana, delicata, ringrazia Beatrice per aver raccattato il soggolo e il velo buttati a terra, sgualciti, e li riconsegna alla figlia maggiore, piegandoli accuratamente al suo lato.
Nessuna delle due fiata. Proferiscono già abbastanza parole i loro sguardi.
«Esisterà...» gorgoglia Chiara, dopo un'interminabile parentesi di silenzio, interrotto solo dal sommesso, discreto, brusio dei conciliaboli di consorelle e dallo sgocciolio ciclico della pioggerella. Le voce che le lambisce le orecchie è aliena. Rauca e cavernosa, un gracchiare aspro. Come se avesse inalato del fumo asfissiante a intossicarle i polmoni. Come se l'avessero rotta e poi riassemblata in un'accozzaglia di rottami. «Esisterà mai q-qualcosa di così difficile quale... credere?»
Credere in un amore unificante, in una croce che elimina le diseguaglianze, lava le colpa, smacchia dalla zavorra del passato. Uomo o donna. Un crocifisso inchiodato e suppliziato per uomini e donne. Indistintamente.
Credere in un'ideale e perseguirlo a costo della vita, delle proprie imprese.
Credere - sperando in Colui che inanella sfilze di giorni - che un giorno ci saranno non tanto donne libere di uscire o di predicare o di sostenere nella compassione fraterna.
Ma donne libere di scegliere.
Scegliere se oltrepassare l'uscio e incamminarsi nel mondo, sale di divino condente l'insipido della terra. Scegliere se interrarsi vive nella clausura silenziosa e contemplativa, immolandosi sull'altare del mondo per salvarlo con il loro afflusso continuo di orazioni al Padre. Scegliere se fondare ospedali o scuole o ospizi o ricoveri per gli sventurati. Scegliere se servire allevando futuri sacerdoti e coltivando semi di vocazioni oppure se consacrarsi al Signore. Scegliere se seguire una via alternativa, infinite e prodigiose come sono quelle lastricate da Dio.
Scegliere senza forzature e senza giudizio.
Di loro spontanea volontà. In completa autonomia. Libere nella loro decisioni e, a cagion di ciò, rispettate. Affrancate dal predominio e dall'autorità maschile. Padrone dei propri corpi senza che il valore di questi dipenda dai mutevoli assetti virili.
Il valore effimero di una donna, dissolto appena la sua bellezza appassisce e il suo ventre inaridisce, brulla sacca.
Ortolana sospira, le carezza la mano. «Addirittura Nostro Signore fu assalito dal dubbio e dalla solitudine nell'Orto degli Ulivi tesoro. Non sei sola.»
Chiara annuisce, regolando i respiri.
Il dubbio è l'acqua innaffiante il raccolto fecondo della fede.
When did it end? All the enjoyment
I'm sad again, don't tell my boyfriend
It's not what he's made for
What was I made for?
Si ricomincia, sorge un nuovo giorno.
Chiara lo inaugura per prima, come di consueto. Prima a levarsi, ultima a coricarsi, solo dopo essersi sincerata che tutti si siano rintanati sotto le coperte. Nella rarefatta e solenne immanenza delle prime ore - il cielo genera il sole in un travaglio vivace, con tinte vibranti e scargianti e altre scure simili a ecchimosi, come se l'astro pestasse e scalciasse nell'utero nuvoloso dell'etere per sgusciare a fare capolino - scosta ora, Chiara, le coperte. Si spruzza un istante la faccia nel catino comune, nel dormitorio vige la condivisione, e si ravviva i capelli corti con un pettine in legno.
Inarca il collo all'indietro, stiracchiandosi, il pomo sobbalzante, esposto e vulnerabile, antro di vita e culla di sangue, il lucignolo d'una candela ricalcante il suo profilo.
L'indolenza fugge con i rivoli che le serpeggiano lungo l'epidermide in un'infiorescenza di pelle d'oca, la spossatezza ottundente i sensi nella bambagia sonnolenta emigra lontano. Coraggio. È nel nome del Signore.
È per amore, una folle gioia d'amore.
Chiara, nelle tenebre incerte del primo mattino, sorride.
Il silenzio è una fragile bolla di vetro soffiato che presto scoppierà.
Appuntandosi le fasce del soggolo al velo con uno spillo, si alza, esordendo per prima nella preghiera mormorando un tacito ringraziamento. Scalza, i calli induriti sotto le piante, si precipita a svegliare le sorelle, scuotendole con un tocco leggero. Scende a saltelli intermittenti i ripidi gradini sbreccati, attraversa il chiostro e, tramite un angusta porticina, s'imbuca nello stanzino del campanile, suonando le campane al Mattutino.
Ai rintocchi le consorelle accorrono, soffocando sbadigli, infreddolite, in uno strofinare di mani e piedi gelati. Chiara sa che dovrà ripercorrere il tragitto all'inverso, salendo a destare con gentilezza e solerzia coloro che s'attardano.
Cause I, 'cause I
I don't know how to feel
But I wanna try
I don't know how to feel
But someday I might
Someday I might
È una vita indaffarata, quella della monaca, anche se il suo compito non è quello di provvedere al sostenimento proprio, del convento e dei poveri in cui s'imbatte uscendo a mendicare o dispensare conforto e vicinanza.
C'è sempre un'attività con cui occupare le mani a San Damiano. L'ozio è bandito. Le monache si destano alle sei, recitano la prima e si rifocillano con una parca colazione consistente in tozzi di pane e sorsi d'acqua. Dopodiché, come in fibrillazione, il convento si anima, fremente di attività domestiche, di pulizia, di servizio, pullulante, fino a poco fa, di masse d'indigenti bussanti alla loro porta.
Cucinare il cibo per una ventina di suore - considerando le ciotole eccedenti per eventuali poveri o viandanti - mettere a posto i giacigli, liberarli dalla polvere e dagli insetti arrotolandoli e comprimendoli con cinghie di cuoio, così che le pulci, in assenza di luce e aria, periscano e muoiono. Coltivare l'orto, zappare, sarchiare, estirpare e innaffiare. Lavare la biancheria, stenderla al sole, rattopparla, tessere o terminare i lavori al telaio, che siano abiti per i bambini, mantelli per i contadini o paramenti liturgici da inviare alle chiese della zona. Setacciare la farina, spazzare il chiostro, strigliare e insaponare l'impiantito di pietra. Pulire la verdura che uno dei due frati preposti alla questua ha trovato per loro, affettarla e immagazzinarla in apposite scaffalature. Tirare su l'acqua dal pozzo. Occuparsi delle malate del convento e dei malati che si rivolgono a loro in cerca di aiuto. Tagliuzzare garze, bende, applicare impiastri, infusi, ricorrere ai medicamenti della natura, tra erbe e intrugli.
Seguono le preghiere della Terza e poi della Sesta e della Nona, dopo una breve cena con verdura e pane, se così vuole la bontà del Signore, o un poco di formaggio e delle zuppa, spesso annacquata. Quindi Vespri e Compieta, recitata all'incirca alle sette di sera. Dopodiché tutte a dormire, giacché è prevista la sveglia alle due di notte, per scendere nella chiesa fredda e buia a piedi nudi e recitare il Mattutino.
Conclusa la funzione, alle monache è concesso di rimettersi a letto, ma solo per tre ore, finite le quali devono alzarsi di nuovo per affrontare una giornata di digiuni e litanie e mestieri domestici.
La sofferenza è una gramigna infestante qualsiasi luogo, non solo gli assembramenti rovinosi dei lebbrosi. Quanto avrebbe voluto capirlo i primi tempi Chiara, quando, eccitata come una bambina, agognava di offrire il suo collo al ceppo del boia infedele per irrorare con il suo sangue martiriale le aiuole della Chiesa!
Il Signore, nella sua onniscienza oculata, sa quando far realizzare a un'anima un determinato concetto. Nei suoi tempi tutto matura. Chiara si affida al calcolo previdente di Dio, soprattutto sull'indipendenza femminile.
Avverrà quando lui lo riterrà opportuno.
Sta calando il secchio nel pozzo, la puleggia cigolante, quando avverte un avvicendarsi di passi nelle vicinanze. Sorella Cecilia, in uno svolazzo arioso di vesti e cingolo, corre verso di lei, sorridendo radiosa.
«Chiara! Chiara! Francesco è qui!»
Molla la catena in un battibaleno fulmineo, ringraziando la consorella e catapultandosi trafelata in direzione del parlatorio. Francesco! Il cuore di Chiara è un tumulto euforico. Francesco è venuto in visita!
Aspetta. Arresta un attimo la corsa sfrenata, in preda ai ragionamenti.
Il parlatorio? Deve davvero adeguarsi alle disposizioni di Ugolino ora che lui non è qui? Francesco la riprenderebbe? Non c'è nulla che Chiara tenga in così alta considerazione come il voto d'obbedienza a lui.
Ma Francesco, il suo viso sempre più stravolto...
Sorride malandrina. Gli farà una sorpresa, un agguato con abbraccio sì, nel parlatorio, ma non con una grata a frapporsi tra di loro.
Imbocca una scorciatoia, emergendo nell'uliveto. Scansa le galline razzolanti, scorge Sora Gattuccia poltrire appallottolata tra le radici ingarbugliate e svolta l'angolo per l'ingresso frontale a San Damiano. Di soppiatto s'introduce nello stanzone del parlatorio e...
«Francesco!»
Si fionda su di lui in un abbraccio da dietro. L'altro trasecola, pallido, salvo poi ridere di gusto all'appurare la sua identità. Braccia familiari la circondano, la sollevano addirittura da terra in un buffo gioco, come un padre con la propria figlioletta o un fratellone con la sorellina. Chiara s'inebria del suo odore di campi, mercati, del suo odore di mondo e peripezie. Presto soppiantato però da un altro.
Sudore? Francesco emana calore. Ha delle braci crepitanti sotto l'epidermide per caso? Si scioglie dall'abbraccio perplessa.
«Sorella mia.» esordisce lui. «Ti trovo bella gagliarda.»
Il suo sguardo la fa trasalire. Il glaucoma dev'essersi aggravato dalla sua ultima capatina a San Damiano. Prima... prima il suo pallone esangue era punteggiato da macchie di rosso intorno agli occhi, dove i capillari si sono rotti a causa della mancanza di sonno. Proprio quegli occhi, solitamente pieni di vita e brio, li aveva visti arrossati, con le sclere intrise di un rosa tenue che si scuriva ai bordi. Le borse le erano sembrate gonfie, creando delle ombre sul viso, incavate con le occhiaie, come se il peso della stanchezza accumulata fosse diventato fisicamente visibile.
Oggi - santi numi - oggi deve persuaderlo a ritagliarsi una pausa, a riposare quanto meno! Esile, smunto, oh, quanto gli si sono assottigliate le dita! Magro più d'un fuscello. Arrossate e iniettate di sangue, le sclere appaiono ormai di un rosso acceso, quasi allarmante, con piccole vene pulsanti che si diramano a raggiera. Le borse sotto gli occhi, prima solamente gonfie, ora sono diventate quasi violacee, pesanti e scure, come se il sonno mancato abbia segnato dei lividi profondi sul volto di Francesco. Le palpebre sono così gonfie e appesantite che si aprono solo a metà, conferendo al suo sguardo un'aria perennemente stanca e confusa.
Il tormento del glaucoma presto gli offuscherà la vista, irritandola con lacrime non di pianto, ma d'infezione. Francesco rischia di rimanere cieco.
«Ti reggi in piedi?» gli domanda angosciata, accarezzandogli la guancia. Lo zigomo sporgente le punge il palmo. Il colorito, un rosso sanguinoso, delle labbra di Francesco, stride con il resto del suo incarnato.
Lui, in quel lieve gesto, si perde, come un gatto nel pieno delle fusa.
«La grata...» ansima, socchiudendo gli occhi. «Non dovresti... Chiara... la grata...»
«Ugolino non è presente al momento per schiamazzare a riguardo.»
«Ma-»
«Vieni.» lo invoglia, intrecciando le dita con le sue, sospingendolo verso l'ingresso con dolcezza. «Fermati a pranzo con noi. La Regola è consegnata. È tutto finito.»
Francesco scuote il capo, risoluto, un varco nell'ottundimento della febbre.
«Lo scrutinio e... l'approvazione... avverranno questo novembre.»
Novembre? La burocrazia vaticana lascia a desiderare! Accantonando questi pensieri, prende Francesco per mano, guidandolo nel refettorio.
Think I forgot how to be happy
Something I'm not, but something I can be
Tra poco le consorelle apparecchieranno. Avvisa Benvenuta di aggiungere un posto a tavola per il loro illustre ospite. Fa accomodare Francesco sulle tarlate e scricchiolanti panche di legno, rovesciando dell'acqua in un catino. A tavola - e a letto - si sta coi piedi puliti. Non transige su questo punto. L'acqua è faticosa da prelevare al pozzo, facendo forza sulla catena. Pure razionata. Se Ugolino sospendesse la clausura potrebbero procurarsela liberamente senza dover contare sui frati.
Chiara si assume l'onere, quotidiano, di lavare lei i piedi lerci delle consorelle, le serviziali, addette ai contatti con l'esterno, prime tra tutte. Una volta, il suo cuore palpitante d'amore per i poveri, non ha resistito all'impulso di bere l'acqua sporca della lavanda, ingerendola e vincendo la repulsione, la gola contratta, i conati di rigetto, le consorelle esterrefatte. Voleva assimilare quanto più possibile i patimenti dei paria che, ogni giorno, ingollano bevande estremamente più disgustose e immonde di un semplice catino d'acqua opaca dal luridume e dalla polvere.
Erano le sue prime, inesperte, esperienze al rango di badessa, a cui doveva ancora adattarsi. Rammenta che avesse sviluppato l'abitudine di flagellarsi ogni venerdì alle ore tre per commemorare la Passione. Francesco ha posto un freno deciso a certi suoi atteggiamenti estremi. Fratello Corpo è il nostro strumento su questa terra, le aveva detto, dissuadendola con tenerezza, attraverso di lui il bagliore raggiante di Dio si diffonde ai nostri fratelli. Se lo maltrattiamo come lo porteremo nel mondo?
Surreale come poi, lui stesso, massacri Fratello Corpo.
Nei periodi di siccità, quando il pozzo è prosciugato, le consorelle, specie le più anziane, si strofinano i piedi con uno straccio e si ficcano tra le coltri. Fortunatamente il Signore sta accordando loro ingenti riserve d'acqua ultimamente.
I piedi di Francesco sono malconci. No, malconci rappresenta un eufemismo. Sono disastrati. Calli scoppiati e induriti sotto le dita, incrostati di fango, che si disintegra in scaglie appena Chiara massaggia la pianta con acqua, ferite aperte e sanguinanti, spine e contusioni del sentiero butterato di insidie e pietruzze. Insettini. Lui geme straziato quando gli viene rimosso uno spino acuminato dal tallone.
«Sono contenti adesso i polemici di possedere una Regola definitiva?» gli domanda, spalmandosi un balsamo per i calli sui palmi e frizionando energicamente il piede dell'amico. Spuma scoppietta, frizzantina. Silenzio. «Francesco?»
Ingobbito su se stesso, occhi cerchiati, Francesco sembra faticare a seguire il discorso, le palpebre che si abbassano involontariamente. Pian piano incurva la testa verso il petto, appisolandosi. Chiara non fa in tempo a sfiorarlo che lui si risveglia di colpo, con uno scatto, disorientato e arrossito.
«S-Sì...» balbetta, cercando di riacquistare compostezza, raddrizzandosi malamente. «L-Lo sono... sì...»
Mentire non si elenca tra i suoi talenti.
Francesco ritira il piede, soddisfatto e ringraziandola del trattamento. Ha lenito molti suoi dolori, afferma, le spine lo stavano tormentando. Celando uno sbadiglio, si osserva intorno, tentando di dimostrarle d'essere ancora vigile e in forma.
«Quanto manca al pranzo mia pianticella?» la butta lì come battuta per mascherare la tensione e dirottare le sue ansie. «Fratello Stomaco brontola!»
Chiara si acciglia. Lo conosce troppo bene. Non ammetterà mai d'essere esausto.
Ma, mentre pasteggiano a tavola, Chiara nota come gli occhi di Francesco si chiudano ogni tanto, come se il sonno lo stia sopraffacendo. Lui cerca di restare vigile, ma le forze lo stanno progressivamente tradendo. La sua mano, tenente il cucchiaio, trema leggermente, e la minestra di ceci - Chiara ha insistito con Benvenuta affinché a Francesco fosse versata una doppia razione - rimane intatta nella ciotola a raffreddarsi, gli effluvi che si dissipano in volute.
Chiara lo osserva in silenzio, il cuore colmo di affetto e preoccupazione.
È evidente che il suo corpo non riesce più a sostenerlo, gravato dagli affanni e dalle malattie. A un certo punto, proprio mentre si sta portando il cucchiaio alla bocca, un movimento goffo e lento, Francesco si blocca. Gli occhi si chiudono lentamente, il cucchiaio scivola con un tintinnio, le spalle s'incurvano e la testa comincia a inclinarsi in avanti, crollando verso la ciotola di minestra. Con un riflesso rapido, Chiara allunga la mano e artiglia la spalla di Francesco, fermandolo prima che la testa piombi nel piatto e sventando un brusco impatto e un altrettanto brusco risveglio.
«Francesco, ti prego.» mormora con voce ferma, ma dolce. «È ora di riposare.»
Francesco, in un momento di rara debolezza, non protesta. Apre gli occhi a fatica in due fessure infiammate e annuisce leggermente, biascicando insensatezze e mugugni indistinti, troppo esausto per opporre resistenza. S'appoggia a lei. Chiara lo aiuta ad alzarsi, sostenendolo mentre lo conduce, barcollante, verso una stanza appartata dove possa riposare. L'infemeria le pare adeguata.
Arrancano, praticamente lo trascina. Il corpo di Francesco diventa sempre più pesante.
«Chiara n-no...»
«Sssh... va tutto bene.»
Lo depone sul primo giaciglio disponibile, aggiustandogli le coperte, strizzando un panno umido e tamponandogli la fronte sudata.
«Dormi Francesco, dormi.»
I disordini intestini l'hanno spompato. Oh Francesco. Il suo sorriso è stato soppiantato da un broncio mesto, illuminato solo da pochi eletti. La sua proverbiale allegria spodestata da dubbi interiori, dilanianti l'anima e la salute.
Chiara opta per preparargli una poltiglia alla menta da stendere sulla fronte, refrigerante la sua pelle accaldata. Nel frattempo gli solleva il mento, facendolo bere a piccoli sorsi da un orciolo di terraglia lucido di condensa. Bravo, coraggio.
Fa male. Signore, se fa male vederlo ridotto così. Lacrime pizzicano, minacciano di rompere gli argini. Fa malissimo dover assistere al suo deterioramento costante. Ogni visita allontana Francesco da lei, dall'Ordine. Dalla vita. Si raggomitola accanto al suo giaciglio, la ginocchia premute contro il torace, a supporto della mandibola, pensando a suo padre. È spirato dopo la sua fuga scandalosa in convento.
Non era lì, accampata al suo capezzale, per incrociare un'ultima volta la fioca scintilla di vita nel suo sguardo morente.
Sua madre sì. Beatrice sì.
È questa sensazione di malinconia e impotenza che si prova?
Sta perdendo Francesco.
Chiara deglutisce e si china su Francesco, che si agita nel sonno, la fronte imperlata e solcata da rughe di sofferenza. Imbeve la pezzuola, allargandola sul suo viso.
Un tocco premuroso alla volta. Un passo alla volta. Avanti. Sempre e comunque. Intrepidi e combattivi, ascoltando Dio e il tuo cuore.
Tempo al tempo.
Per le donne e i loro diritti violati. Ugolino li osteggerà? Pazienza. Se Dio non si rassegna, non sventolerà bandiera bianca neppure lei.
Per Francesco e il suo modello di vita. Si concretizzerà, un giorno.
Chiara deve solo consegnare i rompicapi che l'assillano nelle mani del Signore.
E credere.
I sudati frutti del suo - del loro - lavoro sbocceranno in un tripudio di luce.
Basta crederci.
Something I wait for
Something I'm made for
Something I'm made for
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