L'innocenza delle piccole cose

Nel Medioevo il mondo era in eccesso e in scarsità perenne.

Eccesso perché c'era il troppo.

Troppo del troppo. Troppo di tutto. Di ricchezze e averi, di potenti e poveri, di pestilenze e flagelli, di santi e demoni, di favoloso e leggendario. Di uomini e donne e papi e imperatori.

In scarsità perché c'era penuria.

Penuria di tutto. Di cibo e abbondanza, di fede e devozione, di canti giulivi al sorger della luna e gozzoviglie nell'alba rarefatta e lattiginosa. Di mondo. Esigue fette di terra raccolte intorno a Roma, che era stata nido della civiltà, ombelico dei pagani, foce d'un fiume rosso del sangue dei martiri, sorgente della Cattolica Fede.

C'erano troppi mostri e pochi valorosi disposti a combatterli.

C'erano pochi veri cristiani e tanti sepolcri imbiancati d'ipocrisia.

C'era troppa fervida fantasia nutrita dall'ignoranza e poca istruzione che diramasse le tenebre del fanatismo acceso e della superstizione esaltata.

C'era poca osservanza dei dettami religiosi e civili, perché, in compenso, la libertà prosperava, i costumi erano allentati. Tanta libertà.

Il Medioevo era il teatro delle libertà incappucciate con l'austero saio delle imposizioni, delle norme, dei principi capisaldi d'un buon cristiano. Era una festa in maschera, incentrata sull'assurdo, sull'estremo, sul grottesco.

Tutto era farsa, eccitazione e brio. Tutto era peccato e santità. Il riso abbondava su facce rubizze di vino. Nidiate di clericali bastardi crescevano all'ombra dei loro, all'apparenza, casti padri. Le donne legiferavano in casa e gli innamorati coglievano il fiore delle virtù prima che matrimoni o monacazioni lo falciassero e lo sigillassero in eterno.

Ci si divertiva nel Medioevo. Ce la si spassava alla grande.

In un tempo scandito da campane e campanili, suddiviso dalle ore dei monaci. Un tempo che iniziava presto, quando il buio si venava di striature viola. Il viola scalciava il cielo, un cielo pestato dal pugno di Dio, come se fosse spuntato un livido, come se la luce scalciasse dal ventre della notte, che di giorno e tempo a venire n'era pesantemente, pienamente, gravida, e quelle striature ne costituissero il preambolo. Il giorno soffiava spire di luce dentro il ventre notturno, partorente il sole in quelle doglie violacee, albeggianti, giacché l'alba era il parto del giorno, del futuro, della vita.

Tranne il giorno del giudizio, che avrebbe partorito la storia intera in un doloroso, rumoroso travaglio, scagliandola nel palmo di Dio, sanguinante delle malefatte degli uomini, mucosa di cattiverie e contraddizioni, e l'ultimo giorno, in un istante, nel giudizio di Dio si sarebbe aperto e chiuso, come un fiore.

Ora prima. Ora terza. Ora sesta. Ora nona.

Le ore erano numerate, lo sono ancora. Recano impressi numeri, esattamente come i soldi. Le ore erano - e sono - monete sonanti nell'uomo che s'illude d'impugnare il tempo e cerca di sottomettere al suo volere questo cavallo imbizzarrito, che s'impenna e nitrisce contrario. Al tempo non si comanda.

Ma l'uomo si cava gli occhi, occhi attraverso cui potrebbe vedere la bellezza e la realtà pura delle cose, e si sfinisce nel riempire il niente dell'esistenza. Niente che è tutto. Niente che è amore. Tempo. Vita. È una conca, questo niente, e l'uomo s'affanna nel colmarla con l'acqua dei suoi possedimenti, dei suoi averi, convogliare l'acqua della fortuna a suo piacimento, accumulando e accumulando, inondando d'oro corrotto i propri forzieri, dimenticando che l'acqua, alla fine, ristagna e imputridisce, puzzando, catacomba d'insetti stecchiti e larve.

L'oro si scolora. I tarli divorano. I fiori appassiscono.

Nel Medioevo il niente sprizzava amore per la vita. Vita che si esprimeva in ballate, canzoni, dame bianche come gigli e cavalieri valenti. Papi che regnavano come imperatori, nababbi con la mitra, e imperatori che si prostravano davanti ai papi, salvo battibeccarci alla stregua di due scolaretti il giorno dopo.

Frammenti d'infinito.

Come gli angeli, anche gli uomini - nel Medioevo e oggi - sono infiniti. Ma solo se li osserva riflessi nello specchio del tempo. Poi lo specchio si rompe e, nella trama di schegge, s'intravede il dispiegarsi delle generazioni, le nascite e le morti, il sentiero dell'umanità, infinita nella sua unità, effimera nella sua singolarità.

Il Medioevo amava l'eccesso, le moltitudini roboanti. Il gregge dell'umanità tutta.

Intera.

Era carnevalesco, il Medioevo, e immenso come immenso era il mondo e forse quello che noi intendiamo Medioevo proprio età di mezzo non era.

È errato. E offensivo. In mezzo a che? Schiacciato tra la luce di due ere, così lo vediamo, come una fessura d'ombra tra due lamine di sole. Una lacuna. Ponte tra la nascita e la rinascita del bello.

Perché? Il ponte non nasconde una sua utilitaria bellezza?

Gli anfratti e le rientranze delle sue pietre, i suoi incavi, le sterpaglie fiorenti nelle sue ferite crepate, simili a pallide cicatrici che germogliano sull'epidermide, sbocciando a nuova vita, sorridenti all'avvenire che affronteranno.

Il Medioevo era e non era. Forse è ancora e, al contrario del nostro comune pensiero, non è stato. Non è stato Medioevo e, il vero, nostro Medioevo, si svolge ora. Adesso. Da noi. Ci rintaniamo nelle ombre che fingiamo di scorgere in quell'epoca.

È stato, come tutte le ere - se di ere possiam parlare, se la Storia non è un lungo nastro cangiante, sfumato, variopinto - un bambino nel grembo del tempo. Ansioso e trepidante, curioso del mondo, eppure spaventato, racchiuso puro e integro, rosseggiante di vitalità, occhi serrati, pugni contratti.

Raggomitolato. Come l'uomo. Come il mondo nel Medioevo.

Raggomitolato nell'infinità dell'Infinito.

Infinito sorvegliato dalla vita e dalla morte. Nel Medioevo la morte era impersonata in uno scheletro che strimpellava, sghignazzante, uno strumento musicale, in un certo senso direttore d'orchestra. L'uomo ammassa e sgobba perché conosce la morte e teme il suo velo nero. L'uomo vive perché sa che deve morire. E allora la trangugia, la vita, e alle volte si strozza, fa un'indigestione di vita.

Ma la morte è compagna e nasce con l'uomo. A lui è invisibile e ladra, benché svolga il suo lavoro, benché gli ricordi che la bellezza non è scontata, e per questo eletta a nemica assoluta.

Le cose manteranno un barlume di me, si pensa, sopravvivrò.

Si sbaglia.

Il velo nero del tempo cala su chiunque, qualunque cosa, dovunque.

Il Medioevo provava a scostarlo, questo velo, a lacerarlo con la lama della gioia, dell'ebrezza, di una terra tempestata di cattedrali, merlettata di guglie e rosoni, ricamata di fiammanti, ordite miniature.

Il Medioevo era un'esagerazione di Dio, uno straboccare dirompente di luce che prende forme contraddittorie - creature e volti e storie - tutte assiepate sotto la volta celeste, in eterno conflitto, in esuberante arroganza, festosamente ferina, talvolta letale, una fratellanza che annienta le gerarchie, i ruoli, l'odio.

Nel Medioevo si era sempre in guerra perché l'uomo ingaggiava guerra contro se stesso e le sue colpe e il buio che languiva ai margini di quel mondo rannicchiato. In realtà il Medioevo era luce, colore, aria pura.

Una festa. Carnevale.

E i bambini, nel cuore di questa danza, di questo eccesso che difettava e di questo poco che esagerava, saggiavano la fantasia con cui era dipinto il mondo. Se ne impadronivano. Ci si sbizzarrivano. Pittori di storie. Storie su monarchi leggendari e papesse e imperatori nati in una tenda. Su unicorni e vergini, maghi, santi, eroi, donzelle, cavalieri, destrieri, grifoni, sirene, fenici.

Su santi, lupi e uccelli.

Assisi è intarsiata nelle pallide viscere del Subasio, una pietra delicata, imbevuta dell'immanenza tremula, ultraterrena e sospesa dell'aurora. È un pezzo d'altrove conficcato nella roccia, in un paesaggio d'ulivi e papaveri, spighe dorate e polvere pizzicante. Pietra e paglia e legno e infinito.

Assisi. Ascesi. Una costa ritta, fertile. Dei suoi bagliori argentati c'è impastato un sole.

Sole della Chiesa in un cielo rigoglioso di sole.

Come se si dovesse ascendere per godere dei suoi raggi, come se l'ascesi - la salita spirituale e fisica - fosse il requisito imprescindibile per vederlo.

Sfiorarlo. Toccarlo.

Amarlo.

Nel Medioevo spropositato dell'iperbole, dell'estremo, nell'Assisi sperduta, paesino nell'Umbria verdeggiante, tumefatta dell'escrescenza dell'Appennino, nacque al mondo un sole.

Ma, nessuno, la chiamò Oriente.




Sorella Chiara ha preparato il pasticcio di gamberi, il piatto preferito dello zio.

Giovannetto esulta, estasiato e affamato, il pancino brontolante. Piccardo è più contenuto. Si tratta solo di una merenda, anche se cucinata dalla dolcezza sollecita e premurosa di Sorella Chiara, profumata di cielo, odorante di santità.

Come lo zio Francesco, sebbene in questo momento sia più concentrato nell'affettare la crosta giallastra e cotta dell'impasto, posato in un involto di panni sul pavimento fresco di San Damiano, nel chiostro ombreggiato. Avrà fame lo zio, pensa Piccardo. I santi di solito rinsecchiscono in digiuni delibilitanti, lunghissimi, non spiluccano più d'un tozzo di pane e sorseggiano a malapena un bicchier d'acqua.

O, dipende dalle storie, manco quello. Vivono d'aria e preghiere. Il loro pane celeste, bevono l'acqua viva sgorgante dal cuore granitico di Cristo. Dalla roccia della Chiesa. Dalla pietra di Pietro. Rugiada del paradiso imperlante sante labbra.

Ha sentito dire che lo zio sia campato, durante la quaresima, non consumando più di mezzo pane in ritiro su un'isola nel lago Trasimeno.

Non sembra possibile, non adesso che lo zio mangia con gusto le fette del pasticcio fumante dal forno, la crosta che si sbriciola tra le mani.

«È una merenda buona!» Giovannetto si strafoga, spolverando vorace quanto a lui toccato, agitando le manine, smanioso d'assaporarlo ancora. «Posso zio? Una fettina piccolina piccolina, ti prego!»

«Sei un orsetto golosone Giovannetto!» ride lo zio Francesco e gli accoda il suo desiderio. «Tieni.» Il nipotino si accanisce a divorare il pasticcio. «Mangia.»

«Papà non deve saperlo.» giudica conveniente Piccardo. La colpa è da imputarsi a Giovannetto e la sua ingordigia però. Se non mangia a cena cavoli suoi.

Non è la sua balia.

«Ci siamo abbuffati anche noi alla vostra età.» dice lo zio con leggerezza, ammirando divertito il suo fratellino spazzolarsi via la seconda fettina, quella presunta piccolina piccolina, un alone di briciole a impiastricciargli la bocca, prova della violazione avvenuta. «Scorpacciate e mal di pancia a non finire!»

Piccardo aggrotta la fronte, perplesso.

Conosce troppo poco dello zio e del papà da bambini. È imperativo che recuperi.

Deve sapere!

Il papà parla solo se interrogato a riguardo, neanche il passato fosse una ferita guarita e operata a cui si scuciono i punti e riprende a suppurare sangue e infezioni. Congela il passato, il papà, e se lo porta appresso. Come un'ombra. Un mantello della sua personalità. Della sua persona. Piccardo sa che vuole bene allo zio, così come la mamma e la nonna. Il nonno è un mistero. Deve amare lo zio d'un diverso tipo d'amore. Non l'amore immateriale, incorporeo, evanescente come nebbia, che cinge lo zio e Sorella Chiara. Non la variante terrena e focosa, furibonda e passionale che avvinghia la mamma e il papà e che si stempera solo a letto.

Neppure l'amore carezzevole, accorto e talvolta pedante della nonna.

Un amore doloroso. Nonno Pietro deve soffrire per lo zio, a causa dello zio. Un amore derivato dall'abbandono, dal rifiuto, un amore piagato scaturito dall'incomprensione. Dall'incompresione dell'incomprensione del figlio. Perché il nonno esigeva di comprendere qualcosa, un processo, un'evoluzione, che comprendere non poteva.

È così che fanno i grandi, dopotutto.

Piccardo, invece, nella sua posizione di bambino, ritiene che sia bello non comprendere. Quando non comprendi t'inventi e la fantasia spicca il volo.

Ma, neanche questo, i grandi lo capiscono.

Pace aleggia nel chiostro e un cielo azzurro - l'azzurro italiano che rimbambisce e ritempra - sovrasta Assisi e le campagne. Sorelle Tortorelle si rimbeccano, tubandosi, perdendo piume, una pioggia soffice, luminosa. Fratello Lupo s'appisola, acciambellato, sgranchendosi le zampe muscolose e spalancando le fauci in uno sbadiglio. Sono gli amici dello zio. I suoi fratelli.

A Piccardo e Giovannetto piace Fratello Lupo, anche se non hanno ben chiaro se sia la medesima, feroce belva ammansita a Gubbio o appartenga al suo branco o sia un lupo diverso, giacché alcune voci lo danno per morto. Il suo pelo irsuto, folto e nero. La sua lingua graffiante, ruvida, che solletica i contorni delle dita quando le lecca. Il suo scondizolare simpatico e socievole, tampinando lo zio.

Se un lupo può convertirsi alla pace, rimugina Piccardo, un padre iracondo può aprirsi con il figlio scalmanato. Il nonno potrebbe farlo, se lo volesse.

Se.

È così amaro il se.

«Andiamo.» li incalza lo zio, tirandosi in piedi, stirandosi le braccia e raccogliendo l'involto, ormai vuoto, in un fagotto. «Ringraziamo Chiara e togliamo il disturbo.»

Di già?

Il pomeriggio è lungo, possono trattenersi ancora un poco! San Damiano infonde pace, tagliato dal tramestio indaffarato del mondo, immerso negli ulivi. Sbuffando, Giovannetto e Piccardo seguono Francesco, diretto al refettorio.

Le giornate ardono e le porte sono bloccate da sacchi lungo le pareti. Il ritmato movimento dei telai intesse una preghiera di fili, trame e orditi. Macchinari in legno sbatacchiano, scardano fibre, sbrogliano, intrecciano, annodano, ricamano tralci, pampini, stormi d'uccelli e greggi dal vello candido, croci e messi alati, mazzi di gigli e rampicanti di rose. Edera, grappoli d'uva, ornamenti delicati, artigianali.

Lana per letti e abiti talari, lino grezzo non sbiancato per tovaglie e asciugamani, lino sottile e bianco per le tovaglie d'altare e i ricami. Piccardo li riconosce, indovina le sostanze, scova le differenze, la sua memoria oculata dall'educazione mercantile.

Cuciono paramenti, rattoppano vesti e non solo, le operose monache di San Damiano, destinandoli a chiese, poveri e chiunque ne abbia bisogno. Carità creata con le proprie mani, rifinita e donata.

Sorella Chiara siede a margine, su uno sgabello, in un angolo, costellando l'orlo d'una stola di foglioline attorcigliate. Un groviglio di fili e gomitoli attende nella cesta ai suoi piedi. Sora Gattuccia ci affonda gli artigli, una coagulo di stoffa rimbalzante tra i suoi polpastrelli rosati, topolino immaginario.

«È stato uno spuntino molto apprezzato.» le comunica Francesco, grato, deponendole in mano il fagotto molle. Occhieggia Giovannetto, carezzante Sora Gattuccia in mezzo alle orecchie soffici. «Mille grazie e perdonaci il disturbo.»

«Grazie Sorella Chiara!» intona Piccardo diligente e sgomita a quel distratto di suo fratello. «Giovannetto!»

«Oh.» Si risveglia, tutto scoppiettante d'allegria. «Grazie Sorella Chiara!»

«Grazie a voi per essere passati. Le tue visite sono pomata per le nostre paure Francesco.» Chiara rimanda la stretta di mano che lui le tende e sprofondano uno nello sguardo dell'altra, annegando, estraniandosi, eremiti su una vetta d'intesa loro e unicamente loro che Piccardo non sa definire. Forse nessuno lo sa.

L'amore è indefinito, crede, e per questo multiforme. Un guitto. Un attore.

L'amore è sfaccettato come la vita. Camminano insieme, amore e vita, di pari passo, si confondono l'uno nell'altra, si chiamano, si cercano, si fondono e sciolgono, non riescono a starsene separati, amore e vita, poiché mai separati stanno. Sono dovunque. Sempre. Permeano la totalità dell'esistenza.

Sono come Chiara e Francesco. Divisi e uniti. Sempre.

Una volta, tempo fa, lo zio gli aveva spiegato cos'è l'amore.

O comunque ci aveva tentato, visto che l'amore è indefinito e quindi espressione contemporanea di tutto e del niente, del tanto e del poco.



"«Innamorarsi è il segreto.» continuò Francesco, «E quando succede non puoi più tornare indietro. Se ti innamori, inizi a dimenticare.»

«A dimenticare cosa?» gli chiese Piccardo.

«Bella domanda. » gli rispose sorridendo Francesco.

Piccardo aveva quasi l'impressione che lo zio lo stesse prendendo in giro, per il tono lieve del suo discorso. Eppure era bellissima la sua voce, e il suo incalzare dolce. Dolce e tumultuoso dentro. Dentro, rimbombava. Lo facevano sentire nudo.

Ma non ne provava vergogna.

«Mi hai chiesto che cosa si dimentichi.» continuò allora Francesco. «Quando ci si innamora. Ti ho detto che è una bella domanda. È bella perché è sincera. Perché tutti sinceramente ce lo chiediamo. Ma ce lo dimentichiamo. Ci dimentichiamo di cosa ci dimentichiamo. Ci chiediamo un'infinità di cose. Ci costruiamo problemi, in ogni momento. Perché vogliamo sapere. Tutto. Cosa perdiamo. Cosa guadagniamo. C'è sempre una cosa che ci turba. Ma quando ti innamori, capisci che quella cosa è un'altra. L'amore che provi per lei ti trasforma. E tu la trasformi. Allora incominci a dimenticare. È questo che intendo. Inizi a dimenticare cosa fosse quella cosa prima. E cosa fossi tu, prima. Se hai paura, inizi a chiederti cosa stai dimenticando, cosa stai perdendo. Quando t'innamori, e non ne hai paura, inizi a sentire che il tuo desiderio di prima era l'ostacolo che ti separava da quello che amavi. Perché lo sentivi diverso. Diverso e lontano da te e lontano da lui. O da lei... Ma l'amore annulla le distanze, e rende irrisorie le differenze che pure restano..»

Piccardo non capiva.

Francesco continuò: «Cose irrisorie e meravigliose, quelle della vita. Quando ti innamori, vuol dire che hai raggiunto il cuore di una cosa. Quel cuore è in ogni cosa lo stesso. Quel cuore è la tua casa, e la casa di tutti. Allora cadono a terra rapite, le cose, cadono e si rialzano diverse, e ne vedi il movimento, come fosse una danza, e inizi tu stesso a danzare, e quella danza siamo noi.»

«Noi...» ripeté Piccardo."



Noi tutti. La pazzia dell'amore. La danza dell'amore.

L'amore è il dolore gioioso, la mancanza volontaria.

La mancanza che riempie, vivifica. Si sottrae e sottraendosi, negandosi, s'accresce. L'amore è un paradosso, ma mica un paradosso ingarbugliato degli adulti.

Un paradosso bello. E umile, genuino, naturale, spontaneo, come un passero.

L'amore è incontaminato poichè non sperimenta la bruttezza, la cattiveria.

Lo conserviamo puro. Per noi.

È un salto. È la fragilità che si mostra nelle sua fragile consapevolezza. È un bambino e una storia di volpi e rose. È Dio che scende nell'uomo e nella croce.

È il canto d'uno zio speciale, il suo tatto amoroso con la natura e l'uomo.

Salutano Chiara e consorelle. Giovannetto tira lo zio per la manica, incoraggiandolo a scendere al fiume. Possono lanciare i sassi e schizzare con i piedi e, siccome è noto che lo zio intrattenga prediche con gli uccelli, se vuole può predicare alle papere.

«Sorelle Paperelle ti aspettano zio!»

L'erbe verdeggia, splendente, intiepidita dalla carezza del sole. Gli ulivi, rattrappiti, si disperdono in bagliori argentei, un mare di bagliori argentei. Il grano è un tavola laminata d'oro in cui il vento intinge il pennello e tira, sollevandolo, l'odore della pula, il formicolio della polvere, le sementi che balzano nel setaccio. Chicchi dorati come pepite d'oro, il patrimonio dei braccianti. I papaveri sono gocce di rubino, frusciano, abbracciano i fiordalisi in un contrasto di blu e rosso.

Il fiume spumeggiante riflette sulle acque, plasma la roccia, la liscia e la leviga, favorendo la proliferazione del muschio. Una chiesa allo stato brado. I pilastri sono i tronchi maestosi. La volta bucherellata dal fogliame. L'altare le rampe in cui l'acqua cade, versandosi nella corrente.

Dio è Dio, lui non muta.

L'acqua è limpida, trasparente, un sollievo invitante nella calura del pomeriggio. Si profilano file di papere, una mamma e i suoi anatroccoli.

Giovannetto li indica al settimo cielo. «Guarda zio! Puoi insegnare loro il catechismo!»

Zio Francesco ride.

Suo fratello si slaccia i calzari, abbandonandoli sul pietrisco, e si getta con i piedi in acqua, saltando come un matto, sollevando schizzi verso la riva, verso Piccardo.

«Giovannetto!» l'ammonisce irritato. Se si bagnano gliene canteranno quattro! Soprattutto allo zio e lo zio non va incolpato delle loro intemperanze.

«Vieni dentro!»

«No! Non dobbiamo bagnarci!»

«Ma poi ci asciugheremo al sole!»

«Provaci e ti affogo.»

Sfida raccolta: lo schizzo per poco non lambisce i piedi di Piccardo. Giovannetto si sganascia dal ridere, tuffandosi vestito, riemergendo con i ricciolini biondicci scuriti, rasenti la fronte in appiccicose ciocche.

Al grugno arcigno di Piccardo, lo provoca con una pernacchia.

Suo fratello è un somaro.

«Sei un tontolone!» Prendendo la rincorsa, Piccardo si butta nel fiume. L'ha voluto lui. Balza sopra Giovannetto, l'agguanta per il colletto della tunica, pestando l'acqua, generando schizzi, archi catturanti gocce di luce. «Un tontolone! Stupido e vanesio!»

«Va-che?»

«Imparalo!»

«E tu assaggia questo!» E una cascata investe Piccardo, imbevendogli le vesti.

La lite si tramuta in gioco e presto la rabbia si sbolla. Ridendo, rincorrendosi, nuotando tra i sassi e i banchi di pesci, Giovannetto e Piccardo si ricordano solo riemergendo sulla spiaggia, zuppi e infreddoliti e scappanti alla macchia di sole più vicina per scaldarsi, dello zio.

Non ha giocato con loro. Non ha detto niente.

Dov'è?

Lo scoprono grazie al bisbetico tubare di Sorelle Tortore, svolazzanti in grembo a uno zio Francesco addormentato contro il tronco d'un olmo appresso alla spiaggia, Fratello Lupo che lo sorveglia con il muso sulle sue ginocchia.

«Zio-» comincia Giovannetto, petulante come suo solito, ma Piccardo lo zittisce.

«Lascialo dormire!»

Il papà dice spesso che lo zio se la sta passando brutta. L'Ordine litigioso, insidiato da disordini e diatribe interne, appelli ogni giorno più insistenti, pignoli, bramosi d'una Regola ufficiale da parte di Francesco. E questa versione non va bene, e va riscritta, è troppo infarcita di rimandi evangelici, e questo e quello...

Esaurirebbe chiunque.

«Sta facendo un pisolino?» pone sottovoce Giovannetto.

Piccardo annuisce e si siede per terra, nella chiazza di sole difronte allo zio. Giovannetto lo raggiunge. Sono gocciolanti, fradici, i raggi riscaldano.

Anche i santi fanno i pisolini, dunque. I santi, le sante, i martiri e le vergini.

Oddio, di solito la verginità si allarga a tutte le categorie precedenti, inglobandole. Non sempre, ma è frequente. Benché sia più una roba da donne, la verginità. La verginità è un fiore in boccio, delicato, tenero e immaturo. Non maturerà mai. Un fiore i cui petali non vengono mai costretti ad aprirsi, esalando la seducente fragranza che, in realtà, rappresenta solo un presagio della morte imminente, della caducità bugiarda e fasulla del mondo. È un bocciolo che conserva intatta la sua bellezza, la purezza originaria, giammai inquinata, giammai deturpata. Se si schiude i petali cadranno, appassiranno, flosci e vizzi, accartocciandosi e marcendo.

È pura e candida, una vergine, immacolata, a cagione di ciò nelle iconografie sventola gigli ritti e fiorenti. Ma è anche una purezza che spurga impurità. Bianco che si contamina di rosso mensile. Ambivalente. Come tutte le donne.

Perché l'uomo, sa Piccardo, non potrà mai più tornare a vivere la carne nella libera concezione d'amore, un rapporto d'amore, come lo viveva nell'Eden.

La lussuria insozza, il fuoco brucia.

Il peccato sporca.

Non qui, non con lo zio. Sembra di respirare un pezzetto d'Eden, un briciolo di paradiso. Pace e serenità. Silenzio.

«Ci parlerà più tardi alle paperelle?»

«Dopo Giovannetto, dopo...»





N.A
Ho riletto un pochettino "Tutta la luce del mondo" e questo è il risultato🌝(infatti la parte tra Piccardo e Francesco sull'amore proviene da lì) Non è la one-shot che vi avevo promesso per l'ottocentenario della Regola Bollata, ma arriverà.
È che mi piace salvare Piccardo e Giovannetto e Angelo dall'oblio.

A presto! 💃🏼

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