Il lupo di Gubbio
Non so perché o come si nasca lupi.
Forse da un ringhio del capo, dal richiamo irresistibile e suadente dell'accoppiamento, dall'istinto alla riproduzione con una progenie pelosa e piagnucolante, che preserverà la specie e manterrà integro e unito il branco nelle stagioni a venire. Forse nasci nel sangue, tra le leccate raspose di tua madre, le testate alla cieca coi tuoi fratelli. Forse nasci per mero desiderio.
Non so neanche come si cresca, in effetti. Succede. È la natura. O cresci o perisci. O servi o sei rinnegato. E se il branco ti scarta la tua esistenza più non vanta un senso. Sei significante nel branco. Con il branco. Per il branco.
Sussistere da solo non ti è consentito.
I lupi sono animali gregari, sociali. Si raccolgono in branchi, in raggruppamenti simili a milizie, a eserciti umani, armati di zanne e artigli e peli.
Succede che tu cresca, pigiato alle mammelle rosee della tua genitrice, pulito a ruvide carezze e umide nasate. Ti accalchi, sgominando i tuoi fratelli. Prevaricando sul più debole. Succhi latte e la spietata legge del vincitore. Lotta per sopravvivere o soccomberai. Tra zampate e peluria crespa e accapigliarsi di piccoli. Tra mordicchiate per giocherellare con tua madre o battute di caccia e conigli maciullati, penzolanti inermi tra le fauci di tuo padre. Tra l'ululato del capo, convocante i suoi fedeli sottoposti. Tra il nero sangue raggrumato sulla pelliccia, la voluttuosa stagione degli amori, dove gli odori ti rincitrulliscono, deviandoti tra montate e spinte e prove per impressionare la femmina, sorpassando il tuo rivale e conquistando il suo cuore, la sua fiducia, mentre il tempo asseconda le stagioni, il vento glaciale abbraccia l'inverno e le corse sfrenate sull'erba fresca attenuano il loro vigore, oramai fugaci ricordi di gioventù, distrazioni in cui presto si cimenteranno i tuoi cuccioli.
E allora i bisogni della tua famiglia, la fame dei tuoi figli, le volontà della tua compagna, stracciano qualsiasi altra necessità, sostituendosi al divertimento, alle ronde col branco, assurgendo a impellenti, immediate.
Esci e cacci, azzanni, uccidi, rimpinzi una vita decimandone altre.
Io non so come avvenga tutto questo.
Nessuno mi ha mai rimpinzato, gracile e piccino che ero, l'ultimo della cucciolata. Poco robusto, un fardello in eccesso, una bocca in più da sfamare. A differenza dei miei fratelli, che sfrecciavano agili tra le fronde selvatiche, io rallentavo il codazzo, ingombrante, debole. Mi sfamavo solo con gli avanzi delle loro abbuffate, se capitavano, elargite con compassione dalle femmine. Imparai ben presto a custodire come offerta preziosa tutto il commestibile che il bosco poteva celare.
Anfibi, rettili, uccelli, insetti, anche carogne putrefatte. La fame è avversa allo spreco. Crebbi arraggiandomi, sfruttando le occasioni che venivano.
Ma, un giorno, durante l'adolescenza, la solidarietà fraterna del branco s'infranse.
Mi tradirono.
Ero a caccia, nel sottobosco, e perlustravo la zona coi miei fratelli.
Anfratti e depressioni rocciose, tappezzate di muschio e bulbosi grappoli di funghi, parassiti drenanti la linfa sul dorso di insensibili creature, costellavano il paesaggio. Il rumore delle nostre zampe, attutito dalla coltre di foglie secche sul terreno indurito dalla più recente brinata, rimaneva circoscritto alle nostre orecchie.
Teatro ideale per scovare una preda e abbrancarla tra i denti! Gongolavo dalla smania di trucidare qualcosa. Avrei sbalordito il mio branco e spento il vociferare che si lamentava di me come un peso, un fiacco, scialbo elemento nocivo per gli altri.
Mi acquattai, pancia piatta. Avevo fiutato una pista. Coniglio. Mi schiumava il palato di bava al pensiero di un succulento coniglio. Ancor più alla gloria che ne sarebbe conseguita. Io che catturavo un qualcosa. Io che mostravo il mio valore.
Ero pronto.
Scattai. Il coniglio fu più svelto e mi sgusciò tra le zampe, filando dritto nella tana. Dannazione! Snudai le fauci, digrignando deluso.
Giurai che la prossima volta sarei stato più fortunato. Una promessa stantia di anni ormai. Ma un giorno ce l'avrei fatta! Sì! N'ero certo! Sarebbe bastato prefiggersi l'obiettivo e puntarvi con sicurezza e ci sarei riuscito!
Speranzoso nel felice esito delle battute dei miei fratelli, mi voltai per incontrarli...
... e non vidi nessuno.
Erano spariti.
Mi avevano abbandonato.
Le loro tracce erano lontane, vaghe. Un rarefatto sentore nell'aria d'imminente primavera. La tristezza si deformò in tradimento, scottante, ustionante tradimento, affilandosi come cristallo. Conoscevo la strada di ritorno alla tana. Avrei potuto percorrerla, ripresentarmi a casa, accusare quei meschini dei miei fratelli d'avere disobbedito alla prima legge del branco: l'unità consiste nella forza.
Ma cosa ne avrei ricavato? Misero e scadente nella lotta come mi ritrovavo, anche assaltandoli loro mi avrebbero travolto e tramortito. E la sconfitta, nel mondo dei lupi, è più degradante della morte. Probabilmente mi avrebbero cacciato dal branco dopo quella sentenza emessa col sangue e coi graffi. All'unanimità quella decisione sarebbe stata accettata. Noi lupi discutiamo ferocemente e, per un perdente, la disfatta equivale a esilio assicurato, senza via di ritorno.
Un perdente non è in grado di provvedere alla sua difesa, non illudiamoci di quella del branco. Lasciandomi nel bosco a contare solo sulle mie forze avevano accellerato un processo inevitabile. Se non ero stato rifiutato alla nascita lo sarei stato ora.
La cinica, abbietta realtà della natura e dei ritmi che la governano.
Molto bene, mi arresi all'evidenza.
Se rispettare le gerarchie e l'etichetta dei ruoli all'interno della mia cerchia aveva condotto a questo, allora... non avrei rispettato più nulla.
Mi volevano solitario? E solitario sarei stato.
Quindi corsi, corsi, saltando ogni tronco, ogni arbusto, io, errabondo nella folta vegetazione, superando ogni steccato divelto. Maturai e scoprii come cavarmela per il mio proprio tornaconto. Il mio pelo ispido s'inspessì, nervi e muscoli guizzanti ingigantirono la mia ridicola mole. Mi si allungarono le zanne, mi si affilarono gli artigli. Il mio sguardo ambrato sondava le tenebre, le mie zampe raschiavano, adesso veloci, rapide, micidiali negli inseguimenti. L'odio e la vendetta sono sieri che ti corrodono l'animo, se non cominci a canalizzarli nella giusta direzione.
In breve tempo, l'intera foresta limitrofa alla cittadina di Gubbio era asservito alla mia crudele morsa. Non mi sarei fermato lì!
L'impulso della fame è persistente, acuto.
Nella notte gelata - in quest'inverno che si svestiva del suo bianco mantello e agghindava i suoi alberi snervati di gemme a primavera - sul suolo infarinato e smorto, ancora imbacuccato nella cappa soffice e granulosa, spolveravo con le zaffate del mio fiato nevischio scintillante. Il tempo s'era congelato, tappato nelle case e nelle dimore umane e nella loro conserva vitale di calore. Accorciato, secco, segato come i tronchi che affettano gli uomini per ringalluzzire i loro fuochi.
Misteriosa specie, gli uomini.
Singolare, curiosa, eppure... distruttiva.
Dalla cima di uno sperone roccioso, il pugno di case di Gubbio concentrato nel perimetro delle mura sotto di me, rizzai il pelo in una gorgiera grigiastra sul collo. Annusai l'aria. Fiutai un odore. Una moltitudine di odori. Odori che si assommavano nelle mie narici, nuovi, invitanti, diversi da quelli familiari delle bestiole silvane.
Animali da soma. Greggi. Cani. Gatti.
Uomini.
Fonte di cibo.
Chiusi gli occhi, focalizzandomi sul tepore caldo e soporifero delle stalle del casale sottostante. Si materializzò davanti a me, schizzato con un carboncino luminoso, più forte e insistente degli squittii tra i rovi, del sotterraneo scavo della talpa. L'udito di noi lupi è sviluppato quanto l'olfatto. Percepiamo le più insignificanti, minime, vibrazioni della vita brulicante attorno a noi, il suo vortice famelico e appetitoso.
Pecore. Pecore assiepate nella stalla. Batuffoli e velli che si arricciavano. Teneri agnellini poppanti dalle madri. Belati e zoccoli struscianti e aspro profumo di paglia e boccate di fiato profuse in nuvolette effimere.
Con la voracità che mi inumidiva la lingua, decisi di procedere, seguendo la scia.
La luna tinteggiava la casa del fattore d'un delicato indaco notturno. Mi appropinquai, mantenendomi invisibile, fuori dalla portata del cane da guardia. Entro un certo raggio il mio odore si sarebbe confuso con il calore emanato dal fienile. Mi ero allenato nella tattica di mimetizzarmi nei meandri della foresta.
L'avrei fregato, n'ero certo.
Già ne ridevo, invece...
Il cane, uno spelacchiato segugio con gli arti spilungoni e le orecchie flosce, individuò il mio odore, indovinò che si trattasse di una minaccia e abbaiò. Sulla soglia della casa, illuminata nel riquadro della porta, si stagliò la sagoma dell'uomo, armato di forcone, intimante a chiunque si stesse aggirando nella sua fattoria di farsi avanti. Mi accucciai, costeggiando delle balle di fieno. L'uomo rimbrottò dei rimproveri al cane.
Quello guaì, rammaricato. Cani, nostri cugini intontiti dalla pigrizia di una vita confortevole! Vigliacchi, secondo me. Vivete solo per compiacere.
Con l'uomo rientrato in casa ero certo d'avere campo libero. Disegnai il perimetro del cortile, strisciando sul ventre, la coda spazzolante brina. Il segugio, appostato davanti all'ingresso, non era però un fesso. Il tartufo di noi canidi non ci inganna mai. Mi notò. I suoi latrati percossero i dintorni. Aldilà delle mura protettive di Gubbio qualche lumino si accese. Dalla casa provenne un frastuono d'improperi e porte sbattute. Il padrone stava ridiscendendo, imprecando contro un cane inveente a nemici immaginari popolanti l'oscurità.
Mi tuffai in un cumulo di fieno luccicante di ghiaccio sciolto e aghi di brina, mascherando il mio odore. L'uomo staccò una fiaccola da un reggitore in ferro battuto, la mulinò nelle tenebre, scrutandole, un avvertimento a qualunque sciagura celassero di temere la sua ira. Niente.
Belati ripetitivi di ovini nella stalla. Muggire di vacche. L'uomo, al fine da evitare di dover venire disturbato di nuovo, legò il cane a una catena.
Perfetto.
Rincasato brontolante, l'uomo ignorava la mia presenza.
Quel cane e i suoi latrati fragorosi non avrebbero più interferito con il mio piano.
In un impeto di ferocia sbucai dalla massa paglierina, balzandogli sopra. Ci squadrammo per un secondo, in un balenio d'iridi giallastre. Il mio lontano parente ebbe a malapena il tempo di realizzare. Si ribaltò sulla pancia, rotolò via, calciandomi con le zampe posteriori. Non arretrai, sferrandogli un'unghiata al collo che lo atterrò definitivamente. Il suo esiguo pelo si chiazzò di sangue, i suoi ringhi ribollenti di bava si affievolirono in uggiolii terrorizzati. Affondai le fauci nelle sue vene palpitanti, assaporandone il battito convulso che rallentava e rallentava...
... finché si estinse e un fiotto di sangue mi infradiciò il muso, segnandomi i baffi. Ne gustai la sua metallica sensazione, leccandomelo compiaciuto, osservando la pozza vermiglia allargarsi, la neve intrisa, le macchie d'erba novella incupite.
Una rogna debellata.
Costeggiai il limitare dell'ovile, intrufolandomi tra due assi mal fissate. Agnellini pasciuti gironzolavano attorno alle loro madri, tronfie di lana e tessuto adiposo. La fame mi lacerava lo stomaco. Dovevo placarla.
Le pecore, incoscienti, continuarono a brucare come se nulla fosse.
Bene.
Che il banchetto avesse inizio.
Assaltai la prima pecora, scatenando scompiglio nelle altre. Si radunarono, scudo ai piccoli, sul fondo del recinto. Le mie zanne scatenarono devastazione.
Una sanguinolenta, tetra strage.
La prima di innumerevoli!
La mia menzione incutè, ben presto, un terrore viscerale nei cittadini di Gubbio e paraggi. Il mio ululato lugubre alla luna - serenata malinconica di un escluso - prese a incutere agitazione. Dopo il crimine ignominioso mi sporcai di altre bravate. Pollai razziati, bestie aggredite, contadini menomati. Ero un turbine, fulmineo piombavo e divoravo qualunque cosa. Sbranavo con appetito, vorace e mai sazio.
Non era solo una questione di sopravvivenza e impulso animale.
C'era altro in gioco.
L'onore.
Ero reietto e canaglia, macilento, dal pelo smorto, sciatto, violento e malvagio. Mi consideravano flagello e sciagura di sterminio. Una piaga inviata da Dio per punirli dei loro peccati. Io, emarginato per tutta la vita, ora rivendicavo un mio posto di prim'ordine, ascendendo a essere qualcuno.
Leggetela sotto la prospettiva della vendetta. Un regolamento di conti personale con il destino. Con la natura. Coi miei compagni, che mi avevano sempre disprezzato. E con l'uomo, lui, arrogante, presuntuoso, borioso uomo! Lui, calamità sfigurante la terra a suo capriccio, lui, arante campi illimitati, delimitante confini, imprigionante la luce in una cattività perpetua! Lui, soprattutto, carnefice e persecutore, che si arricchiva sulle pelli appese e scuoiate dei nostri simili!
Uomo, tu che veneri un simulacro di fasulli sogni e sciocche menzogne come l'oro! Uomo, tu sottrai e ti appropri come se ogni azione, anche la più empia e sordida, ti fosse concessa, rubare il sostentamento di noi belve incluso! Gli promisi vendetta.
A Gubbio gli abitanti si erano barricati in casa. Mi temevano. Queste misere anime colanti argilla mi temevano! Mi crogiolai in quel risultato. Il mio branco si sarebbe impietrito vedendomi ora, quale traguardo avessi tagliato.
Ma, senza omuncoli che ficcassero il naso fuori dall'uscio, la noia spodestava il divertimento, l'ebrezza sadica della carneficina, deliziandomi specialmente della carne giovane delle primizie. Agnellini, vitellini, bambini...
Dopo aver sbraitato furiosamente per la noia, sonnecchiavo in una radura poco distante dalla città, frustando l'aria con la coda in maniera indolente, quando quell'omino si infiltrò nel mio campo visivo.
Lui.
Sì, lui.
Scalzo, conciato peggio di un mendicante, con una discreta folla di curiosi egubini e confratelli alle calcagna, mantenendo le debite distanze. Francesco. Basso, scuro di capelli e occhi, ma quegli occhi, l'intensità paradisiaca trapelante da quegli occhi...
Occhi ch'erano come scorci di cielo.
Coraggiosamente Francesco osò avvicinarsi a me. Subito mi misi sulla difensiva, rizzandomi, snudando le zanne. Che si era messo in testa di fare? Nessuno, men che meno uno scricciolo della sua taglia, valicava il mio spazio privato!
Non dovevo spaventarmi, esordì. Il suo nome era Francesco, Frate Francesco, proveniva da Assisi e sosteneva che era qui per disquisire con me su un fatto assai grave. Con me? Se mi fosse stato possibile mi sarei scompisciato dal ridere. Chi ci teneva a parlare con il demoniaco terremoto di Gubbio? Francesco rincarò la dose, comunicandomi che aveva in programma di scrivere all'imperatore perché pubblicasse un editto dove sanciva che, la mattina di Natale, venissero sparse granaglie per gli uccellini, specialmente per le allodole squillanti nel mattino, e i muri spalmati di grasso untuoso, cosicché, in un giorno tanto solenne, anche gli animali potessero celebrare come si conveniva la nascita del Salvatore.
Altro che buffonata. Era interessante. Mi sedetti, ammirato.
Francesco, mi rassicurò, amava ogni creatura. Me compreso. Io? Brutto e mostruoso com'ero? Sì, pure io. L'altezzosità di re della foresta, mietitore di vittime, si disintegrò davanti a quell'accettazione veritiera. Francesco non mi prendeva in giro.
Francesco mi voleva bene.
Così com'ero nato.
Ma prima, precisò, occorreva discutere delle mie nefandezze. Com'è che mi ero mostrato tanto risoluto da rompere i confini tra le specie decretati da Dio?
Parlava e parlava, incantandomi con la sua favella, con la magnetica energia dei suoi occhi tersi, sinceri. Estirpò in me il livore, la rabbia. Sedimentò, man mano che mi rendevo conto delle mie malefatte, la vergogna. Lo fissavo incredulo e stupefatto, passeggiandogli intorno, rinfoderando gli artigli. Mi propose di stringere una pace tra me e questa gente martoriata, una tregua. Che terminasse la mattanza.
«Fratello Lupo.» espose Francesco. «Poiché ti piace fare e mantenere questa pace, io ti prometto che ti farò assistere per tutta la vita dagli uomini di questa terra affinché tu non soffra mai la fame, perché io so che a causa della fame tu hai perpetrato ogni male. Ma, Fratello Lupo, io voglio che tu mi prometta di non fare del male né a persona né ad animale. Manterrai la promessa?»
Pregò, mi depose una mano sul capo, mi carezzò le orecchie. Una carezza. Demolì le mie già instabili reticenze. Scondinzolai festoso, chinai il capo, animato da una voglia matta di uggiolare senza freni. Francesco mi sorrise e a quel sorriso fraterno capitolai, fiondandomi su di lui, leccandolo con affetto. Sì! Sì! Sì! Mi sarei impegnato a convivere pacificamente con i miei vicini umani! Rapiti da quel discorso tra uomo e fiera, gli impavidi che si erano avventurati fuori dalle mura ammutolirono.
«Andiamo in piazza Fratello Lupo.» mi disse Francesco. «Così tutti riceveranno conferma delle tue buone intenzioni.»
Fiancheggiando il fraticello, in piazza suggellai l'accordo porgendogli la zampa, mite e mansueto. Francesco me la strinse di rimando. Gubbio gridò al miracolo.
Un uomo disarmato aveva ammansito un temibile lupo.
Un uomo non mi aveva attaccato, ma accolto a braccia spalancate.
Mi aveva amato come un fratello.
Lungo la via del ritorno nel bosco, accompagnato da Francesco, udimmo un fruscio di cespi e foglie. Scommettevo in una preda allo stato brado, ma Francesco andò in avanscoperta per primo, e dal cespuglio emerse... un tremante, gemente cucciolo di lupo, dalla stazza dimezzata e deprimente come la mia alla nascita, ancora cieco, a contorcersi nell'aria dove stava sospeso, tenuto per la collottola da Francesco.
Un branco aveva preferito disfarsi del suo fardello... di nuovo. L'indignazione mi investì, ma afferrai subito che non era poi tutto perduto come sembrava. Francesco si premette con attenzione il piccino al petto, il musetto tastante contro il saio alla ricerca di latte o capezzoli a cui appiccicarsi.
Sapevo a chi affidare quel piccolino.
Sospinsi il mio muso contro la gamba di Francesco, infierendo colpetti. Sulle prime pensò che volessi prendermi il cucciolo, ma poi, quando ripetei il gesto, s'illuminò.
«Vorresti... vorresti che lo curassi io?»
Di più! Che vivesse con lui! Sarebbe stato meglio di qualsiasi branco.
Perciò uomini di buona fede, se mai vi recherete a Gubbio, presso la chiesetta di San Francesco della Pace, visitate la mia tomba e decoratela con un fiore.
Vissi due anni a Gubbio, amato dai suoi abitanti, che mi sfamavano regolarmente, unendomi ogni tanto ai cani che cantavano alla luna, e non feci più sfoggio della mia cattiveria. Dopodiché morii di vecchiaia, compianto sinceramente da tutta la cittadinanza, che mi aveva preso in stima, affetto e simpatia.
Il penetrante stridio del falco riecheggia sopra i crepacci e le gole della Verna.
È un grido da perforare i timpani, Fratello Lupo lo riconosce bene. Sbadigliando, esibendo file di denti bianchi e aguzzi, si stiracchia, scrollando le membra intorpidite.
Fratello Falco costituisce però una sveglia efficace, perlomeno durante questo soggiorno sul monte donato a Francesco dal conte Orlando Cattani, a San Leo, l'otto maggio di ormai undici anni fa. Era nato allora? Scorrazzava già accanto a Francesco nelle sue peripezie? Ne hanno affrontate di ogni fianco a fianco.
Francesco che per lui ha coinciso con la figura di padre, di madre. Non padrone, il suo amico suole ripetere che i nostri fratelli animali non si posseggono. Si amano, si confortano, si curano con solerzia e dedizione. Non c'è un secondo della sua vita in cui Fratello Lupo possa dirsi essere stato, per ora, esentato dall'esperienza di Francesco e del suo branco, del loro branco. Lo scorta, lo protegge.
E Fratello Lupo ricambia il favore.
Tra dune arroventate, su ripide e scoscese colline, a marciare su tratti disagevoli e tortuosi, in borghi fermentanti di vitalità, nella melma, nella polvere, nella calura che dilania la gola con il miraggio d'anelata frescura. Assisi, Spello, Spoleto, Perugia, Cannara, Bettona, Viterbo, Roma, Firenze, Bologna. Le Puglie, la Spagna, il Marocco, Damietta e la cittadella fortificata di San Giovanni d'Acri.
E come scordare l'accampamento saraceno!
Spulciandosi i genitali con la lingua, marcando il territorio coi suoi bisogni, Fratello Lupo si dichiara pronto e, diligentemente seduto sulla balza rocciosa affacciata sullo strapiombo, aspetta Francesco. Presto uscirà dalla grotta.
Non è ancora sorta l'alba, ma consiste in un'abitudine, per Fratello Falco, quella di volare sopra le loro teste per destarli in tempo per la preghiera notturna. Oppure, qualora Francesco sia troppo svigorito dalla malattia, passa più tardi, all'alba. Veglia anche sul loro sonno, dopo che Fratello Lupo, acciambellato di guardia in un involto di pelo innanzi all'apertura del pertugio, s'è addormentato.
Eccolo planante, infatti, Fratello Falco. Reputa un ramo confacente ai suoi artigli, si spilucca qualche insettino intrappolato nelle sue piume terrose, bigie, e sbatte le ali in un frullio benaugurante a Fratello Lupo.
È stranito dall'attesa prolungata. Di norma, Francesco esce dopo il suo primo, roco richiamo. È insorta qualche complicanza?
Fratello Lupo gradirebbe ricevere altrettanti chiarimenti. Inusuali questi tempi. Tra poco, poi, dalla valle giungerà Frate Leone col suo consueto salmodiare, la parola d'ordine perché porti a Francesco la quotidiana, frugale colazione di pane e latte.
Si gratta una zecca molesta dall'orecchio, perplesso. Non sul fattore colazione, per carità, rappresenta il suo momento favorito della giornata, quando può papparsi tutti i brandelli di carne e ciccioli di grasso e budella elemosinati dai frati ai macellai, quanto sul ritardo inspiegabile di Francesco.
È capitato qualcosa?
Fratello Falco, con stridula sollecitudine, gli consiglia di entrare a controllare. Francesco di questi tempi è... poco in forma, l'ha visto anche lui.
Sorride di rado, sigillandosi nel silenzio e nella preghiera. Farfuglia geremiadi di implorazioni all'Altissimo, lì, sulla sommità del Sasso Spicco, tra le insenature e i pendii rigogliosi di verde e muschio della Verna. Notte e giorno, nonostante le intemperie, la grandine, l'acquazzone. Francesco si duole e urla, invoca il suo Dio. È la disperazione a incatenarlo a quel masso più che la devozione filiale ormai. Non l'ha mai perduta, no. Solo, da qualche tempo, tra le torbide invettive, le critiche, i tumulti dell'Ordine, quella devozione, quella voce luminosa e soave, la sente soverchiata da un brusio di altre voci, voci aspre, biforcute, scontente.
«Parlami! Parlami! Ti scongiuro! Rivolgi a me il tuo volto Signore, affinché io non sia perduto! Ho lasciato tutto per seguirti! Senza niente, senza affanni. Casa e famiglia, senza chiedere perché, senza obbiettare. Come mai ti sei ritratto ai miei occhi? Dov'è la tua Parola mite e dolce e ammaliante? Devo imputarla ai miei errori Signore? Alle mie mancanze? Dov'era il tuo sostegno? Dov'eri mentre i miei figli rischiavano di disfarsi in fazioni riottose? Ci hai dimenticati? Mi hai dimenticato? Il tuo misero, spregevole, insulso servo ha adempiuto ai tuoi comandi. Ma tu? Dove sei? Dove?!» gridava Francesco, contrastando il fragore della pioggia dell'altra sera, scrosciante, gelida, che gli rigava il viso e incollava ciocche alla fronte, mescolandosi con il sale delle lacrime. «Dove sei?! Non nascondermi il tuo volto! Parlami! Ti prego, parlami!»
Cos'è successo al loro allegro e giulivo Francesco? Il giullare ha riposto cappello e campanelli per caso? Fratello Lupo lo dubita. Tuttavia, conviene che sia prudente andare da Francesco, visto che ancora non si è palesato.
Si inoltra nella grotta, tra sassi spaccati e sgretolati, gli odori ricamati sul pietrisco appuntito. Aumenta la foga del passo quando lo scorge.
Raggomitolato nel suo saio, una roccia per cuscino, il cappuccio sollevato, Francesco dorme, russando sommesso, il respiro irregolare che s'alza e s'abbassa.
Perché sogna ancora? Non ha sentito la sveglia?
Con baldanzoso giubilo, Fratello Lupo gli si avvicina, incalzandolo a zampate gentili sul fianco. Forza Francesco, è ora di alzarsi! Ti sei perso Fratello Falco, pigrone!
Ma il fraticello, bizzarria delle bizzarrie di stamani, invece che levarsi con il suo solito piglio euforico, felice che Fratello Falco lo svegli, così da aborrire ogni pigrizia e stanchezza da quel cialtrone di Fratello Asino, ovverosia il suo corpo indisciplinato, bofonchia qualcosa, girandosi dall'altra parte.
«Mmh... altri cinque minuti...»
Fratello Lupo è basito.
Cinque minuti? Francesco che non corre a pregare? Uggiolando confuso, inclinando il capo, prende a nasare l'amico. Qui bolle qualcosa sotto.
Francesco non ha mai fatto segreto della sua contrarietà ai castighi della carne, all'uso di strumenti di supplizio o tortura come flagelli o simili di penitenza estrema, rasentante il fanatismo. Al massimo un cilicio in setole o crine, mortificante l'addome, lo indossano sia lui che Sorella Chiara quello. Nell'ultimo periodo però se la sta prendendo con il suo corpo con eccessiva durezza, tutti sono concordi su questo. Ingerisce bocconi oppure digiuna, dorme a malapena, chiudendo occhio due ore per notte e consacrando il resto del tempo all'orazione. Il suo girovagare per imbastire prediche ha raggiunto livelli folli, al punto che i compagni non riescono più a sostenerne i ritmi. Ma a cosa è da addurre questa severità?
Fratello Lupo percepisce il disagio di Francesco, il gorgo della colpa - una colpa non sua, non causata da lui, ma il fallimento dei figli lui lo sente come il fallimento del padre - che s'insedia nel suo cuore, inaridendolo dell'antica gioia, l'oscurità squallida che si raddensa. Ma non deve punire il suo corpo! Cosa ne ottiene a infierire?
Malattie, febbri, dolori viscerali.
Poco prima di partire, mentre chiedeva la questua nelle strade di Assisi, è quasi svenuto per la stanchezza. E, nel corso dell'ultima visita a San Damiano - visite sempre più sporadiche, nessuno dei due ci tiene a violare l'imposizione dall'alto che obbliga i frati a chiedere una licenza speciale per frequentare i conventi - Chiara, dietro la grata forzata di una clausura soffocante, e che punta a combattere, si è vista costretta a svegliarlo più volte tra schiocchi di dita e colpi di tosse. Ci è mancato un soffio che Francesco si appisolasse contro la grata, cocente di febbre e con le palpebre enfiate, irritate, la sclera iniettata di sangue dall'infezione.
«S-Stavo... stavo solo contemplando... la... la manualità dei fabbri di... ehm... di questo ferro...»
Chiara non la freghi.
«Tu ti stendi. Qui. Ora. Vieni nel nostro dormitorio e riposi. Bando alle ciance le restrizioni. Oppure giuro sui santi del paradiso che salgo di persona al vescovado e insisto presso il vescovo per obbligarti come tu hai obbligato me per il discorso del digiuno. Non sto scherzando Francesco.»
«Ma quello era-»
«Ho detto che non sto scherzando!» Ha aperto la porta, abbattendo la divisione tra i sessi, l'ha pigliato per il braccio e l'ha trascinato dentro a forza. «Fila a letto. Muoviti.»
Ci è crollato nel pagliericcio di Chiara, Fratello Lupo lo giura. Gli è rimasto vicino, tra i deliri della febbre, assistendo Chiara mentre gli applicava pezze bagnate sul glaucoma e sulla fronte. Faceva benone!
Adesso che lo sconvolge?
Saltandogli addosso, prende a leccargli il viso, uggiolando, abbaiando, i baffi sfreganti sulle guance, tiracchiandogli un lembo del saio.
Sveglia, sveglia!
Consegue immediatamente il suo obbiettivo: Francesco si dimena, ridacchiando, scapigliato.
«Smettila! Mi fai il solletico! Smettila!» Si sganascia dal ridere, la lingua pizzica. Fratello Lupo non la smetterà finché non lo invoglierà a mettersi in piedi. «Va bene, va bene, ho capito! Sono sveglio! Mi alzo, sono sveglio!»
Si pone a sedere, gli occhi chiusi, impastati dal sonno, tendendo una mano a Fratello Lupo, perché agguanti una manica tra i denti, aiutandolo a tirarsi su. È un loro vecchio giochetto, divertente e stimolante.
«Mi alzo, adesso...» Si copre uno sbadiglio con la mano, sbuffando e accasciandosi di lato. «... sono sveglissimo...»
Palese proprio!
Eh no. Fratello Lupo non si arrende qui! Francesco deve destarsi. È ora di pregare! Che testardi gli umani. Tocca sempre a loro bestie rimediare.
Montandogli sulla schiena - e cosa grugnisce a fare? Se lo doveva aspettare questo pelandrone - introna il suo deretano dalla coda pelosa sulla nuca del fraticello, placcandolo al suolo.
«Se sganci... una puzzetta ora... mangi... bacche per un mese...»
Pazienza. Ci sono turbe di piccoli, squisiti roditori su cui Fratello Lupo può banchettare, sfiziosi toporagni e scoiattolini...
Allora, sta diventando impaziente. Non è da Francesco restarsene a nanna, non è assolutamente una cosa da Francesco. Onestamente crede che sarebbe l'ideale, tenendo conto della sua pessima salute ultimamente, però lui adora pregare. Come presume di ricevere risposte dal Signore se ronfa nella sua grotta?
Annusa circospetto Fratello Lupo, mentre Francesco sospira stremato. Sudore. Calore latente. Sangue. Ha i capelli viscidi e disastrati, un pallore lugubre.
Febbre.
«Fratello Lupo...» mugugna Francesco arrocchito. «N-Non... non mi sento tanto bene...» Ispira col naso, insonnolito. «Stanotte...»
È stato male? Oppure... oh, quelli.
Non ha ben capito se si tratti di assalti diabolici o di suggestioni generate dallo stato malsano in cui versa il suo amico. Una sola certezza detiene Fratello Lupo: le notti, da quando è salito sulla Verna, angosciano Francesco e le richieste a Leone di dormire assieme a lui o di vigilare con lui stanno aumentando in maniera preoccupante. Al tramonto scorso Leone, come altre volte, ha dovuto assentarsi - la sua capanna di frasche e fango è costruita alle pendici del monte - e Francesco tremava, tremava come una foglia! Fratello Lupo gli s'è sdraiato accanto finchè non il sonno non ha preso il sopravvento sul suo amico, non sperimentando nessun aggressione sovrannaturale.
Timori fondati dunque quelli di Francesco? O nascono da altro?
«Mi... mi bruciano gli occhi... m-mi pulsa... la testa... fa male...»
Capito. Occorrerà avvisare Fratello Falco. Oggi la preghiera è sospesa.
«Pecco... a... a dirtelo Fratello Lupo? P-Pecco di egoismo?...»
Certo che no! Che paturnie mentali si fa? Oh Francesco... cosa darebbe Fratello Lupo per vedere un sorriso ricomparirgli stampato in faccia...
Lentamente, con il muso, lo persuade a rimettersi seduto. Il suo protetto barcolla, casca indietro e, lesto, Fratello Lupo salva la sua nuca da uno spiacevole urto con il suolo gibboso. Con fare sonnolento, neanche occultando uno sbadiglio, Francesco sprofonda nella sua incolta pelliccia, irta di grigi e argenti.
«Morbido... Fratello Lupo... morbido...»
Avvoltolandosi attorno a lui, una sciarpa di lupo, Fratello Lupo si bea del suo russare leggero. Va tutto bene Francesco, anche lui si merita una pausa.
Su un cuscino molto più confortevole di una scabrosa pietra.
NA
La tomba del lupo di Gubbio è tuttora visitabile. Scoperta nel 1872, durante dei lavori di recupero, poco distante dalla chiesa, fu trovata una piccola tomba contenente proprio lo scheletro di un animale che il veterinario locale accertò essere proprio un canide. Si tratterebbe, quindi, finora, dell'unico caso di un animale sepolto all'interno di una chiesa, con tanto di pietra tombale ancora oggi visibile.
Sui cosiddetti terrori notturni di Francesco ho già parlato in altre sedi. Difficile per noi stabilire se, come nel caso di Padre Pio, fossero reali attacchi sferrati dal Maligno con tanto di botte e pugni, oppure, dato il delicato stato psicofisico di Francesco allora, sfociassero da altro, probabilmente dalla pressione e dallo stress accumulati.
Dopotutto però i demoni non prosperano mica dove c'è tristezza? Quindi, qualora si trattasse di entità infernali, con Francesco in quelle amareggiate condizioni, avevano trovato pane per i loro denti.
Notizie su tali terrori provengono dalla testimonianza di Leone. Stando a quanto riportato, Francesco, per un periodo, sulla Verna e non solo, ebbe il timore di trascorrere la notte da solo.
«I demoni, fratello, mi hanno pestato duramente.» confida Francesco all'amico. «Vorrei che tu restassi al mio fianco questa notte, giacché ho paura a rimanere da solo.» Francesco, come ci riporta Leone "tremava in ogni osso del corpo" e Leone, dal canto suo, "rimase con lui tutta la notte".
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