Il diavolo
Ma tutta la storiella non è solo un giardino fiorito, un dipinto su fondo oro, contornato di filagrana luminosa, smaltato d'etere e intessuto di nuvole e voli.
Qualcuno si rode il fegato - se entità come noi posseggano organi e umori a voi il giudizio - nel buio e arrota le unghie, fumando rabbia e ringhiando livore.
Mi presento: sono il diavolo, ex braccio destro del Grande Capo, ex Lucifero Stella del Mattino, il più splendente, il più bello, l'apice delle intelligenze angeliche. Sono molti ex, come potete notare, voi burattini bambocci dalle meningi spappolate di sputo e alito. Sarà un caso che, tra qualche secolo, seminare scompiglio e spargere zizzania tra le vostre coppie diverrà una mia perversa, piccola manna?
Sono il Principe delle Tenebre, Maligno, e... ah, che goduria. Ho perso un seggio, ma ne ho guadagnato un altro. E con che bagaglio di titoli!
Va bene, sto sviando. Sviare è l'arte in cui mi distinguo come maestro dopotutto.
Credete che non ci trarrei sollazzo a sviare e manomettere le vostre vulnerabili, molli animucce da due talleri? Non posso qua, ahimè, me ne dolgo.
Quella Là, sì, la Donna, lei con i suoi grani che mi affossano come palle di cannone ogni volta che uno dei suoi smidollati li recita, mi ha obbligato.
Dice che devo raccontarvi.
Raccontarvi com'era andata con quel fratino maledetto e la sua amichetta, quei due spiantati coronati di nimbo che adesso si beano lassù, nell'Oltre, comodi comodi sulle nuvolette così bianche e morbidose da farti vomitare.
(E non stupitevi se conosco dettagli dal futuro. Il Male è eterno e il tempo il campo dove gioca la sua partita.)
Dunque, dunque, dunque, bocconcini succulenti... com'ero con quell'impiccione?
Molto arrabbiato.
Furioso.
Nero.
E mugugnavo, sbavando bile, nell'ombra.
Ma da dove saltava fuori questo guastafeste impertinente?
Correva il periodo più florido della mia impresa. Gli affari andavano a gonfie vele, un reddito così, tra i nostri calderoni, non l'avevamo mai raggiunto. Conciavamo per le feste il mondo, io e i miei scagnozzi, fomentavamo l'odio, accrescevamo le inimicizie, affilavamo la cupidigia, alimentavamo la discordia, allargando i dossi tra uomo e uomo, disfavamo le famiglie, apparecchiavamo conflitti, nutrivamo l'avarizia.
Che tempi da sballo!
Mi stava andando tutto così bene che, magari, lo ammetto, mi sono adagiato sugli allori, dando per scontato che Lui risponde sempre, nei suoi modi arcani e incomprensibili, al mio predominio.
Manda i suoi campioni a combattermi.
Mai una volta che, fin dai primordi, ne abbia scelto uno normale.
Ama i disgraziati, il che dovrebbe facilitare il mio lavoro nell'indurli in tentazione. Col corno (non il mio)! Non so che criterio di selezione Lo muova, ma, mannaggia la miseriaccia, quanto più sono... anormali... tanto più sono duri da abbattere.
Quell'insetto umbro non era da meno.
Stringevo il mio cappio proprio intorno alla Sua Chiesa, l'avevo immersa in tale bagno d'oro che i suoi ministri ci sguazzavano felici dentro. La tenevo in pugno, lei e il mondo intero. Chi si ricordava più di Gesù?
Se ancora oggi sento quel nome mi sale il magone...
Ma no! Spunta questo pazzo vagabondo - come dite voi oggi? Frikkettone? - squinternato d'un pagliaccio e mi va a rispolverare il Vangelo!
Anacronistico. Patetico. Cristo sognò un uomo che mai c'è stato e mai ci sarà. Sogno l'uomo-Dio. Sognò se stesso. E quando mai s'è visto un poveraccio porgere l'altra guancia? Roba da farti internare al manicomio!
E questo qui ci voleva riprovare.
Ne nasce uno così una volta ogni mille anni, è vero, ma quanta fatica ci tocca, poi, a noi poveri diavoli, per rimediare al danno...
Prima che fosse troppo tardi, decisi subito, mi dovevo impossessare di lui, della sua anima trasparente e cristallina, e mandare all'aria i suoi piani. So riconoscere talento quando lo fiuto. Ho un palato sofisticato e mi reputo un intenditore raffinato di animelle succulente, maciullo bocconcini di valore io.
Gliel'avrei fregato da sotto il naso a Quell'Altro, marameo marameo!
Quest'omino era un pericolo, una minaccia agli introiti della mia società, e per lui trascuravo prede più vistose, tipo un cardinale, un gran signore, un Papa.
Capii che era tempo di metterci la coda.
O infilarci lo zampino, fate voi.
Cominciai con le nonnulle, i preliminari. Leggerezze e sciocchezzuole per uno della mia levatura. Sono trucchetti per un diavoletto, mica per me!
Lo tentai col dubbio parlandogli all'orecchio, con quella bella vocina melliflua e suadente che mi riesce senza sforzo. Sapeste quanti allocchi abboccano!
«Sei diventato umile, Francesco. Ma di' la verità. Quando hai baciato il lebbroso non ti sentivi grande? Il migliore? Il re dell'umiltà? Più grande di tutti gli eroi della terra? Ero io che te lo suggerivo... credi di servire Iddio, ma segui il mio volere... a me non si mente. Ti tengo in pugno: io so lo sterminato orgoglio che provi riuscendo a sentire il tuo peggior nemico come il più caro fratello. Hai rinunciato a ogni superbia per una sola che le contiene tutte: l'umiltà. E sarai dannato. Dannato per contraddizione.»
Mi confondono con la coscienza, certi. Ah, fessi!
Siete così stupidamente adorabili quando volete.
Il fraticello non rispose. Sorrideva del sorriso degli ebeti, circondato dai fratelli che lo accudivano, alla Porziuncola indorata dal sole. Ricordo di averlo scovato preda di una delle febbri croniche che lo flagellavano a intermittenza, la zazzera corvina appiccicaticcia di sudore, la tosse che lo sconquassava.
E sudava, rantolava e sorrideva e quel sorriso silente mi dava la rogna.
Infierire però costituisce il mio pallino, perciò infierii. Compiaciuto del discorso magniloquente, vanitosamente aggiunsi:
«Tu non credevi che io loico fossi...»
(Definitemi logorroico, ma ve l'ho svelato prima. Il Male non conosce morte o assestamento. Viaggia nel tempo, va avanti e indietro nei secoli e, siccome il Male corrisponde a me, suo signore e sua personificazione, non ho scrupoli a farmi beffe del verso di un poema famoso, che sarà scritto cent'anni anni dopo gli avvenimenti di cui vi sto narrando.)
Francesco, questo il nome di quel cretino, finalmente si degnò di rispondermi, giocondo nella sua pena, il sorrisone vispo di un bimbo.
«Io sono un povero giullare di Dio, questi argomenti difficili non li capisco. Tu hai il vizio di ragionare troppo, come gli uomini.»
E con un sorriso dissipò la mia tentazione, sapendo che dopo l'immagine del Crocefisso, è il sorriso l'arma che più mi mette in fuga, ustionandomi il deretano, a me che tanto mi gusta incutere nelle menti spugnose e ignoranti il terrore d'un Giudice severo, deteriorando l'immagine del padre amorevole che il Nazareno ha diffuso.
«Con chi parli fratello?» gli chiedevano i frati, consci delle falle della sua salute, preoccupati che stesse delirando.
Punto nell'orgoglio, me ne volai via, progettando già il prossimo colpo.
«Il diavolo esulta quando può rapire al servo di Dio il gaudio dello spirito.» era solito rammentare Francesco ai suoi fratelli. «I demoni non possono recare danno al servo di Cristo, quando lo vedono santamente giocondo.» Infatti li scacciava ballando e cantando e giocando. «Se invece l'animo è malinconico, desolato e piangente, con tutta facilità, o viene sopraffatto dalla tristezza, o è trasportato alle gioie frivole.»
Per via di Francesco, capite, ero sempre più in pensiero.
Quel frate mi metteva una gran fifa.
A parte i danni più appariscenti, esteriori - voler riportare la parola di Cristo in una Chiesa che saccheggiava e convertiva sulla punta della spada, predicando la fratellanza dell'amore e offrendo la fratellanza del genocidio - il danno più grave era un altro, la crisi ormai ufficiale nei miei gironi.
La sua rivoluzione era simile a quella di Gesù, che era passato dal Vecchio al Nuovo Testamento, rivelando il Dio d'amore.
Simile.
Alla.
Sua.
Ovverosia, tradotto in introiti, si profilava una seconda bancarotta di proporzioni bibliche, letteralmente!
Ma quello spregiudicato era andato oltre. Rideva e suscitava il riso.
Era la paura che sollecitava l'abbandono e lo sconforto e mi faceva pappare anime! La paura antitesi dell'amore. Paura del Dio carnefice. Del Dio sterminatore. Del Dio vendicativo. Quello zotico ridestava nei cuori la gioia e la fiducia figliale nel Dio moribondo, nel Dio crocifisso, nel Dio umano.
Io sono il Demonio, padre di bugie e autore di menzogne, e mi ero incaponito con Francesco. Provocava un'emorraggia all'inferno! Occorreva che rimediassi.
Cercavo di sedurlo coi discorsi più strampalati. Una mattina lo scorsi a pregare da solo, nel bosco, le querce fruscianti di vento. Planai, uno schiocco di ali membranose, fendendo l'aria e atterrandogli davanti.
«Non hai paura di me? Io ti colpirò in ogni modo.»
Sorrideva. Di nuovo. Che rogna.
«E tu non hai paura dell'Altissimo?» ribeccò candidamente.
L'innominabile! Gli strascichi della ribellione mi hanno lasciato acciaccato, li accuso pure adesso...
«Francesco, è ora che tu sappia: l'Altissimo non esiste. L'Altissimo l'ho inventato io. Sono io, l'Altissimo.»
Lui ridacchiò e carezzò il piumaggio d'una colombella. «Sta zitto, Farfanicchio! Ma chi ti prende sul serio a te?»
Un sacco di citrulli, altrimenti non sarei così ricco e occupato.
«Tu, sta' zitto, lo dici ai tuoi fratacci.» Poi il maleducato sarei io! Mi presento impeccabile e cortese quando devo ammaliare con le mie fandonie e le mie bugie. È un lavoro sfiancante. «Stammi a sentire, grullo: ho creato il vostro Dio per avere un rivale, non c'era gloria a essere solo. Avevo bisogno di un antagonista col quale battermi, sennò sai che noia! Gli Artù e le Tavole Rotonde di cui vai tanto matto mi fanno venire il mal di ventre, ma di cavalleria m'intendo un poco anch'io.»
«Taci, Grande Becco!» sibilò Francesco, inginocchiandosi sull'erba a rivolgersi al paparino. Tutti a fare così, assillano Quello Là. Soccorre e benedice più quegli insulsi bambolotti d'argilla che noi sublimi angeli. Ex angelo, ma dettagli. «Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno...»
Quella preghiera! Un martello che mi schiaccia le tempie!
«Prega, prega.» lo schernii. Non potevo restare a lungo. Quell'amore melenso è veleno per me. Lo sento incenerirmi come lo sguardo fulminante di quella Donna ogni volta che lo invocate. «Dio è cattivo come un uomo, anzi peggio. E vi ha fatto cattivi. Vi ha dato la morte e l'odio per il prossimo. Come può essere buono chi sa che morirà? Per questo uccidete. Sapendo che il vostro sangue sarà versato, preferite versare quello del fratello, che equivale a quello di Dio, ma in piccolo. Vi sentite Dio. Non v'è altro sollievo alla condanna d'esser mortali.»
Francesco con la bocca pregava, ma l'orecchio ascoltava me, il Nero Demonio, e lo contestava. Osava contestarmi.
Insolenza mortale!
«La morte non esiste, è un passaggio. E se esiste ci traghetta da brava sorella.»
«Ah già, la caramella del premio eterno. Balle. Dopo la morte, tutto è inferno.»
Vedeste come sbiancano certi di voi quando insinuo il tarlo di questo pensiero!
«Rimetti a noi i nostri debiti...»
«Stai fresco! Dio non rimette un bel nulla. Dio è il tiranno che manda il fuoco e la peste. Noi lo chiamiamo lo Sterminatore.» Per noi ribelli non aveva di certo avuto pietà. E io mai mi sarei prostato a implorarla e mai lo farò! Sulla terra avete i vostri controcorrente. Mi definisco come tale. Superbia, voi la chiamereste. Stolti, per me è libertà. «Facciamo a chi ne ammazza di più, lui in nome del bene, io del male. Spesso è lui che vince. Lo vedi, siamo uno. Gesù vi ha preso in giro, è venuto solo a confondervi. E mica ho fatto solo il vostro dio, ne ho creati tanti, uno per ogni nazione, per far sì che vi massacraste nel suo nome...»
Predicavo e mi tormentavo per blandirlo io, l'agente delle tenebre, spavaldo, cercando di traviarlo, atteggiandomi trionfatore, a epitome della verità e sbuffavo fumo dalle narici, ma in segreto pativo dieci inferni. Una spina nel cuore mi straziava come una fanciulla in amore: sordo al mulinello di dubbi nel quale lo avvolgevo, Francesco continua a pensare l'uomo come lo pensava Gesù.
Un fratello.
Non un essere inferiore, suddito o schiavo.
Un fratello.
Vomitevole.
Arrendersi? Non è da me. Il guadagno era sostanzioso, dovevo solo riuscire a trarne profitto. Scovare la debolezza e da lì penetrare all'assalto, corrodendogli l'anima.
Mi appellate il Gran Geloso, perché geloso di Dio. È vero. Quell'anima appetitosa la custodiva lui! Lui! Me l'aveva soffiata. Oh come mi piaceva, però, quell'anima! Potersene fregiare e adornare all'inferno... che preda! Che bottino!
Sarebbe stato, un poco, come averci trascinato Gesù...
Un'anima così quando mi sarebbe ricapitata? E lui, solo Dio, Gesù, amore? No, quel frate doveva essere mio, un pezzo della mia collezione. Reperto raro. Un gioiello con cui impreziosire le mie bolge.
Le tenebre donano anche agli angeli più luminosi.
Era diventato la mia ossessione, il mio obbiettivo. L'avevo scoperto io! Mi spettava di diritto. Prima che Gesù si compiacesse in lui, io già mi dolevo della sua luce di capriccioso principino festaiolo d'Assisi.
A Francesco le tentazioni erano di grave molestia, anche perché l'Eterno Vanitoso, che sarei sempre io, e modestamente il buio mi calza a pennello, è molto chiacchierone e lo distoglieva dalla bellezza - il volo del falco pellegrino, le formichine operose che mai si fermano, le ballate malinconiche dei lupi alla luna, i fiori coloranti gli orti - e lo distoglievo dalle creature, ci provavo, ma a quei gorghi di tentazione lui attingeva secchiate di santità e resilienza, come la capra smarrita che belava di notte e lui la ricondusse all'ovile o la cicala frinente al tramonto.
Di solito io, il Grande Nulla, odia il tentato che non si lascia tentare, ma stavolta più Francesco mi resisteva più... me ne invaghivo. La sua fierezza battagliera mi sconvolgeva e seduceva a un tempo. Ero pronto a tutto per sedurlo. Se avessi avuto capelli me li sarei strappati dalla stizza. Non desisteva!
Mi ricordava troppo quel sognatore audace di mille anni prima, in Galilea, quel ragazzo spettinato, con l'assoluto di una parola che mai sarebbe stata dimenticata, né in fondo applicata. Almeno così mi ero illuso all'inizio. Il più temerario, il più giusto, il più affascinante, il più pericoloso e misterioso umano che mai sia nato.
Sì, certo, inutile negarlo: a volte noi angeli caduti siamo soggetti a pigliarci una cotta per l'anima che vogliamo dannare. Ce ne innamoriamo. Per forza, le stiamo così addosso, alitandoci sul collo, sussurrando smaliziati, come la vostra polizia, come le balie, come gli amanti. Provateci voi a non affezionarvi all'animaletto che vi hanno affidato! Vi sfido! Io sono il Diavolo Custode. E se il custodito vanta dei meriti, che nel nostro gergo sarebbero i difetti, sono il primo che se ne accorge.
A me non si mente.
Francesco era turbato dalle parole del Maligno. So infiltrare bene le mie spire, eh eh.
«Fratello Diavolo? No, mai. Fratello no, però... anche lui esiste, anche lui fu concepito da Dio... e l'ha tradito, l'ha pagata cara la sua superbia, condannato a esercitare il male...»
Ma Satana non tiene mai un solo astragalo nel palmo, dovreste saperlo bene.
La carne è uno degli arpioni più efficaci. Sfreghi il fiammifero nei lombi, un poco di veemenza, e hai appiccato il rogo.
Credete che non l'abbia gettato, tentando di pigliare Francesco?
Aveva un'amica. Più amiche veramente, ma quella era speciale. Quella categoria di anime insidiose e sprizzanti d'amore, speculari, gemelle, tra cui le parole risultano superflue. Focose e innamorate d'un amore disinteressato e casto.
Casto. Che noia.
La deliziosa, candida, Chiara.
In un dolce mattino Francesco predicava sulla riva d'un laghetto e i pesci stavano attenti, emergendo a filo d'acqua, ritti ad ascoltarlo. Le papere e gli uccelli lacustri affollavano le sponde e i canneti, verdi e umidi. Chiara, seduta in orazione sul prato punteggiato di fiori, mirava lieta. Solo loro e due e la natura.
Scena del crimine perfetta.
Alle spalle di Francesco s'aggirava il mio lesto servitore, il diavolo Rubicante, portatore di gelosia e cuoco d'orgoglio, brandente uno spillone tra gli artigli, pronto a ficcarglielo nelle carni, ma senza riuscirvi: il sole, ritratto di Quello Là, disegnava intorno al frate un'aureola di luce che lo proteggeva, abbracciandolo.
Non trovando un punto scoperto, il mio inviato grugniva di dispetto come un cinghiale del Subasio. Ma non era solo. Mica sono sprovveduto. Avevo sguinzagliato i miei fidi colleghi. Altre insidie. Un grosso capro nero gironzolava sul prato, con simulata innocenza, brucando carino e masticando per finta dell'erbetta.
Era Astaroth, il diavolo della lussuria, da me inviato per tentare Chiara e Francesco.
Meravigliosamente ingenui e giovani com'erano, avevo pensato che sarebbe bastata una nonnulla a far ribollire il sangue.
Ma ci cascavo male. Amandosi in Dio, erano immuni. Più lussuria di Dio, che ci può essere? Attorno a loro tutto era luce, l'amore aveva un'altra forma.
Dannazione! Dannazione! Dannazione!
Come nel gioco della palla, avendo Astaroth mancato la presa sganciai il cambio e mandai in campo spedito Rubicante, coadiuvato da Draghignazzo, re dell'insolenza, e ispirò un viandante di passaggio. Dal sentiero si udì un canto sonoro e sbucò fuori un pellegrino accaldato e arrogante, coperto di polvere.
Si buttò nel lago con un tuffo chiassoso facendo scappare i pesci.
Istigato dal demonio, con turpe ironia provocò Francesco, sghignazzando fradicio. «Scusami, se ti ho fatto scappare i fedeli! Dimmi un po', ma sei scemo a predicare ai pesci? O sei vile? Comodo, i pesci non rispondono... Io invece sono stato in Terra Santa a convertire i Saraceni e quelli non scherzano. Guarda.»
Si scoprì il petto segnato dalle ferite. Una lunga cicatrice frastagliata d'un rosso sbiadito correva lungo il torace. Francesco colse uno sguardo d'ammirazione da parte di Chiara.
Ah, ah. Avevo fatto centro.
Lui ne soffrì, uno spizzico di gelosia bruciante, l'aureola del sole sparì e finalmente Rubicante, il geloso, potè conficcargli il suo spillone nel cuore.
In seguito, con gli anni a venire, rientrato dall'Oriente e impelagato nei drammi del suo Ordine, una fraternità prosciugata della fraternità, torturarlo fu facile. Si era indebolito nella tristezza e io, trovando la porta aperta, entrai in lui con la tentazione della sconfitta.
La tristezza, quale scorciatoia al mio potere!
Con voce armoniosa, accompagnata da strumenti falsamente angelici per sedurlo meglio, lo tentai nella musica che tanto amava.
«Il tuo sogno è finito, Francesco. Che combatti a fare? Tu e Chiara siete soli contro tutti e tutto è perduto. Resta coi fratelli piccioni, le cince, le allodole e le rondini e scorda quei frati gaudenti che non meritano la tua guida. Vana è la tua parola, vano l'esempio. Hai fallito, fallito, fallito. Il mondo è mio, l'ho vinto a dadi col giovane di Nazareth, quello che vi ha sempre mentito, e ride di te.»
Leggermente s'incrinava. Leggermente, non quanto la sua salute, che il viaggio e il ritorno avevano irrimediabilmente compromesso. Una coniugazione propizia ai miei scopi. Non gli riusciva di dipanare quel groviglio di pensieri e agognava la solitudine, la lontananza negli eremi, nei recessi ameni dei boschi.
Ci rimediava quella stupidina, consolandolo, rafforzandolo, restituendogli l'antica tempra. «Il Signore aggiusterà Francesco.»
Si vede! Sono tutt'ora rotto.
Ruppe anche lui, ma lo ruppe d'amore, forandolo. I chiodi della Passione, mi sbandierava davanti gli stendardi della mia amara sconfitta!
Tu e il tuo senso dell'umorismo, Dio...
A momenti quella terra diventava il cielo prima del cielo. Che vergogna per i miei guadagni! Ma era come schiantarsi ogni porca volta contro un muro. Francesco e i suoi erano baluardi della fede.
Io ci provavo. Stendevo le mie reti, sperando che ci rimanessero impigliati.
Tanti frati c'erano, quindi tanti diavoli, uno per frate. Come nel bene a ognuno è stato assegnato un angelo e, nelle virtù, esiste un angelo che le simboleggia, così anche nel male ogni peccato ha il suo campione.
I miei leccapiedi.
Graffacane è preposto all'orgoglio, Barbariccia alla lussuria, Samael alla vanità, Libicocco all'avarizia, Malacoda alla crudeltà, Rubicante alla gelosia, Draghignazzo alle risse, Berlicche ai peccati di gola (quest'ultimo a volte trionfava su Francesco che era ghiotto di dolci, specialmente i mostaccioli di Frate Jacopa). Nei registri dell'inferno a ognuno era assegnato un frate, a seconda della sua debolezza.
Ehi, sono un gran burocrate, io.
Ma niente da fare. Erano assordati dalla tenerezza di Dio. Tenerezza... puah!
Con le tentazioni del pensiero le avevo provate tutte, ma visto che Francesco da quell'orecchio non ci sentiva, passai a tormenti più grossolani. E ingaggiavo un corpo a corpo, menavo botte da orbi, tiravo macigni, ferivo con gli unghioni e sputavo fuoco, picchiandolo ogni qualvolta si avvicinasse alla ricchezza. Un po' come... come quell'altro frataccio vostro, quel pugliese da strapazzo, parecchi secoli avanti...
Andò, un giorno, a soggiornare come ospite dal Cardinale Colonna e si fermò a dormire nel suo bel palazzo. Quella notte i miei demoni gliene fecero di tutti i colori. Lo fustigarono, lo sbatterono sulle pareti, lo offesero con sozzi oltraggi, lasciandolo insanguinato e quasi agonizzante.
Ne gongolavo. Se non ci riuscivo con le buone, largo alle cattive! E che cattive!
Soccorso al mattino dai suoi frati, tentò di motivare quell'assalto notturno.
«I demoni sono i castaldi del Signore. Egli stesso li incarica di punire le nostre colpe. È segno di grazia, se non lascia nulla di impunito nel suo servo. E se permette che io venga scudisciato, strangugliato, sballottato, morsicato, trascinato, spellato, pizzicato, burlato e stanotte mi hanno inflitto anche la tortura del solletico... qualcosa di male avrò pur commesso!»
Con l'aiuto di Leone e Bernardo si mise a testa in giù per rovesciare la prospettiva e vederci meglio, come un bimbo a dondolo sul ramo. In questa posizione tacque per un buon tratto finché si illuminò, esclamando: «Ecco! Ho capito! La turba cornuta mi ha punito perché soggiorno in questo ricco palazzo!»
E se ne andò, da quel giorno preferendo venire ospitato tra i miserabili che mendicavano fuori dagli usci delle domus dei porporati.
Fu ospite da lei dopo che ebbe ricevuto l'ultimo sigillo. Gli costruirono una capanna di frasche e rami nell'uliveto del convento, cosicché l'ochetta potesse accudirlo direttamente con le proprie mani, per controllarlo anche dal davanzale fiorito del suo piccolo giardino alla stregua di una sdolcinata e assillante mamma piena di premure.
Voi umani e il valore che conferite ai sentimenti... mi frizza l'acidume nelle budella.
Gli diedi filo da torcere nella sofferenza e nell'infermità. Incubi, visioni, febbroni da arrostire il senno. Ripesamenti. Tanti. La vostra mente è una macchina così utile per infliggervi angustie. Oppresso e malato, strenuamente sostenitore del proseguire fino al deterioramento - giuro, in questo caso lo ringraziavo, al posto di sfasciarlo si sfasciava da solo - Francesco poteva contare su Chiara.
Lo rincuorava, lo assisteva. Passate febbri e banditi gli incubi, mi rimboccai le maniche. Serviva olio di gomito. Mandai a Francesco il flagello dei topi. Una notte fu svegliato dallo stridio penetrante dei roditori e nella sua capanna se li ritrovò a zampettargli sopra, che strepitavano e lo attaccavano, rosicchiandogli il saio, mordendogli il viso. Il tutto - quanto sono bravo! - senza destare i frati trasformati in infermiere dormienti all'esterno, sulle stuoie.
Quel fesso, azzardatevi a indovinare, riuscì a farsi amare anche da quelle creature furbe e senza pietà, sopportando mansueto.
«Fratelli topi, voi mordete, lordate e distruggete. In nome di Dio, se sarete così gentili, vi ordino di lasciarmi.»
E i topastri si allontanarono a malincuore, benché immancabili nei fabbricati di campagna come San Damiano, scontenti di lasciare l'unico sulla terra che li avesse mai chiamati fratelli.
Al mattino successivo lo stato trasandato, le coperte rovinate e il viso graffiato di Francesco preoccuparono non poco. Persuaso a svuotare il sacco, venne spostato provvisoriamente nel giardinetto di Chiara, mentre la gattuccia del convento e la ramazza della badessa disinfestavano la capanna dagli ultimi tenaci topi.
Quella notte avevo sentito tutto, spiandolo sotto il cielo pece, e all'orecchio gli abbaiai col fiato rovente, zaffata di zolfo.
«Chiami tutti fratelli, pure i ratti. E io? Suonerebbe bene: fra' Diavolo... mi ha creato Lui, dopotutto.»
Francesco, pallido in maniera agghiacciante, che si stava appisolando, stremato com'era dalla nottataccia, tra i vasi di gerani e i gigli di Chiara, sollevò stancamente la testa, un sorrisetto pigro velante le labbra rosso sangue.
«Si, ma che ne sapeva che gli venivi cattivo e che volevi prendere il Suo posto?»
Bell'offerta che mi lanciò. «Eheh... ma come? Dio non sa tutto?»
«Francesco? A chi ti stai rivolgendo?»
Chiara era sopraggiunta, intercettando l'amico conversare con il silenzio.
«Con...» Mascherare lo sbadiglio non era il suo forte, nonostante la lunghezza sovrabbondante delle maniche. Teneva le stimmate segrete e anche qui mi appariva un rompicapo. Vantatene! Ti sei assimilato al tuo amante! Sai che fama che ne trarresti? «Con un testone...»
Da che pulpito!
«Qui l'unico testone che vedo sei te.» Chiara s'abbassò a rimboccargli le coperte del giaciglio. L'aveva sistemato all'ombra del giardinetto, contro il muricciolo cosparso d'edera e vicino alla balconata. «Hai proprio bisogno di dormire un po', altrimenti presto ti coglierò a intrattenere dialoghi con i muri!»
Dormire e mangiare. L'avevo ben suppliziato in quegli anni e lui mi dava, involontariamente, manforte, non risparmiando a Frate Asino fatiche rasentanti il sovrumano, tutt'al più per uno dalla sua salute malandata.
Quella volta non ci cascò. Mi scoccò un'occhiata birichina, la mano di Chiara che gli sentiva la fronte, imperlata dalla febbre.
«Ti dò ragione, mia pianticella, anche il pisolino è mio fratello.»
Ma... come?!
«I topi ti hanno iniettato un po' di ragionevolezza, constato.»
Francesco si accoccolò tra i cuscini - i cuscini! Io, che lo inducevo a crederli miei strumenti! - sbadigliandomi vistosamente in faccia.
«Stanotte mi sono comportato da discolo, mi dispiacerebbe contrariarti...»
Sentilo lui, il santarellino! E, oltre la beffa il danno, scivolò nel sonno ostentando un sorriso canzonatorio. Canzonava me! Il diavolo in persona!
Potevo solo attenderne la dipartita e, credetemi, non ero solo in questo.
Aspettavano la sua morte per fregiarsi di lui e elevarlo agli onori degli altari, perfetto, ieratico e irraggiungibile, il Cardinale Ugolino, la Chiesa di Roma, quei fratelli che non erano più tanto fratelli.
Ma il più impaziente ero io, Satana.
Attendevo, con palpiti da amante, con tremiti da ansioso. Da stratega tiravo le somme. Ormai, dopo la santa militanza di Francesco, il danno era fatto. E per quanto i suoi eredi potessero travisarla, la sua venuta aveva aperto una grave breccia negli interessi dell'inferno, come ai tempi di Gesù. Ma, in barba alle cocenti sconfitte, nel duello col fraticello io, l'Avversario, non mi ero mai dato per vinto e nutrivo una folle ambizione: riuscire ad acchiappargli l'anima all'ultimo istante, in extremis.
Come il giocatore che ha sempre perso e spera di rifarsi di tutto in un colpo solo, contavo sull'ultima mano per trionfare, sottrarlo a Dio e farlo mio in eterno. Con solennità di guerriero mi preparavo all'ultimo duello, spiandolo in attesa del trapasso.
Nei suoi ultimi giorni ritornò alla Porziuncola. Avvertendo la fine prossima, Francesco volle esser deposto nudo sulla nuda terra. Immediatamente gli svolazzai accanto con lo sventaglio metallico e fragoroso delle mie ali di pipistrello.
Ero sicuro di fare il colpo. L'avrei incassata. Nel momento della morte puntavo sull'amarezza di Francesco, sulla sua delusione, il suo scoraggiamento.
«Svegliati, locco!» sibilai da serpente che sono. «T'hanno imbrogliato su tutta la linea. La tua Regola se la sono messa sotto i piedi: invece del Vangelo una vita monastica, invece delle relazioni fraterne quelle gerarchiche. T'ha propugnato una bella violenza la Chiesa di Roma. Non vedi intorno a te gli sguardi serpini? Sei stato tradito dai tuoi stessi figli. Ma ti offro una grande vendetta. Vieni da me! Farò di te il re dell'inferno. Non ti voglio per tormentarti, noi regneremo insieme.»
Lui, moribondo, mi rifilò una pernacchia.
«Ma chiudi quel forno, Diavolicchio. Quanto sei stupido! Mi offri ciò che ho dato la vita per rifiutare? Non a caso regni sul buio, non capisci una fava.»
E mi rideva sul muso, quello storno, ma piano, per la ferita al costato. Poi, non pago, mi sferrò il fendente mortale.
«Sai, demonio, tu non mi turbi. Mi annoi!»
Intollerabile ingiuria, affronto esiziale! Annoiare?! Io?! Il Tentatore?!
Esplosi. Ne avevo piene le scatole.
«Noioso, io? Il dio dell'imprevisto?» In preda alla furia dimenticai ogni strategia. «Hai perso! Hai perso! Non ti fanno manco rivedere Chiara!»
Mi ostinavo, nonostante stessi retrocedendo nella diatriba.
Che dolore per lui, scommettevo, morire senza stringere la mano di Chiara! Bei tempi, eh, quando lui e i fratelli visitavano liberamente le Povere Dame. Secondo le nuove regole volute dall'alto, che Francesco aveva dovuto inserire nella Bollata, era proibito ai fratelli andare a San Damiano senza un permesso concesso dal vescovado e le sanzioni erano rigide in caso di trasgressione.
Mancai il colpo. Francesco s'illuminò.
«Sei cieco? Ma non la vedi? Essa è qui.» M'indicò l'aria, il cielo sfumante nel tramonto autunnale. «Noi siamo sempre insieme.»
Avevo perso la sfida.
Francesco pretese che i frati intonassero il suo Cantico e venne Frate Jacopa dei Settesoli, portando i mostaccioli e il panno cinerino da lui richiesti. Voleva morire nel giubilo, cantando, lieto e spensierato come le allodole sue sorelle.
Potete immaginare quanto fossi scontento.
Pazienza che il santo non avesse dato retta alla mia estrema tentazione. Ci avevo provato, da giocatore oculato avevo lanciato i dadi un'ultima volta, perdendo.
Ma quella fine in musica e letizia e dolci, quella gioia in Dio di Francesco e Chiara e dei compagni, non potevo sopportarla.
Dovevo metterci fine.
L'ultimo scacco.
Quando le sue cattiverie non bastano, Satana ricorre agli uomini.
In un balzo fui a Roma, sul collo del Cardinale Ugolino, e gli sibilai dolcemente.
«Signor Cardinale, siamo sulla stessa barca. Tu ti vuoi impadronire dell'eredità spirituale di Francesco e rifarla a tua immagine, sfruttando la sua fama. Quel frate ti serve. Ma ti serve santo! Invece sta morendo molto male, non fa i vostri interessi, sta dando scandalo. Quello vi muore da gaudente, nudo, con donne accanto... e ha pure chiesto i dolci! E cantano a tutto spiano, un canto smodato che sveglia la valle. Che dirà la gente, quando vi farete belli nel suo nome? Sei ancora in tempo a impedire questa farsa! La Chiesa te ne sarà molto grata. Magari è la volta che ti eleggono Papa. Potrei aiutarti, ho molti agganci. Sai, ho dato una mano anche al tuo predecessore. Sapessi come se la spassa, ora, all'inferno, croccante a puntino. Mica è vero che c'è il contrappasso. Tribolano solo i deboli, come sulla terra. Beh? Allora?»
Ugolino non mosse un dito.
Lo rimpiango ancora oggi e maledico quella bastarda mietitrice.
Esattamente. Maledico la morte.
Mi sottrasse l'anima più lucente e gagliarda tra i miei nemici.
Nessuno parla mai dell'ultimo miracolo compiuto da Francesco: quando spirò riuscì a far piangere pure il diavolo.
Un anno dopo la morte di Francesco, anche per certe sue relazioni e certi suoi patteggiamenti col sottosuolo, il Cardinale Ugolino venne proclamato Papa e adottò il nome di Gregorio IX. Francesco fu innalzato a santo per direttissima. Il pontefice non badò a spese. Alla cerimonia, l'anno successivo, furono invitati dignitari della Chiesa, principi e baroni. Gregorio tolse il corpo dalla Chiesa di San Giorgio, sua temporanea sepoltura, e gli fece erigere, con l'avallo e la consulenza di Frate Elia, una chiesa sfarzosa, una basilica, che arricchì con sacri donativi e ornamenti preziosissimi.
Ad essa il pontefice inviò una croce d'oro con incastonata una reliquia del legno della Croce e molti splendidi parati sacri guarniti di gemme e dichiarò Francesco Capo e Madre dell'Ordine dei frati minori.
Francesco fu seppellito sotto la ricchezza. La Chiesa aveva voluto mettergli una pietra sopra.
Ma c'era Chiara...
Già, rimaneva quell'altra...
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