Tardi ti ho amato, Bellezza antica e sempre nuova

«È impazzito!»

«Ma diseredatelo!»

«Canaglia! Lestofante!»

«Figlio ingrato!»

Troppo facile che Francesco sia scemo, pensa Angelo con il groppo alla gola e un baluginio di lacrime, sibilando di tradimento tra la ressa dei compaesani che si spintonano e si accalcano, incuriositi, spaesati, schiamazzanti, sostegno a una Maman devastata.

Non torna che sia ammattito.

Non si impazzisce così di colpo.

Quel che certo è che Francesco vuole tagliare i ponti. Li rinnega. Li abbandona. Sputa sull'avvenire disegnato da Papa per lui. Sui sentieri già tracciati del futuro. Compravendita e mercato. Introiti e guadagni. Spese e bottini. I sacrifici di Papa. L'ha fatto per lui, si è spaccato la schiena per lui e adesso Francesco deride tutto questo. Lo ripugna. È fuggito di casa. Evaso dal bugigattolo dove Papa l'aveva incatenato.

Fugge da loro o da se stesso? Angelo vorrebbe saperlo. E se tutto questo vagheggiare di Dio fosse un diversivo per distogliere dalla sua viltà? Dalla sua codardia nel percorso interrotto per il cavalierato? Uno stratagemma per coprire i suoi errori, compensando con la toppa di un risveglio interiore in realtà... falso?

Se Francesco stesse mentendo?

È vizio di suo fratello espandere e montare sceneggiate mirabolanti. Quelle di lauti banchetti e gozzovigli e notti brave di piacere. A Francesco piace farsi ammirare. Ma in positivo, come un modello a cui aspirare, non il mentecatto denigrato dall'intera città, ripudiato dai suoi famigliari, zimbello e onta del casato.

Angelo non lo sa. Gradirebbe sapere. Gradirebbe che Francesco cessasse questa porcheria insensata. Non ha senso. Nessuno. Proprio nessuno. Sta spezzando il cuore a Papa e a Maman, sta destabilizzando il loro nido.

Distruggendolo con il suo egoismo.

Dev'essere egoismo. Per forza. Come altro può chiamare, Angelo, la volontà di convivere coi lebbrosi - gli immondi, putridi lebbrosi dalle ulcere enfiate - senza di loro? Lui e il suo Signore, solo lui e il suo Signore. Conta solo quello ormai! E loro? E Angelo? Ha agito alle loro spalle, Francesco, di nascosto. Li ha allontanati. Si è confidato con la giovane, avvenente Chiara, ma non con loro. Non con lui.

Una conversione incentrata solo su Francesco.

E loro?

Anche Chiara, cogliendo il velo delle sue lacrime - e non si tratta, a differenza di Francesco, di una lente d'ingrandimento sui lividi dell'uomo, ma di vetro smerigliato, che sfoca la verità, distorcendola nel dolore - riflette e pensa. Segue il processo con emozione, coinvolta come mai si è sentita finora.

Assiste a Francesco e crede che l'amico, in qualche maniera astrusa, sfuggevole al raziocinio mortale, stia delineando il suo futuro.

La risposta che cercava, agognata quanto l'aria.

Da dove proviene tutto questo fuoco? Questo fuoco impetuoso, splendente, indomabile, spizzicante il legno della sua fede? Chiara, tra preghiere, elemosine e palpitazioni, accatasta combustibile, su questa pira, ma non sa verso dove direzionare il fuoco. Per chi bruci. Perché.

Perché si senta divorata.

Deve frenarlo? Si può addomesticare? Ma Francesco si sta gettando su questo rogo, si offre alle fiamme con goduria, estasiato, sudato dal rapimento.

Un innamorato.

Suscita questi effetti l'amore?

Chiara si palpa le labbra, una commessura socchiusa, in trepidante adorazione di Francesco, dei suoi gesti, della sua audacia riscrivente per sempre il corso della Storia. Un boato. Questa piazza sarà il cratere. Tutti loro ne resteranno segnati. Chi sconvolto. Chi frastornato. Chi, come lei, custodirà la semente di questa giornata nell'attesa che il momento sia matura per mieterne il raccolto.

Chiara si palpa le labbra, polpastrelli solcanti il bocciolo, e si figura un bacio che non dovrebbe esistere. Che non esisterà mai.

Combattuta tra emozioni contrastanti a cui nemmeno lei sa attribuire un nome preciso. Solo una sciocca infatuazione, una svista di un momento. Ecco. In quest'età di frustrazione, di transiti e coordinate fuori controllo, di forzature e imposizioni e sviluppi, di arti e di concezioni. In quest'età d'indecisioni e dubbi.

Un'età corta, incerta, soppiantata da quella adulta appena un fidanzamento ufficiale vincola la donzella.

Labbra su cui aleggia il fantasma di un bacio mai dato.

Ma presto l'amore di Cristo prevarrà e quel sentimento acerbo sbiadirà nell'oblio.

Un bacio mai dato, ma ardentemente anelato da qualche parte dell'anima che esula dall'umano controllo.

(Forse, in misura minore, e Chiara neanche se ne rende conto appieno, anche un rimpianto.)

Non si è mai avvertita così attratta e respinta a un tempo. Un tempo ancora immaturo. Un giorno la favilla che sonnecchia in una nicchia della sua anima si rianimerà, un giorno.

È ancora presto.

La sua carità è il risultato dell'educazione che l'è stata impartita, solide fondamenta di devozione e spiritualità respirata fin da quando la memoria l'assecondi. Un'istruzione signorile, convenevole al suo lignaggio, inzuppata di cristianesimo, come dovrebbe essere in tutte le dimore d'illustri natali.

È superficiale? Cosa la distingue da Francesco? Dal suo indomito coraggio?

Francesco che le pare come la corda di un arco, slanciata, in irrigidita tensione, quasi se, da un momento all'altro, potesse catapultarsi nel cielo. Un cielo che ha tentato di arraffare, affamato, in cima sul tetto di casa, a profilarsi, stagliato, come una sentinella contro l'azzurro, il giorno del suo risveglio dalla malattia, la camicia da notte biancheggiante quanto il sudario di un redivivo. Gliel'hanno riportato. Tentava di acciuffare un uccellino. Un cielo di zaffiro e cobalto, un cielo di nuvole e sole, un cielo palcoscenico di un protagonista della buona novella, ormai non più nascosto dietro le quinte della sua anima, ma attore principale della sua storia in quell'alba di Assisi. Mentre tutti gli altri, la popolazione di Assisi, ora, qui, la folla mordace, drogata di pettegolezzi, è un prato di corde d'archi sempre verticali e mai spinte all'indietro, tese per il lancio della freccia.

Ritte, immobili, statiche.

Una pantomima.

Il circo delle convenienze.

Gugli e rosoni gareggiano, spiccanti il volo verso l'Alto, sulla facciata del duomo d'Assisi. In traiettorie circoscritte in limiti di ragionevoli calcoli. In un'architettura che si tramuta in poesia, in un gioco d'arte. Gargolle sul ciglio di fregi e leoni marmoreii che sorreggono colonnati. Una trama di pizzi di pietra e calce, un'ascesa verticale, trascendentale, al cosmo. Elaborato ricamo di marmi che si eleva verso le stelle. Il rosone, fiorente di luce, cerchio che, come linea infinita, senza inizio e senza fine, è simbolo di Dio, e, con la ruota che richiama, simbolo di eternità. Esso è il centro della storia della salvezza, epicentro del fluire del tempo degli uomini, che s'irradia, sprigionato in cascate di luce, dal Fattore Primo, l'artefice, l'autore della Storia più strabiliante. Una Storia che non soccombe al predominio dei secoli o alla profana presunzione di poter deviare il corso del destino.

Il fato, soggetto all'influsso degli astri, sentenziano filosofi e dotti.

I cieli, i firmamenti, cerchi concentrici che vorticano e il loro movimento si propaga, si dirama, espandendosi, vibrando in una musica soave nell'universo. I cieli, le cui rotazioni influenzano gli umori dei mortali, diademi di fuoco sul capo di Dio.

Dio, sovrano dell'Empireo.

Dio, sovrano di tutto.

Dio, esigente d'amore.

Dio, ladro dell'anima di Francesco.

Francesco, indecifrabile enigma, imputato al centro di questa piazza.

Cos'è quel benessere sovrannaturale che illumina il suo volto? Il ragazzo sembra un ebete. Ridicolo. Che lo castighino a dovere! Troppo malleabile Madonna Pica con quel suo figliolo, troppo buona. Che errore madornale concedergli ogni suo capriccio. Pietro di Bernardone se ne pentirà adesso, ammirando lo scempio di figlio...

«Inaccettabile...»

«Da depravato a screanzato il tragitto è breve.»

«Se non fiata significa che ha compreso la gravità delle sue azioni!»

Si dimostrano solidali gli assisani nei confronti del mercante vituperato. Questa è un'offesa e va ripagata! Ma Francesco? Che gli prende a quel ragazzo?

Anestetizzato verso tutto ciò che si attacca alla terra e alla sua polvere, preferisce sostare in ginocchio, a capo chino. Ascolta, ma non partecipa, per ora, imbambolato intanto che il vescovo esprime il suo giudizio.

Meglio l'irrazionalità di Dio che ciò che all'uomo sembra corretto, utile.

Meglio il silenzio fragoroso di pensieri.

Meglio Dio.

L'idillio di Dio...

L'ha scorto, Francesco, Dio, attraverso la lente delle lacrime. Una salata, pizzicante patina di lacrime. Negli inferi dei lebbrosari, Chiara sua banderuola. Nei mefitici antri dove, tra nembi di vapori e matasse e bandoli di fibre intrise di colore e appese ad asciugare, si è imbattuto nei lavoranti di Papa. Sottoposti a suo padre come schiavi. Sfruttati. Espropriati della loro dignità. Orbite incavate e occhiaie fosche, mani consunte dall'immersione, dalle tinte tossiche. Visi stravolti, una sequela di donne che sbrogliavano i grovigli, macchinanti agli ingombranti telai. Altre mondanti dai nodi, epuranti dai difetti. Francesco, trascinandosi, mentre l'aria diventava irrespirabile, ammorbata dalle esalazioni delle vasche sprizzanti schiuma, vagando senza meta tra il dolore - come ha potuto non accorgersene prima? Era così cieco? - si è addentrato, tra bambini impauriti da quella presenza sconosciuta che correvano a rintanarsi tra le sottane delle madri, neonati frignanti e uomini perplessi.

Si è addentrato, incespicando, e i panni imbevuti di tintura lo lambivano, sporcandolo con sbavature di colore, con carmini e ocra e verdi e acquamarina. Albergava la sofferenza, negli scantinati di casa sua, la sofferenza.

Identica a quella patita dai lebbrosi. Dagli storpi. Dai paria.

Scartati dalla società.

Perché?

Lì sotto... nei tuguri fatiscenti, in quelle fogne nauseabonde, tra il tanfo di piscio e malattia, in quelle discariche degli uomini... lì sotto...

... ha incontrato Dio.

L'ha rivisto, specchiandosi, negli occhi attenti e svegli del crocifisso di San Damiano.

Ha toccato quelle ferite, cicatrici simili alle sue, si è avventato su un vecchio rachitico sciacquante i panni in un vascone, artigliandogli le mani nodose, sformate dalle rughe, le ha accarezzate. Le ha baciate.

Non c'è stato in quel giorno un mercimonio, uno scambio tra due offerenti, come era abituato a fare Francesco nella bottega del padre, ma è avvenuto, invece, un matrimonio tra la sua anima e l'amato Signore, presente nelle mani dei poveri schiavi della sua casa. Annullata ogni distanza tra il povero e il ricco, Francesco sente ormai lecito il passo di consegnarsi inerme all'uguaglianza dei cuori, non figlia di un'uguaglianza di livellamento sterile e apatica, ma una uguaglianza che nasce proprio dalle diversità, diversità però non più ostacolo alla comunione, ma ponte e occasione felice di trasparente amicizia.

Francesco e quei poveri erano diversi, ma questo non ha impedito ai cuori di riconoscersi in un legame di fraternità profondo e spirituale, perché l'uguaglianza dei cuori, che sa mantenere e apprezzare le diversità, abbatte ogni muro di protezione e instaura legami. Legami d'amore. Nodi sancenti la libertà.

Ha avvertito, nei recessi del cuore - prorompente, un'esplosione di luce che erompeva, scardinando una porta fino ad allora serrata - compassione per quei poveri. Niente affatto una compassione sterile e piagnucolosa. Un compatire che incomincia a diventare condivisione di quella vita - struggimento per il sogno di viverla, di calarsi in quelle fattezze -  e non per gusto masochistico della povertà, ma per convinzione profonda che nel povero si trova Cristo due volte.

Essendo il povero abbandonato alla Provvidenza, diventa trasparente specchio del Dio da cui si fa accompagnare docilmente.

Il pastore che conduce i greggi a pascoli sicuri.

Ha sperimentato sulla sua pelle che le ombre non sono meno importanti della luce.

No. Non lo sono.

La notte è il grembo della luna.

Infatti quello che agli occhi del mondo è segno di oscurità e obbrobrio, agli occhi convertiti dalle lacrime diventa notte necessaria per vedere irrompere un'alba nuova, che anticipa la luce.

Donarsi è l'unico guadagno.

Senza mezze misure.

Senza patteggiamenti.

Donarsi completamente.

Una rivoluzione del cuore, che non è più al centro di se stesso, ma pulsa e ruota intorno agli altri, un ribaltamento delle orbite. Il contagio imperante della libertà, una libertà dilagante come il vento soffiante d'autunno, cioè non più rinchiusa nei limiti dell'io, ma aperta alle vaste praterie del tu che interpella e chiama. Assisi è divenuta per Francesco troppo piccola per la sua idea, per i suoi nuovi sentimenti. Immagina passeggiate con i poveri oltre le mura della città. Desidera, dentro un cammino che diventi esodo verso una nuova terra promessa, un percorso di santità accessibile al suo cuore inquieto e desideroso di raggiungere vette alte e cime sempre più lontane.

Francesco si sveste e nudo riemerge al mondo, boccheggia, rinato. Gli abiti intessuti, marchiati, con gli emblemi paterni una placenta di cui ha squarciato la membrana. Non è un diniego alla famiglia, uno schiaffo, ma sta sbocciando a Dio, risalendo in superficie. Sorride. Sorride come un dissennato. Francesco ha imparato a sorridere sempre, nei momenti di gioia e nei momenti di sofferenza, consapevole che la gioia e il sorriso sono la calamita piu potente per attirare gli uomini a Dio.

(Un giorno dovrà sbrigarsela con Frate Tristino, un frate cupo e tragico, nefastissimo, ossessionato dall'inferno, perseguitato dalla sua tetra prospettiva e che invoca la collera di Dio sui peccatori. Un disperato che finirà per arruolarsi in una banda di ladroni. Francesco non se ne meraviglierà. Come può amare Dio, chi non sorride?)

Gli amici restano di stucco, spiazzati. Ma che gli prende al loro Francesco? Il capobanda delle brigate, re della baldoria, principe delle galanterie provenzali? È fuori di sé! Gli passerà! Facile a parole, ma dopo alcuni giorni tornerà quatto quatto a casa, vedrete. Così finirà questa burla.

Sbagliano. Analisi errata quanto sprovveduta.

Sarebbe stata giusta per il Francesco che loro avevano conosciuto. Adesso s'innalza, restituendo i beni al padre, un nuovo Francesco, un risorto che era morto. Tanto in lui c'è ancora di quello che era: la sua sensibilità, la sua acutezza, la sua bontà. Ma, adesso, la cosa essenziale del suo essere, il suo cuore, è totalmente riformato. Non ha fatto quel che ha fatto perché uscito da una terribile depressione, e, adocchiato uno spiraglio di luce, s'è aggrappato a questo, proponendolo come un'esperienza mistica del divino.

No!

Ha il cervello inibito, avvolto da una membrana di luce. Dio l'ha catturato. Un ratto, un respiro. Piccolo così. È nelle piccolezze che si costruisce, svelata, la grandezza di Dio.

Il paradosso dell'amore.

Senza amore tutto è spazzatura, buio, scolorito. La pensa uguale a lui chi brama di rinchiudere la Parola di Cristo tra i rigori della dottrina, del latino, incomprensibili alle masse analfabete?

Dio che ha iniettato in lui il massimo di materiale celeste che un uomo in terra possa contenere. Amante di una croce che qualche tempo prima lo aveva impaurito e adesso assurta a lui a legno che lo sostiene, letto sul quale si addormenta sereno e talamo sul quale consumare la passione d'amore che lo stava rodendo dentro.

Si è svelata adesso, quella passione, nell'indignazione della città.

Si grida allo scandalo, all'indecenza, all'oltraggio ai costumi e all'immoralità.

Francesco si consegna nudo tra le fauci del mondo.

E la piazza di Assisi è quest'oggi il centro del mondo - tra tutte le galassie contenute nel pugno di Dio e tutti i cieli governati dalle intelligenze angeliche, proprio in questa nocciolina d'astro, proprio in questo trancio di terra, proprio in questo paesino sperduto - il punto di fuga che dipingerà prospettive nuove, rigogliose, irriverenti di santità per secoli, l'ombelico di una ventata di rinnovamento.

Francesco stupisce tutti.

Non tollera più la mediocrità.

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