Lo Stupore del Mondo

Un incontro di fantasia, forse avvenuto veramente o forse no, fa da sfondo a una pacifica crociata reale...



Lo Stupore del Mondo in realtà è il mondo stesso.

Quell'omino di Assisi l'aveva capito molto prima di me, comprendo ora.

Mi hanno ribattezzato lo Stupor Mundi. Mi hanno calunniato, diffamato come Anticristo, bestia del demonio, eretico. Ricercare conoscenza sfocia forse nell'eresia? La conoscenza non dovrebbe avere confini o subire influenze religiose. La fede può rivelarsi una strada per seguire una conoscenza, approvo. Ma che una soffochi l'altra? La curiosità non è forse un dono di Dio? Lui, nella sua benevolenza, ci ha donato occhi per scrutare i cieli e indagare i moti degli astri e le danze dei pianeti, per decodificare le stelle e sondare il futuro nei criptici segnali delle comete.

Lui, Dio sommo e magnifico, è stato e continua a essere così magniloquente nella sua volubile, variopinta, sublime opera! È un orafo di luci e bagliori. Un gioiellere di acque roboanti. Il suo linguaggio, scandito ai primordi, si dirama in un fitto garbuglio di lingue, rimbalzando di bocca in bocca, scoccando di lingua in lingua come una freccia scagliata dall'arco, dal primo motore. L'Arciere maestro. Quanti esperimenti si potrebbero sovvenzionare intorno all'enigma della favella? Ci pensate?

Quale linfa guizza nelle nostre vene? Cosa ci anima? Dove risiede l'anima? È palpabile? È sensibile? Ribolle oppure sgocciola? È trasparente o assume il colore dell'umore dominante nel corpo al momento del decesso? Immaginate se provassimo a disezionare un corpo, a profanarlo, dissacrando la sua cassa toracica e frugando tra i muscoli e i nervi e la bile e il muco viscido alla ricerca dell'anima!

Troppo avventato vero?

Lo so, la loquacità si accanisce su di me quando devo dialogare di argomenti che ritengo cari. I miei tutori si spazientivano. Avevo difficoltà ad abbandonare un tema ai miei occhi intrigante e li tartassavo più di quanto sapessero rispondere. Perdonate le mie sbavature. Sono umano, benché la corona mi innalzi un gradino in più del comune mortale, a un contatto ravvicinato - e privilegiato - con il Dio reggitore dell'orbe che tanto alacremente cerco nei miei manoscritti. Reperti cristiani, di biblioteche arabe, giudee, in greco, in latino, in una masnada di idiomi!

Vi stupirà apprendere, per esempio, delle proprietà delle pietre preziose. Terapeutiche. Taumaturgiche. Magiche. Proprietà infuse dagli elementi, ispirate dalle intemperie, innescate da particolari eventi. Lo zaffiro viene cucito sulle giubbe dei crociati che viaggiano verso la Terra Santa per combattere per la Croce, il cristallo di rocca dona a chi lo porta un po' della forza della montagna, il...

Sono senza freni, me ne rincresce.

È che Dio imprime la sua impronta su tutte le cose.

Le pietre preziose hanno origine in Oriente, dove il sole brucia molto forte. Le montagne in quelle zone sono bollenti e asciutte come il fuoco, incuneate al suolo, spaccate, friabili. I fiumi sono caldissimi, ustionanti, e di tanto in tanto straripano, salendo fino alle montagne, le quali emettono una specie di schiuma quando l'acqua copre i loro fianchi, travolgendole con ondate potenti. È come quando l'acqua colpisce il ferro rovente e frigge e schizza. La schiuma è come una colla che si rapprende e si trasforma in pietre preziose che poi cadono come scaglie nella sabbia. Quando il fiume sale di nuovo, porta con sé le gemme e le lascia in diversi luoghi dove gli uomini alfine le trovano e ne gioiscono.

Che c'entra questo con il piccolo predicatore umbro? Niente, lo ammetto. Mi lascio trascinare, rapire dalle novità. Mi sento un eterno allievo, quando dibatto con i miei sapienti forestieri, chiamati al focolaio di erudizione della mia corte siciliana, nei saloni sotto cupole a cipolla laminate d'oro e glifi arabeggianti e ornamenti d'eco orientale, relique della gloriosa era degli Altavilla, miei avi materni.

Enrico IV mi fu padre, Costanza d'Altavilla madre. Una madre anziana, secondo la media dell'epoca. Quarant'anni e una vita snobbante gli agi principeschi per la pace e la quiete del chiostro. Ma, con la famiglia decimata da infausti eventi, Costanza rimaneva l'ultima esponente del casato degli Altavilla, che aveva regnato sulla Sicilia, abbellendola di tesori quali la Cappella Palatina di Palermo. Mio padre, figlio del Barbarossa, da lui affiancato al potere, la sposò.

Il Papa annullò i voti di Costanza e il sangue degli Altavilla confluì nell'alveo dei teutonici Hohenstaufen, convalidando la loro pretesa al soglio imperiale e soprattutto rafforzando la loro morsa sul Meridione italiano.

Da quell'unione improbabile, stando ai canoni di allora, nacqui io.

Sbaragliando le carte in tavola fin da subito.

Leggenda narra che mia madre, colta dalle doglie, al fine di confutare una volta per tutte infamie sul mio concepimento, così da dimostrare, alla presenza di testimoni, la mia legittimità, volle che fosse montata una tenda nella piazza di Jesi e lì, allestito un baldacchino e convocato il popolo, fugò ogni dubbio, facendomi vedere la luce il giorno di Santo Stefano del millecentonovantaquattresimo anno dopo Cristo.

Assisi, la patria di quel fraticello, mi vide battezzato. Affidato alle cure della duchessa di Urslingen, moglie di quel Corrado, mosca al cervello, che fu Duca di Spoleto e amministrò l'ampio feudo dall'alto della Rocca Maggiore di Assisi, Spoleto vide i miei primi anni. Chissà, magari in chiesa, alla cerimonia, nel duomo di San Rufino, assisteva anche lui, all'epoca poco più che un ragazzino. E, se posso spingermi oltre, pure la piccola Chiara della famiglia Scifi, una lattante...

Mia madre partì immediatamente alla volta della Sicilia per riprendere possesso del regno di famiglia, poco prima riconquistato dal marito. In presenza di mio padre, l'imperatore Enrico, lì, tra le mura del duomo di Assisi, il mio nome - giacché al principio Costanza mi aveva appellato con il patronimico di Costantino - si distinse, precisato e definito in quello, "in auspicium cumulande probitatis", di Federico Ruggero. Federico per indicarmi come futura guida dei principi germanici quale nipote del leggendario, immortale Barbarossa, il cui mito è ancora oggi lungi dal tramontare. Ruggero per sottolineare la legittima pretesa alla corona del reame siculo quale nipote, in linea materna, anche di Ruggero II di Sicilia.

Quella fu la seconda e ultima occasione in cui vidi mio padre.

Mia madre morì poco dopo.

Il formidabile Innocenzo III s'impegnò a essermi tutore. Ah, i Papi! Strana genia. Mi hanno ficcato non pochi grattacapi in testa, ma lasciamo correre.

Non sono qui per impicciarmi delle loro storielle, non totalmente.

La mia infanzia, travagliata da rivali e pretendenti e reggenti infingardi, mi rese, tuttavia, un uomo poliedrico, sfaccettato, ambivalente, i cui interessi spaziavano dal corpo umano alle scienze celesti, dalla botanica, alla falconeria. Imbattuta, perfetta arte quella della caccia al falcone! N'ero talmente appassionato che vi dedicai un manuale, consacrando parte del mio tempo alla scrittura di questo trattato.

De arte venandi cum avibus.

La coltivai sempre, con affetto, tutta la vita, questa venerabile pratica.

Veniamo all'incontro fatidico, vi va?

Avevo udito di quest'uomo in odor di santità. Questo prodigioso autore di miracoli, Francesco d'Assisi, che aveva addirittura avuto l'audacia di intavolare un dialogo con il Sultano. Incredibile. Ne ascoltavo ammirato, di questo fondatore d'Ordini a zonzo per il mondo, disdegnante il lusso per vivere come un mendicante.

Quando seppi che era sbarcato in Italia, ritornato dal pellegrinaggio in Terra Santa, pretesi immediatamente che fosse condotto al mio cospetto.

All'epoca, la perla della mia cultura, Castel del Monte non era ancora sorto. Ma sì, lo so che il nome ha stuzzicato qualcosa in voi. Castel del Monte, suvvia! Il fortilizio ottagonale! L'ottagono irregolare su cui è basata la pianta del complesso e dei suoi elementi è una forma geometrica simbolica. Non mi reputo il tipo da consegnare i lavori a caso ai miei architetti. Si tratta della figura intermedia tra il quadrato, simbolo della terra, e il cerchio, che rappresenta l'infinità del cielo. Segna il passaggio dell'uno all'altro, una fusione geometrica, un'elaborata, raffinata congiunzione.

Fibonacci e la sua strabiliante Sezione Aurea non vi suggeriscono nulla? Diciamo che il progetto strizzava l'occhio a parecchie teorie suggestive, per il mio tempo.

Invitai quindi Francesco in uno dei miei tanti manieri sparsi nelle Puglie. Credo che non rimase colpito dai miei gusti tendenti all'orientale, al filosofico. Dai miei arredi di manifattura araba, dalle mie cortine di seta e dallo stuolo di donne in impalpabili, seducenti veli, che soddisfava ogni mio desiderio, giorno e notte a dipendere dalle mie grazie, a esaudire anche il più banale capriccio.

Ero l'imperatore, una personalità eclettica e dinamica, il signore del mondo, erede dei fasti svaniti di Roma. Potevo tutto e anche di più.

Eppure, l'appariscente manifestazione della mia piena e formale autorità non suscitò nulla di quanto mi aspettassi in Francesco. Osservò tutto in silenzio, inespressivo, accompagnato da un suo frate. Rifiutò garbatamente di accomodarsi sui miei soffici cuscini imbottiti - era mia consuetudine far sedere gli ospiti alla maniera saracena, da me reputata più idonea a consentire il riposo di gambe stanche e affaticate - e, addirittura, preferì ritagliarsi un angolino, in ginocchio, nella sezione del pavimento meno decorata da intarsi policromi e mosaici. Declinò l'invito a un appartamento lussuoso nella mia ricca successione di stanze e ambienti. Accettò acqua invece che vino, un tozzo di pane invece che delle prelibatezze speziate dalle mie cucine.

Ammetto che anche la sua apparenza mi deluse. Piccolo di statura, mingherlino, una chioma corvina e spettinata dal viaggio, piedi infanganti le mie piastrelle marmoree, sozzi e callosi. Occhi grigi fiammeggianti di vitalità nel viso incavato. Barba rada. Saio largo, rattoppato, deturpato dalla lordura della strada. Incarnato pallido, malaticcio, conservante le tracce del sole spietato d'Oriente in certi punti leggermente abbronzati. Un aspetto, nel complesso, vile, spregevole, meschino.

Volgare e patetico.

Era questo misero omuncolo, così gracile che un soffio di vento avrebbe potuto scaraventarlo al suolo, l'individuo che stregava masse e appiccava roghi nei cuori?

Questo era Francesco d'Assisi, qui, al mio cospetto, uno dei grandi attori della scena mondiale?

Ricevuto da me nella sala del trono, scandagliai quel suo volto magro, analizzandone i suoi piccoli dettagli coi miei brillanti occhi azzurri nel tentativo, presto naufragato, di carpire il suo segreto. Doveva essercene uno! Mi sporsi sullo scranno, artigliando i braccioli. Mi sentivo coinvolto direttamente, come durante una seduta di studio. Con la sola, sostanziale differenza che non stavo visionando un libro o un codice miniato o un trattato sui regolamenti civili e giuridici. Scrupolosamente, sottoponevo all'esame dei miei occhi un uomo circonfuso d'un'aura di santità popolare.

Cercai d'individuarne il carattere, di determinarne il temperamento.

Cosa sono i temperamenti? Volete davvero che mi perda in questo ginepraio? Lo sapete che l'uomo si distingue per quattro temperamenti: collerico, flemmatico, malinconico, sanguigno. Sì, il temperamento di una persona si vede sia nella costituzione fisica sia nell'animo. No, gli animali non hanno gli stessi temperamenti. Sì, il temperamento stabilisce in parte il comportamento della persona. No, chiunque può migliorare in una vita con Dio e... no, mi considero pur dotto, ma non so perché Dio abbia scelto di creare gli uomini così. Lasciavo aperti spiragli di domande, me ne rendo conto. La mia testa ne formulava, di domande, con regolarità spaventosa. Quale temperamento, poniamo caso, sarebbe il più adatto alla vita in monastero? È preferibile che nel matrimonio l'uomo e la donna abbiano lo stesso temperamento, oppure c'è più equilibrio se sono diversi?

Se potessimo imbrigliarne l'energia, canalizzarla con parsimonia per non eccedere in certi comportamenti aberranti o molli... che sogno...

Serrai i palmi sui braccioli, esaminando Francesco, rannicchiato innanzi a me.

«Non ti incuto soggezione o riverenza? Sono il padrone del mondo conosciuto.»

Il mio illustre ospite si lasciò scappare una risatina. Sorpreso, mi accigliai. Osava farsi beffe di me? Non credo. Sfidare la mia autorità non era semplice. Il vilipendio poi... parliamone più tardi e soffermiamoci su questo incontro. Vi turba?

«Voi siete un pellegrino in ricerca della meta.» disse Francesco, sereno.

Quel fulgore nelle sue iridi mi intimorì. Io ero un grande della terra al cospetto d'un grande del cielo. Ciononostante, benché circondato da una fama di operatore di miracoli, segni e portenti, mi trasmetteva pace, quell'omino. Condividevamo il comune interesse per la natura e i suoi arcani, incomprensibili misteri, per lui risolti completamente in Dio, per me nell'acquisizione di sapere, nell'apprendimento, nella diffusione capillare di una cultura uniformatrice, collante nel popolo.

Notai un rigonfiamento nella bisaccia che portava di traverso. «Che hai lì?»

Sciolse i lacci, svelando il corpicino esanime, dal battito lento, d'uno scoiattolo ferito a una zampina, probabilmente vittima di qualche trappola dei bracconieri o dei cacciatori di frodo nei dintorni. Mi si strinse il cuore.

«L'ho trovato agonizzante con una zampa impigliata in un'infernale rete di metallo, ignoro che tipo di trappola fosse o chi l'abbia escogitata.» mi raccontò Francesco, carezzando, teneramente, delicatamente, la coda cespugliosa dell'esserino, emergente dalla borsa. I miei cacciatori n'erano certi artefici. La consapevolezza mi impietrì. Deglutii la vergogna. «Posso curarlo o farlo visitare sire?»

Glielo accordai.

Ma, più che tutto, mi attraeva una pagina della vita di Francesco, allora fresca di scrittura: aveva mediato con il Sultano al fine di arrivare a un epilogo pacifico, a una soluzione preservata da barbarici spargimenti di sangue, per la guerra in corso in Terra Santa, tra crociati e Saracini. La diplomazia d'un frate armato solo della sua fede era trionfata laddove innumerevoli delegazioni avevano gettato la spugna.

Stupefacente. Ammirabile. Da commemorare negli annali a parere mio!

Passeggiando nei giardini, tra alberi di limone e arance succose, tra le architetture miscelanti un po' l'Oriente, un po' l'Occidente, lo scoiattolino guarito, sebbene lievemente zoppicante, riempii Francesco di domande di questo genere.

«Com'era il Sultano? Con che tipo di uomo hai avuto a che fare?»

«Era un uomo onesto, leale, retto, fiducioso nel bene intrinseco dell'uomo, ma anche un governante con doveri e responsabilità verso il proprio popolo.»

Annuii. La difesa, la protezione.

Quella sera lo ammirai dalla sommità del mio balcone. Lui, quel fraticello miserabile, minuto, fetente, m'aveva consegnato chiavi d'una saggezza incommensurabile. Stava in giardino, sul bordo d'una fontana, a imitare i cinguettii delle specie di volatili abitanti tra le mie aiuole e le siepi e i canali costruiti in ossequio ai modelli saraceni, nidificanti nei serragli in oro e smalto e nelle voliere.

Una coppia di pavoni dal piumaggio sgargiante s'approssimò. Un cigno emerse dalle piscine, si scrollò, esibendo vanitoso la sua regale apertura alare, e, tallonato da una famigliola di papere starnazzanti, caracollò in direzione di Francesco.

Francesco... araldo di pace...

Potevo esserlo anch'io?

Interpellai un altro detentore di chiavi, ma quelle dei miei più intimi segreti.

«Tu come l'hai inquadrato Pier?»

Pier delle Vigne, con gli anni volati nella mia ombra, aveva affinato una tecnica di rispettoso, riservato, solenne silenzio. Parlava poco, ma agiva svelto. Notaio, giudice salernitano - un giorno l'avrei premiato con una promozione a superiore di tutti i miei funzionari - Pier delle Vigne si annoverava in quell'insieme di notai, letterati e calligrafi, dictatores per ripristinare un momento l'uso del buon latino, che redigevano documenti, ma soprattutto lettere e circolari nella mia cerchia privata. Per non parlare dei poeti! Fui patrono e appassionato di quel movimento che fiorì intorno alla mia corte, intricandosi in un viluppo di versi amorosi ispirati sì alle liriche ribalde e avvincenti dei trovatori provenzali, ma distinguendosi anche da loro per alcuni aspetti innovativi, precursori di quel filone che, più avanti, visse il suo acume con l'amor cortese. La lingua, la poesia, la letteratura, altro non sono che collanti, fattori unificanti per il popolo, specialmente per i sudditi di un impero sparpagliati tra mille regioni e comuni e contadi.

La scuola siciliana, la prima grande produzione lirica della penisola, annoverante nomi di funzionari e cortigiani convergenti intorno a me, al mio astro. Giacomo da Lentini, Stefano Protonotaro, lo stesso Pier delle Vigne.

Lui, un membro attivo, dinamico, della mia sfera, e, tempo volente, un caro amico.

L'altro sussultò, tormentandosi un poco l'orlo di broccato della veste. «S-Sire?»

«Sei un tronco d'albero o ti sei imbambolato?» scherzai, lo sguardo incollato sulla figura di Francesco, mentre gli ultimi, sparuti, raggi del sole sprizzavano barbagli sui miei boccoli ramati, prova della mia ascendenza dal Barbarossa. «Ti ho chiesto come ti è sembrato il nostro ospite di rilievo, il frate d'Assisi. Intrigante, non trovi?»

Pier si avvicinò un poco alla balaustra per godere di una visuale migliore.

«Qualcuno di... insolito, questo sì sire.»

L'angolo della mia bocca si contrasse in un piccolo sorriso. «La prova che i grandi uomini possono nascere dovunque e in qualunque circostanza.»

Un grande uomo caldeggiante per un esito pacifico alle ecatombi!

Le contraddizioni hanno sempre caratterizzato la vita comune, quella di otto secoli fa e quella di oggi, la vostra disordinata epoca. Non ero uomo disabituato all'uso delle armi o indegno nel brandirle, anzi. Esattamente come Francesco, solo sul fronte politico e diplomatico, mediai a una cessazione delle ostilità, riuscendo e scrivendo una pagina di Storia che tanto nella memoria collettiva dei miei contemporanei quanto nella vostra, si cristallizzò quale impresa fuori dall'ordinario.

Quella mia crociata pacifica fu il frutto di una meditata strategia diplomatico-politica e proprio per questo divenne oggetto di gioiosa esaltazione, ma anche di violenta riprovazione. Fu vista, in ogni caso, come una tappa di avvicinamento alla fine dei tempi, allora sentita come imminente. Mille e non più mille, aveva recitato l'adagio ridondante per secoli. Ma l'anno mille era venuto e trascorso e il mondo era ancora integro, pronto per venire esplorato alla luce della speranza. Quelli erano anni in cui si riteneva prossimo l'arrivo dell'Anticristo, preceduto immediatamente dal trionfo di colui che i testi chiliastici chiamavano "imperatore della fine dei tempi".

Indovinate quale nome vituperarono? Chi divenne bersaglio? Il cosiddetto imperatore, me, dall'indole troppo... aperta, troppo visionaria e sognatrice, per gli uomini del mio tempo, sconveniente e quindi... demoniaco, funesto.

Ignoranza e superstizione, flagelli dell'umanità siete voi!

Riavvolgiamo il filo del discorso, prima che mi perda in panegirici sulla superiorità della conoscenza.

La crociata da me condotta nel 1228-1229 fu davvero straordinaria. Come si svolse lo esporrò in maniera piú dettagliata, ma invertiamo l'ordine e spieghiamo prima perché risulta eccezionale a chiunque la osservi. È modestia la mia, che pensate?

I leccapiedi dei miei cortigiani sono i veri ruffiani qui.

Due elementi la rendono sorprendente e singolare rispetto a tutte le altre imprese di conquista o di riacquisizione alla fede cristiana delle terre sante, quelle imprese che comunemente, voi, con l'occhio critico dei posteri, avete definito crociate. Il primo è che non ci fu alcuno spargimento di sangue: nonostante da ogni parte si invocassero stragi e bagni di sangue, tutto fu risolto in maniera pacifica, attraverso accordi diplomatici tra l'imperatore, io, e il sultano d'Egitto Al-Kamil.

Il secondo elemento, che desta altrettanta se non ancora maggiore sorpresa, perché apparentemente incongruente, è dato dalla circostanza che fu compiuta da uno scomunicato. Ne disquisiremo poi, sull'oltraggio dannoso che mi fu commutato dai Papi, non affrettate i tempi. In altri termini, per semplificarvi, l'impresa che rappresentava il dovere piú alto della militanza spirituale cristiana fu portata a termine proprio da chi era stato escluso dalla comunità dei fedeli. Ero stato infatti fulminato dalla scomunica di papa Gregorio IX - lui! Lo so che non vi lusinga proprio le orecchie questo nome - nel milleduecentoventisette, proprio perché non avevo ancora avviato la spedizione d'Oltremare, promessa sin dal milleduecentoquindici.

Avevo le mie ragioni, va bene? E credo che se ve le illustrerò, probabilmente, alla fine di tutta questa capriola pindarica, parteggierete per la mia versione.

La storia, lo studio del passato fatto con i giusti metodi filologici, se ha qualcosa da insegnare è proprio questo: a mutare prospettiva e a mettere in discussione ogni convinzione preconcetta. A evolversi. A cambiare.

La Storia è uno stagno dai mutevoli riflessi, milioni di prospettive.

Quella crociata del malaugurio la promisi per la prima volta in gioventù, allorquando, il venticinque luglio milleduecentoquindici, venni incoronato re dei Romani ad Aquisgrana. Imprescindibile preludio per l'unzione imperiale, che sarebbe avvenuta a Roma, in San Pietro, in pompa magna, il ventidue novembre del milleduecentoventesimo anno dall'Incarnazione del Verbo. Facendomi incoronare ad Aquisgrana, rivendicavo l'antichità dell'origine del mio ruolo universale.

Non consisteva in una novità o un calpestare la tradizione. La stessa scelta aveva già compiuto mio nonno, Federico Barbarossa di onnipresente memoria, il quale, a partire dal millecentocinquantasettesimo anno dell'Era Cristiana, aveva apposto l'aggettivo "sacro" al titolo imperiale. Del resto, Aquisgrana era stata la capitale di Carlo Magno, colui che mio nonno una manciata di anni più tardi aveva reso santo, festeggiandone la canonizzazione il ventinove dicembre, il giorno in cui veniva ricordato anche David. In quel modo veniva sancito il rapporto di continuità tra il biblico re David, eletto da Dio, e il fondatore dell'impero d'Occidente e i suoi successori. Tramite quel gesto mi collocavo dunque in prosecuzione, di diritto legittimo, per nascita e valore, di quella sequenza di sacri sovrani e imperatori, tra cui molti appartenenti alla mia stirpe.

La presa della croce ad Aquisgrana avviò un percorso lungo, pieno di lentissimi preparativi. Continui e ripetuti, da allora, furono i rinvii da me chiesti. Rinvii che i fedeli e i Papi sopportarono pazientemente - non proprio, l'insistenza è una zizzania dura da estirpare, ma sarò clemente e non ingiurerò sui loro nomi davanti a voi - almeno fino al milleduecentoventisettesimo anno dalla Natività, un anno dopo il trapasso di Francesco, quando, a seguito dell'ennesimo ritardo, venne emanata la scomunica.

Obbiettivo? Me.

Prima di accusarmi ascoltate la mia versione!

Due anni prima, nel milleduecentoventicinque, avevo preso in moglie Isabella di Brienne, regina di Gerusalemme, che portava in dote quel Regno d'Oltremare e rendeva piú allettanti gli interessi per la Terra Santa. Sarei diventato signore dell'intero Mediterraneo, da Occidente a Oriente. Isabella era docile e la stimai e la rispettai sempre, ma il mio cuore battè sempre e unicamente per una donna, tra le mie quattro consorti. La mia musa. La mia dama. Bianca Lancia. Bianca, Bianca mia, con quanta veemenza le nostre labbra su sfiorarono? In quali voluttuosi amplessi inarcammo le sinuosità dei nostri corpi, torniti e agili e snelli di giovinezza?

Manfredi, nostro frutto, bruciò della grinta dell'aquila, onorando la sua tempra e difendendo il suo vessillo, più di tutti i miei figli legittimi.

Mentre i preparativi per la crociata si intensificavano, ferventi, il diciotto marzo milleduecentoventisette Papa Onorio III morì a Roma. Passò un solo giorno e venne eletto nuovo pontefice il cardinale Ugolino, da Ostia, col nome di Gregorio IX, il quale, con fermezza e decisione, fece subito capire che non avrebbe accettato altri indugi da parte mia. Francesco aveva pagato la sua dose di tribolazioni, alti e bassi e molto di più con questo porporato incallito.

Non tentennai, palesando esitazione alcuna: la flotta era pronta.

Insomma, quell'estate tutto sembrava procedere speditamente. A Brindisi, scelta come porto d'imbarco, si erano radunati ben più dei mille cavalieri previsti dai precedenti accordi col Papa. Oltre ai soldati, poi, si accalcavano in gran numero i pellegrini, ansiosi di recarsi in viaggio nei luoghi santi. Ma la stagione calda, le pratiche igieniche dell'epoca, meno sofisticate delle vostre, e l'improvviso assembramento furono all'origine di una devastante epidemia in una città impreparata a ospitare masse così imponenti di uomini e animali.

Le ripetute dilazioni precedenti non mi permettevano di tirarmi piú indietro. Bisognava procedere a tutti i costi. Ma come salvaguardare i contingenti? Gli uomini? Soccombevano al morbo sotto i miei occhi! L'otto settembre partii assieme al langravio di Turingia Ludovico, sposo devoto di quell'Elisabetta che sarebbe stata santificata, aderente al Terz'Ordine di Francesco, aiutante i poveri con solerzia. Il giorno dopo ci fermammo poco oltre, presso l'isola di Sant'Andrea, sul limitare del porto. Il dieci settembre scalammo tappa a Otranto, dove avremmo dovuto far imbarcare l'imperatrice, ma la situazione si era aggravata e l'undici spirò il langravio Ludovico. A quel punto, ammalatomi pure io, optai per sospendere il viaggio e mi ritirai per cure a Pozzuoli, sede di rinomati bagni termali.

Il Papa non volle sentire ragioni e ritenne che fosse un'altra scusa accampata per non compiere quanto promesso: il ventinove settembre pronunciò la sentenza di scomunica.

Si trattava di un atto di eccezionale gravità, che metteva al bando della comunità cristiana chi ne era colpito: nessuno avrebbe dovuto avere alcun contatto con lui, reietto dalla Chiesa. A quel punto mi rimboccai le maniche. Decisi di accelerare, di poter ricalcare Francesco e il sentiero da lui tracciato sulla scia della pace, tanto più che in Oriente la situazione era divenuta imprevedibilmente piú favorevole.

Dopo la perdita di Damietta, avvenuta nell'estate del milleduecentoventunesimo anno del Signore, il sultano d'Egitto Al-Kamil era venuto a conflitto col fratello Al-Mu'azzam. Non gli conveniva aprire un nuovo fronte di guerra con i crociati, che anzi potevano aiutarlo contro il nemico. Così iniziò a intavolare trattative di pace con me, l'imperatore dei cristiani.

Vuoi per le mie letture, vuoi per le mie ampie vedute o per le interazioni coi filosofi e studiosi di quella cultura, non ho mai temuto il Saracino come nemico.

Dio non ci ha forse diviso perché imparassimo dalle nostre differenze, apprezzandole, collaborando assieme a un mondo di fraternità e comunione?

I preparativi ripresero nella primavera del milleduecentoventotto, appena la stagione consentì di tornare a navigare. Attraversare il mare in inverno, affrontando freddo e tempeste, era sempre un'impresa mortale, da evitare. Celebrai a Barletta la Pasqua e poco dopo, il venticinque aprile, nacque mio figlio Corrado.

In conseguenza del parto, dieci giorni dopo morì Isabella, appena sedicenne, il cinque maggio, perendo di febbri e infezioni. La piansi sinceramente. La sua morte mi retribuì una corona, quella di Gerusalemme, per la reggenza del piccolo Corrado.

Riscuotendomi dalle tragedie con dignità e vigore, salpai da Brindisi il ventotto giugno e ormeggiai in Siria il cinque settembre. Occorsero oltre due mesi per arrivare sulle coste medio-orientali, ma il viaggio fu intervallato da alcune soste, talvolta durate diverse settimane, come a Cipro, cruciale per gli snodi commerciali e non mediterranei, dove dovetti deviare per risolvere alcune delicate faccende di governo.

Le tappe che conducevano verso Oriente erano all'incirca le stesse che compivano tutte le navi che andavano in quella direzione. Costituivano di fatto tappe obbligate, perché si cercava di evitare il più possibile le traversate in mare aperto, sempre pericolose, soprattutto per le navi dell'epoca. In linea di massima si cercava di sfruttare la bella stagione, per evitare burrasche o mare grosso, e di effettuare tragitti non superiori alle cinquanta miglia marine giornaliere. Sul calar della sera, solitamente, si attraccava in terre non ostili e in porti conosciuti e attrezzati, indicati precisamente da mappe dettagliate, dove ci si potesse rifocillare, trascorrere la notte e fare rifornimento di cibo, ma, soprattutto, di acqua potabile.

In ogni caso, la scelta del percorso venne guidata anche dai rapporti di amicizia e alleanza con signori locali, o dalla decisione di imporre il predominio imperiale.

In conclusione, entrai magistralmente a Gerusalemme sabato diciassette marzo del milleduecentoventinovesimo anno della Vera Fede, in seguito a un accordo diplomatico e pacifico con il sultano Al-Kamil. Lì - e che Gregorio si strozzi - secondo alcune fonti, i giorno dopo mi auto-incoronai - "portò la corona", scriveranno i cronisti - nella basilica del Santo Sepolcro, un gesto ritenuto inammissibilmente superbo e oltraggioso da parte papale. Immaginate la reazione del pontefice!

Inutile soffermarsi sui dettagli delle trattative col sultano che precedettero quell'ingresso trionfale. Vi è sufficiente ricordare che gli accordi concessero ai cristiani vari vantaggi, ma soprattutto quello di accedere liberamente al Santo Sepolcro per 10 anni, 5 mesi e 40 giorni, laddove il massimo consentito dalla legge islamica sarebbe stato 10 anni, 10 mesi, 10 settimane e 10 giorni. Al-Malik mi venne incontro, mi strinse la mano e io la strinsi a lui, in reciproca amicizia.

Amicizia e pace con il nemico?

.

Nel Medioevo bellicoso io, Federico, osai tanto.

Eravamo i due massimi sovrani del mondo, eppure ci coalizzammo sul fronte della pace e ne guadagnammo ambedue.

Forse può essere utile ricordare che mentre tutti attorno pretendevano che si lavasse col sangue la strada per il Santo Sepolcro, mentre da ogni parte tutti attorno pronunciavano parole di odio, la decisione di non imbracciare le armi e di condurre una trattativa pacifica portò vantaggi che non si sarebbero potuti conseguire altrimenti. Avevamo potentissimi eserciti e imbracciavamo le armi, ma decidemmo di tenerle nei foderi. Francesco ci aveva spianato la strada.

La percorremmo insieme, da alleati e compagni, figli dello stesso Dio.

Questo fu ottocento anni fa, uomini del presente.

Voi, ben più equipaggiati, ben più avvezzi a un mondo enorme e popoloso, voi... perché non riuscite a fare altrettanto?

Cosa vi trattiene?

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