Dolci ombre
Lo so, sarà un papiro, sarà lunghissima, me ne pento e me ne dolgo, potete uccidermi benissimo, ma mi piace anche trattare di Elia 🌝è interessante ok? E la sua relazione con Francesco, i loro alti e bassi, altrettanto. Sul turbamento interiore di Francesco nella parentesi finale della sua esistenza invece vi ho già parlato. Personalmente credo che accusasse un po' un miscuglio di tutto, tra malattie e delusioni e incomprensioni, l'Ordine che non era più quello ch'era stato... e trovava conforto nella solitudine, nella preghiera, nei boschi.
Godetevela oppure, se la lunghezza vi scoccia, saltatela pure🤣fate voi. Stessa scelta linguistica della storiella del presepe! Vi avviso!
Frate Sole, bellu et radiante cum grande splendore, 'sto pomeriggio effonde i suoi raggi dorati sulle colline d'Assisi, annebbiate d'ulivi e barlumi argentati, addobbate a festa coi ritti, solenni e impettiti cipressi, punte di lancia ferenti le insanguinate, brillanti macchie de papaveri. Il grano ondeggia al vento et lo vento, frate vento, gagliardo e spiritoso, giocherellone e frizzantino, mormora tra le fronde.
Onne criatura s'intreccia co' l'altra, irradia la su' energia, la su' potenza, la su' formidabile essenza vitale in una ragnatela di storie e passioni. Prende, lega, si scioglie, s'ingarbuglia, salta, s'espande, scambia, succhia, passa.
A Francesco, oggi disteso sull'erba all'ombra d'una magnolia, sorge quasi un canto di lode. Gli verrebbe da catapultarlo nelle profondità sterminate del cielo, una strofa d'amore pe' Domine Dio. Il suo pensiero è una stella che arde. Il suo corpo, sebbene leggermente acciaccato dalle recenti, ma sorpassate, febbri, è fresco di forze. Guarda la festa dei colori. Il rosa tenero, piccino, delicato e rarefatto dei petali, la gradazione delle sfumature, sbiadite, imbiancate, in prossimità delle punte.
Gli sembra d'afferrare per la prima volta le voci e lo silentium e li odori, rapirli e collezionarli sugli scaffali della mente, custoditi come preziose memorie.
Non ha nulla da dimenticare. In questi ritagli de solitudine fraternizza con la totalità dell'esistenza, 'l su' mistero viscerale. L'estate spennella in gangheri variopinti, sprizza acqua e luce, dipinge in tinte forti e d'aggressivo calore.
Vive, respira, infuso della linfa dell'Eternità, cullato nel suo abbraccio.
Assapora gioia e stupore. Il venticello che move le herbe gli bacia lo corpo co' mille bocche. Affonda nell'abbandono. Dissolto, aderisce alla quiete luminosa. Non sa più nulla di lui medesimo, del viavai, de quest'ora. Gli piace 'sto oblio muschioso.
«Zio?»
Infiammato dalla presenza de li pueri d'Assisi, suoi nipoti presenti all'appello.
L'ombra è tagliuzzata dai rami, coriandoli e frammenti d'oscurità tritati dalle fauci del giorno. Si scompongono su di lui, sulla sua figura appisolata sulle radici.
Francesco solleva una palpebra, arricciando un sorrisetto da brigante. «Sì?»
Giovannetto, imitato dalla masnada comprendente su' fratello, Masino, 'l figliolo del Crispino, Rebecca, Meo, Riccardo e una dozzina d'altri, sbocconcela lu pane ricevuto in uno slancio di caritade dal fornaio, quanno l'erano 'nco' intra Assisi, nelle viuzze e nei vicoletti, e vedendo transitare il rinomato Sanctarello cittadino ha elargito 'sta generosa e insolita donazione. Stravaccati un po' dove capita, chi sull'erba, chi sulle radici aggrovigliate e ritorte d'un ulivo, chi dondolante placidamente sull'anniscola, sull'altalena, annodata al leccio, i parguli si sbaffano la merenda.
Giovannetto e la su' aureola di riccioli biondi, contornati di bagliori e riflessi, incombono sopra di lui, oscurando Frate Sole.
«Te garba la mojica?»
Sta' a domanna' fatti insignificanti, trascurabili. Dettagli marginali pe' un adulto.
Un adulto, appunto. Ma Francesco se trova a suo agio più tra li mammoli e li infanti e i loro tartagliamenti, le loro buffe matasse di paroline insensate e i loro giochi che tra gli adulti, che se impantanano co' giri mentali assurdi e preoccupationi illogiche, tirate all'estremo, affannandosi inutilmente. I piccini sono l'immagine della reale, sincera, granitica fede, nella loro minuscole proporzioni s'incarnò Nostro Signore. Il bambino crede fermamente nella versione propinata dall'adulto che se cura de lui, s'appropria de quella versione, la rende tucto lo su' mondu. Cede la su' fiducia, la su' sperantia, i suoi sogni, al genitore, fissando incantato una candela, como se nella fiammella fosse contenuta l'estrema felicità.
La fiamma della luce divina.
Francesco s'alza, sgranchendosi i muscoli atrofizzati dall'immobilità.
«È bona como tucto 'l pane Giovannetto, perché creata dal Signore.» Pane e ricompensa, banchetto degli eletti, corpo suo condiviso co' chiunque. «Il pane è un elemento molto caro a Dio, il più umile, vile, terreno... e primo nutrimento.»
«Iesu l'è un pane!» esclama Piccardo, briciole e pastrugni d'impasto intorno alla bocca. «Pane de vita!»
«Esatto!» Francesco si stupisce spesso della sua intelligenza. Gli ruba 'l posto accanto, scarruffandogli i capelli. «Siete scaltri voi piccolini.»
«Scaltri e boni.» soggiunge Piccardo, masticando la merenda.
«Ovvio!»
Masino, 'l su' pane divorato in bocconi famelici, lo assalta, piombandogli sulle ginocchia. «Como lu porcu!»
Fratello Porcello! Grufolante e ciccio, la base della dieta di innumerevoli.
«In Oriente no lo magnano lo porco.» lo informa Francesco, riesumando i ricordi de su' peregrinatio in Terra Sancta e in Egitto, tra le schiere crociate e alla corte dell'insigne, nobile e valoroso Soldano.
«Perché?» Masino l'è colto alla sprovvista. «No se pote?»
Era vietato, considerato un animale impuro e immeritevole d'adornare le tavolate de li Iudei e de li Saracini.
«Porta scomunicatione.»
Rebecca, la piccina bionda, cova su' dubbi sull'esclusione del porcello dalle mense e si sporge a sussurrarli all'orecchio del Meo, appropinquandosi sulla roccia dove sta seduto a consumare 'l lauto pasto.
«Come lo sa?»
«Pefforza!» le acclara immantinente Masino, occhieggiando lo zio dei su' amici con fare complice. «A Francesco nostro le piace magna'! Mica l'è cusì?»
Piovono risatine da onne dove tra li pueri, anco da Francesco. Pizzica quella peste del Masino sul mento, ricavandone 'n sorriso giocoso. Ritrovarse 'na tavola apparecchiata e 'rcutinata alla sera è motivo di letizia e magno gaudio, Fratello Stomaco si sente appagato, lo corpo si rinforza pe' torna' a lavorare o marciare o riprendere nella sua consueta attività. Nell'ultimo periodo, però, l'appetito gli sta venendo meno, vuoi per la situazione critica e nefasta attraversara dall'Ordine, vuoi per le infermitade, tra febbri e tossi che da sporadiche se sono 'nfittite.
«Il nutrimento, il cibo e l'acqua so' doni dell'Altissimo, onnipotente, bon Signore Deo.»
Ciò non accontenta Piccardo e la sua curiosità. «Ma como fanno sanza lu porcu?»
La carne, nella cucina de li seguaci de Macometto, era infilzata su 'no spiedo verticale, in un grosso cilindro co', alla sommità, fette de grasso che, sciogliendosi e colando, impedivano che la carne s'abbrustolisse e bruciasse. Poi la tagliavano e servivano i tranci de carne avvolti in queste focacce condite co' sostanze, herbe, oli, salse, spezie e una gamma di varietà coltivate, essiccate o spalmate.
«Magnano 'l pane, condito co' erbe, olio, spezie, cannella e agnello.»
«E che sapore c'ha?»
Francesco l'ha provato in Oriente 'sta riproposizione originale dell'agnello arrotolato nel fodero umido e piatto, tipo 'na piadina emiliana, del pane. Scatenava intra lo palato una miriade di sensazioni. Non era malaccio.
«Quello d'una spugna mollicosa, piccante a volte.»
«Davvero?» inquisisce Piccardo, voglioso d'assaggiarlo mo'. «L'hai provato?»
Batte colpetti divertiti sulla spalla del nipotino. «Sì.»
«T'è garbato? L'era bono?»
Molto bono, ripete, niente affatto malaccio. La commistione di sapori diversi e gli accostamenti stravaganti che s'urtano e cozzano sulla lingua può scombussolare un poco all'inizio, ma ci si prende l'abitudine.
«Era avvoltolato, co' intra 'n trancio d'agnello.»
«Li magnerà lo imperatore in Sicilia!» Giovannetto balza loro innanço, uno scalpitante cerbiatto. «Dicono che adori li Saracini e i loro costumi.»
Federico, lo Stupore de lo Mondo, Puer Apulie mica più tanto puer e picciolo, blandito dalle reminiscenze arabeggianti che mai se so' trasferite da lo suo reame, poliedrico e studioso, poliglotta, erudito e, pe' isto, en contrasto co' la Sancta Chiesa.
Un personaggio a tucto tondo, sfaccettato, calamita pe' tanti sudditi.
«Giochiamo adesso!»
Giovannetto, sepolto il discorso, se lassa trasporta' dalla bellezza del pomeriggio, un pomeriggio completamente a loro disposizione, da riempire e colorare. Acciuffa la mano dello zio, sollecitandolo a levarsi 'n pedi.
«Sì!» Rebecca l'è accattivata. «A nascondinu!»
I pani ridotti a briciole, l'eccitazione galoppante nelle vene, i suoi piccoli amici balzano giù dai confortevoli posticini, accalcandosi intorno a Francesco.
Piccardo ha deciso a nome de tucti chi ricoprirà 'l ruolo de cercatore.
«Mi' zio sta a conta'!» Lo indica, guidando una marea d'oculi nella su' direzione.
«Io?» In parte se l'aspettava.
Su' nipote, da bimbo educato e rispettoso qual'è stato cresciuto, abbassa lo sguardo e si torce le mani, imbarazzato dalla svista. Nun gliel'ha dimandato.
«Lo voi zio?»
Non è la prima volta che l'eleggono cacciatore dei nascosti. Ai piccoli deve garbare venire acchiappati dal Sanctarello 'n persona, spoglio dell'aura de sanctidate gloriosa di cui l'investono. Almeno loro non lo riveriscono o incensano o non si spaccano in partiti litigiosi, strepitando di norme e regolamenti.
«Ne sarei onorato!»
Pe' Giovannetto l'è como se gl'avessero ditto via. «Allora conta!»
Francesco s'apposta al tronco della magnolia, invecchiato e crepato in lamine e commessure rigogliose de muschio, chiudendo li oculi, iniziando il conteggio.
«Uno, due...»
Le risate si disperdono nel tramestio di passi, nel trambusto di rametti spezzati e fruscii d'erba, del gemito di rami provati dal peso.
Gli affiora un sorriso. Se stanno a movere 'sti lestofanti.
«Pronti o no, ve stanerò!»
Li stana, celati tra le fronde, nei cespugli, dietro le sporgenze rocciose. I piccoli tentano di scappare, di raggiungere la casa segnata simbolicamente al tronco, toccandola e salvandosi. Alcuni, como 'n diversivo, assaltano Francesco, zompandogli addossu, attaccandolo in un fiorire di risate e trilli, balsamo all'udito. Soverchiato dichiara resa, capitolando 'n terra, cascando sotto la micidiale minaccia de lo solletico, ditine insidianti ogni punto debole.
Se spormona de fiato, ridendo a crepapelle, como 'n mattu.
«Calmi! Calmi!» Resistere è vano, contorcersi sull'erba, sporcandosi di terriccio, l'è 'naltro conto. Spompato, gli riesce a malapena de rizzarsi seduto 'n terra, massaggiandosi la spina dorsale ammaccata. «Zitti 'n po' che me dorgu l'ossa!»
«Se!» Masino, ansimante, non ce crede. «Cesco senti 'n po'.»
Te sfilano 'n sacco de domanne anco, curiosissimi e vivaci.
«Dimmi Masino.»
«Sorella Chiara... l'è la tu' ganza?»
La sua fidanzata? Fraintendimento comune, le comari d'Assisi c'hanno lucrato su pettegolezzi e malelingue, soprattutto a li tempi de la loro ioventude, quann'erano sementi svolazzanti nell'etere ricongiunti da Dio nel giardino del su' amore. La ragazzetta dello Scifi e 'l figliolo del Bernardone, che se fregano delle differenze e delle incomprensioni di classe e nutrono un'amicizia lontana dal chiasso e da frastuoni urbani, nell'incontaminata natura campestre.
E mo'? Che so' fratelli nello spirito? Fiamme alimentate dall'amore e scoppiettanti de oratione e de predicatione?
«La mi' che?» ride Francesco colpito da tanta baldanza e audacia a porgli 'na domanna ch'altri avrebbero giudicato scabrosa per un paventato santo. «Spiritualmente Masino, spiritualmente lei l'è parte de lu core mio, un pezzo di me, frammento della mi' anima.»
Se la sorbisce a metà Masino, soppessando il lato paesano della vicenda. Il lato foraggiato da consessi al lavatoio, al pozzo, tra le bancarelle e le compere del mercato e le fessure delle imposte. L'epidemia del pettegolezzo.
Quale ciudade o contrada l'è immune?
«Siete 'nnamorati come dicono 'n paese?» pone, occhietti luccicanti de malizia.
L'amore che lo ritempra, lo punge, lo soqquadra, corrodendogli il guscio delle paure e dei vizi como fiele. L'amore curante onne male, pretioso et humile.
«Di Dio e delle anime.»
L'era quello che 'l figliolo del Crispino voleva sentisse dire. «Cuse 'mportanti, alte.»
Alte suona riduttivo eppure, ora, straordinariamente calzante.
«Molto alte Masino!»
Vorrebbe, adesso che l'ha accarezzato 'l pensiero, ncontra' gli occhi ridenti di Chiara e la soavità dei suoi pensieri. Il suo sguardo e quello della su' pianticella, su' meraviglia, su' primogenita e capolavoro, s'incontrano pe' 'n attimo, fondendosi tra cielo e terra. Che gioia prova in onne fibra, quale spensieratezza lo inonda! Non vive più in questo mondo, Francesco. La luce del sole è tucta ferma su li prati gemmati della loro primavera, la dolce alcova dell'idillio tra lui e Chiara.
Un sorriso solo dice più di tante parole.
Rimembra un passato annato, volatilizzato, sepolto nelle vestigia dell'esistenza rinnegata, appassita, da cui l'è sgusciato via, como 'n serpente co' la muta.
L'amicizia loro l'era un bocciolo appena dischiuso al bacio del sole.
Una rinnovata alba scaturiva intra lo core del figliolo del mercante e, all'epoca, si dilettava 'nco' co' li suoi amici, a far baldoria e bisboccia. Lazzi rari, ch'andavano diradandosi, preferendo confidare i tumulti dell'animo alla bionda, abbagliante seconda nata 'n casa Scifi, maestra nell'arte delle fughe raminghe.
Da qualche tempo cominciava a 'nnamorarse di Chiara, ma non nell'accezione carnale e pulsante. Amava la pura limpidezza della sua anima, li su occhi rugiadosi, la dolcezza della sua carità. Nei sogni le afferrava la mano e correva con lei nei sentieri, nei campi, lungo le rotte dell'eternità divina. Aveva, Francesco, da buona prole di madre francese, imparato a suonare la mandola. Quasi ogni pomeriggio, quanno non scampagnvano ne li campi, all'insaputa dei suoi parenti, compariva sotto la finestra di Chiara a cantare per lei dolci madrigali o a proporle quali brani avrebbero allietato, secondo il su' parere, i piccoli del lebbrosario.
Chiara a stento s'affacciava. La balia era tassativa e lei si guardava bene da farsi beccare da qualche passante longo la via, ma Francesco sapeva ch'ascoltava, rapita, ogni nota. Il canto permetteva che le loro corde s'intonassero, abbracciandosi in una favola, mentre un vento di stelle vespertine soffiava in pigri sbuffi.
Era - è - una fiamma il loro cuore unito. Arde nel cielo di un ignoto altrove. E se stesso ripete all'infinito, in una spirale d'estasi, nell'incanto che esalta e che pur tormenta.
L'amore bifronte.
Di Chiara adorava e adora li suoi oculi ombreggiati dalle lunghe ciglia, la semplicità, la sincerità, la dolcezza dei pensieri, il mare di poesia che culla nel cuore. Pronunciava spesso, Francesco, viandante nella conversione, il cuore mutante, tra sè e sè il suo nome, chiuso nell'intimità nella su' stanza. Lo pronunciava per provare la più dolce delle morti, la più radiosa delle resurrezioni.
I suoi amici - Pietro Cattani, Bernardo di Quintavalle, Angelo, Silvestro, Elia - erano già scesi 'n strada, quella mattina lontana. Su' fratello l'aveva chiamato, urlando 'l su' nome, lamentandosi del su' ritardo, suscitando 'na ridda de risate e gozzoviglie, giovani ardimentosi d'Assisi più chiassosi che mai. Ridevano e suonavano la mandola o 'l liuto. Cantavano stornelli frizzanti di colori, madrigali che se schiudevano a distese di stelle, strambotti dalle note di seta. Angelo aveva domannato a Francesco de cantare, insistente, adducendo che nessuno 'n Assisi possedeva 'na voce intonata e bella como la sua. E Francesco, ubbidiente, aveva cantato, mascherando con un nome cortese la bellezza di Chiara e di quella donna misteriosa e vestita di stracci del suo sogno a Spoleto e le armonie che si afferrravano per liquefarsi in dolcezze.
Al passaggio della sgangherata compagnia le madonne d'Assisi s'erano adunate in capannelli, le occhiate rivolte e furtive allo scapestrato primogenito del mercante.
«Quillu.» Additando discrete a Francesco. «L'è un cavallu sturnu, mancu lu patre ce la 'ppoe.» Quello è un cavallo storno, neanche il padre riesce a controllarlo.
Il cavallo storno, in questo caso, l'era - e rimane, nel dialetto - 'na figura affiancata a un figlio molto vivace, scalpitante, fonte di grattacapi e angosce.
Allontanandosi co' una scusa dalla banda di sodali, Francesco si era appartato all'ombra del balconcino traboccante di fiori di lei, nel retro poco frequentato del palazzo degli Scifi, una melodia struggente sprigionata dalle corde pizzicate, carezzate co' la tenerezza sacra d'un amante.
Il buon vecchio Bertran de Born e il suo bellicoso, tempestoso piacere della guerra!
«Molto mi piace la lieta stagione di primavera che fa spuntar foglie e fiori, e mi piace quando odo la festa degli uccelli che fan risuonare il loro canto pel bosco, e mi piace quando vedo su pei prati tende e padiglioni rizzati, ed ho grande allegrezza quando per la campagna vedo a schiera cavalieri e cavalli armati...»
Imposte intarsiate sganciate e la chioma dorata era rifulsa al sole, fino oro cesellato in quei viluppi di boccoli acconciati con violette e ranuncoli.
«Ma che ci fai qui?!»
Chiara Scifi al massimo della sua adolescenziale fioritura, leggermente piccata dall'intrusione dell'amico sì vicino a lei, sprezzante del rischio di venire colto in flagrante e, di quella spavalderia, subirne ripercussioni. E lei 'nsieme.
«M'esercito a comporre e strimpellare.» aveva risposto candidamente Francesco.
«Ti conviene farlo altrove.» Chiara s'era rimirata attorno, allarmata. «Se te beccano mi' zio ti fracassa a suon de mazzate.»
Francesco serbava già lo stratagemma pe' levarsi dall'impiccio, rassicurandola co' 'n sorriso ammaliante. «Li assorderò stonando su qualche nota.»
Chiara, in accordo ai suoi pronostici, l'era esplosa in una fragorosa risata, conficcando le unghie nel parapetto pe' non sbilanciarsi giù. Il suo riso illumina uno iorno tetro, riporta 'l sereno en onne circostanza.
«Ah eccolo il timido risolino!» Francesco era stato contento d'aver ridestato. «Cominciavo a chiedermi dove l'avessi cacciato.»
Chetato lo sbotto, ancora lacrimante per l'ardore, Chiara aveva ripreso controllo.
«Vuoi dedicarla a li nostri amici?»
A chi altri sennò? A loro, a lei, rosa candida, giglio aulente delle aiuole d'Assisi, e alla dama misteriosa e indigente popolante i suoi sogni. «La musica alleggerisce la preghiera, la sospinge direttamente a Dio.»
«La musica è una preghiera Francesco. Preghiera e medicina.»
«Non guarirà le angustie de lo corpo, ma lenirà le scorticature dell'anima.»
Il sorriso di Chiara s'era stemperato in una mezzaluna d'orgoglio, quel tipo di sorriso velatamente accennato di certe mamme quanno so' fiere dei traguardi tagliati dai loro figlioli indipendenti. «Esatto.»
«Chiara!» Il vocione roboante della balia, dall'interno, li aveva fatti trasecolare. «Il bagno l'è prontu!» La sua pupilla s'era voltata 'n attimo. «Chiara!»
Il dovere, inorpellarsi per diveni' vetrina d'esposizione della reputazione e ricchezza del casato, chiamava. Francesco non l'avrebbe trattenuta oltre.
«Devo anna'.»
«Domani al solito posto?»
Lei s'era attorcigliata una ciocca intorno al dito, atteggiandosi malandrina. «Esclusi contrattempi denominati parenti e spasimanti... contaci.»
«Chiara!» Annetta e i suoi appelli rimbombavano fino in strada, ricercanti la ragazza. «L'acqua non resterà calda in eterno! Chiara!»
Una strizzata d'occhio di congedo all'amico musico segreto, materiale di succulenti racconti su liason e tresche in altro caso maggiormente profano, e s'era slanciata dentro, sbarrando le imposte, Francesco e il suo istrumento soli pe' la via.
«Arrivo!»
Rivivendolo mo', a distanza d'anni, Francesco percepisce che nulla mai di profano, di terreno, di carnale e peccaminoso s'è mai intromesso tra lui e Chiara. Il loro legame si libra immacolato, leggiadro, sospinto dalla brezza di Dio como 'n piumoso ombrellino del soffione volteggiante nei capricci di Frate Vento.
Si librano leggeri, sgravati dalle concezioni mortali, trucioli d'astri e forzieri di storie, ricamanti eterei, infiniti, voli d'angeli.
Quei due sfrontati ragazzini rigettanti le insulse, cave, comodità del mondo.
Quei due piccoli, scalmanati ribelli.
«Cuse 'mportanti Masino.» ribadisce Francesco commosso, fisso sull'azzurro sperduto del cielo. «Estremamente 'mportanti.»
Riaccompagna i piccini a casa, cala l'imbrunire fiammeggiante, bava incandescente d'un drago muscoloso di nuvole, e il campo l'è tucto a su' disposizione.
Francesco decide di non rincasare alla Porziuncola, non stasera.
Non se la sente.
La nocte ha il respiro di un bambino e scintilla l'argento. La bellezza, con il soffio delle erbe umide e il palpito delle stelle, lo circonda da ogni lato, un smisurato abbraccio.
Essa fa sì che torni a essere lo iullare della corte de li sogni.
Onne cosa emana oratione, onne essere promana vita como la fiamma promana ondate di calore. Scalpita e nuota e corre e vola. S'aggira sanza una destinazione precisa, semplicemente li su' pedi avvertono la necessità di vagare, de calcare sassi e affondare nell'erba che s'inchina a li sbuffi de lo vento, di immergersi negli spruzzi del ruscello mugghiante, i suoi scrosci singhiozzi, e di sollevare polvere.
Deve sgomberare la mente, conciliare i pensieri, e il chiasso pleno de contestazioni e derisioni e baruffe della Porziuncola non l'è l'ideale.
I suoi fratelli divisi...
Stavano vivendo giorni meravigliosi, inesprimibili, intinti nella luce. Ovunque gravitava l'essenza di Dio e germogliavano vocazioni profumate, cucendo le rose delle letizia con le pruriginose foglie d'ortica della sofferenza spartita con i fratelli deboli, reietti, lebbrosi e diseredati. Gli parlavano di Lui tutte le criature, como 'n quadro, una miniatura, uno specchio dal riflesso moltiplicato, centuplicato.
Di Lui gli esondava il cuore, collassante d'amore, subissato dalla cascata.
Ma oggi, l'Ordine vessato e le intenzioni colanti a picco...
Che cosa accade?
«Dio della dolcezza e della gioia.» priega Francesco, engenocchiato nei prati irrorati d'umidità, il fiato cristallino della sera. «Tu stai aprendo agli occhi dell'alma mia invisibili, millenarie porte. Tu stai dipanando per me - con tenerezza d'amore - le misteriose foreste degli intrecci de lu mundu. lo sosto sulle sponde del fiume. Ascolto le note del tuo summo silenzio e l'inesprimibile della mia meraviglia.»
Signore, Segnor delle cime e delle pendici, delle spiagge de arena blancha e degli speroni de roccia scura, dell'immenso e dell'impercettibile, alchimista distillante la sofferenza in esaltazione, mentre spalanca lo core de lui, suo servo, alla gioia, gli sussurra - e Francesco ascolta, ascolta la voce del vento cantare - che da sempre fa comunicare l'immobilità e il volo, il lampo di luce e il buio. Sussurra - nel gemito dei torrenti - che tutte le cose parlano, ma uno è il linguaggio. Nasce alle radici della vita, sbocciando fragrante all'aurora de li iorni, e raggiunge l'alma che aude.
Ciò che dice l'homo lo ripete il vento, lo garrisce la rondine, lo stormisce la foglia, lo canta la stella, lo recita il fiore, lo mormora l'ombra, lo grida il sole perforando co' le sue lame sfolgoranti. Un ritornello, un passaparola, un sistema nervoso e capillare di ansimi di vita, echeggiante d'amore, riverberante come uno schizzo sull'acqua.
Ogni parola detta o taciuta si tuffa, vola, corre, nuota, salta, danza, ride, si abbraccia, si cela, si manifesta, si abbandona dove brilla un'armonia, si scioglie in carezza dove cade una lacrima, si apre in un fiore.
Uno è il linguaggio.
Dio dell'azzurro delirio e della divina pace, Dio delle moltitudini e delle ristrettezze, Dio de li homini e de le femine, oggi fa sentire che tutto ciò che è nato dal suo sancto pensiero vole raggiungere il silenzio religioso di Francesco per penetrarlo, assorbirlo, impadronirsene e donargli l'ineffabile suo divino, la sua pace suave.
Sarà 'n verso d'alba, una rima de poeta, il punto d'incontro. E lauderà il su' Signore.
Uno l'e 'l linguaggio che permette le intese nate dagli incontri attenti, da più ali in volo, dall'amore. Tante le voci, ma uno solo il linguaggio che crea il filo d'Arianna per uscire dai labirinti eretti dagli schemi e dai ritmi snervanti della vita.
Una pregione forgiata co' le loro proprie mani, una fortezza de solitudine.
Francesco è evaso da quella pregione, ha alzato la voce contro il suo carceriere, che non l'era mica su' babbo, la su' condotta da smargiasso cortese e gaudente, spendaccione e ribaldo. Non l'era manco il suo estato sociale.
Pecunia. Li soldi rappresentavano lo problema, la zizzania infetta da eradicare.
Le sbarre da spezzare.
Allora... allora perché gli pare, co' le critiche e le novità di possedimenti e case e cultura superba... perché gli pare a Francesco d'essere stato scaraventato de novo 'n galera? Lui e i suoi confratelli.
Pregioneri delle asettiche, istituzionali convenienze di Roma.
«Signore degli universi.» intona e una folata sfavillante di stelle e sciami di lucciole scompiglia i cipressi ordinati in filari. «Solo li homini se ribellano, alle volte, alla tua voce incisa nella loro anima, impressa como 'no stampo. Tucte le altre criature te obbediscono con gioia. Come mai mio Signore? Come mai?»
È una risposta silente, mistica.
La notte guadagna terreno. I vapori vermigli del tramonto s'incupiscono, sopravvinti dall'oscurità cosparsa d'un pulviscolo di stelle e ricami di costellazioni.
Nel Creato non esiste la separatione. Non c'è l'esilio. Non appaiono isole sommerse. Non c'è segreto. Non campa la solitudine. Omnes so' legati, concatenati d'una rete tesa all'amore, epicentro 'nfocato della felicità.
Dentro la vita nessuno resta solo. Nessuno si perde. Tucti sono in ricerca perenne, apprendisti su un cammino scosceso, 'mpervio, irto de ostacoli e deviazioni. Dentro il mare aperto dell'esistenza nessuno si smarrisce, perduto.
Scintilla sempre 'l Richiamo che salva o la Risposta che s'adagia nella fiducia.
Como la luce de Frate Sole, faro pei peregrini, o lo specchio d'omne virtude de Sora Luna, lampati de la presentia, de la significatione dell'Altissimo.
C'è l'appuntamento finale, sulla soglia dell'Eternità, nell'abbraccio atteso e paterno che sa la letizia e scrive il messaggio de lo core humano per 'l Cielo.
Per scoprire il linguaggio universale dell'amore divino, l'alma deve diventare tutt'uno con la Grande Alma, quella Suprema de Domine Deo, quella che cognosce il gaudioso canto d'un silenzio magico.
Per ottenere ciò occorre la sensibilità che sa cogliere l'uno nel Tutto, il Tutto nell'Uno.
«Signore, io credo che tu mi abbia donato questa sensibilità.» Francesco spalanca le braccia, rivolto alla volta de stelle, clarite et pretiose et belle. Non gli serve una cattedrale o un'abitazione in muratura pe' orare meglio. Ha tutto l'indispensabile qui. Pilastri di tronchi, tappeti di muschio, altari di ruvida pietra, paramenti intessuti d'aria, affreschi d'astri e spiriti antichi. «Tu, Signore della gloria, hai creato 'na sola grande famiglia. E io vivo in 'sta famiglia. So' quindi fratello del sole, del focu, del vento, dell'acqua, de li monti, del mare, del filo d'herba, del fulmine, del fiore. E posso comunicare con ciascuna delle tue maraviglie.»
Le varie voci hanno un solo linguaggio.
Il gufo bubolante, il corvo gracchiante, il pipistrello stridente.
Le lucciole e la loro processione come sfere fatate.
Dio del suo cuore, padrone, padre, amante, Dio dalle mani bucate, straripanti fori d'amore, fluenti balsamo di rigenerazione - mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l'amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe son vampe di fuoco, una fiamma del Signore! Le grandi acque non possono spegnere l'amore, né i fiumi travolgerlo. Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell'amore, non ne avrebbe che dispregio - la commozione che Francesco prova, assalendolo in vampate ustionanti nello stringere e contemplare questa ineffabile verità, è tale che non sa come contenerla.
Gli altri non la capiscono.
I suoi fratelli non la capiscono.
I suoi figli...
Non è riuscito a comunicare co' loro.
Per comunicare, decide, laddove le parole hanno fallato, amerà.
Farà como sempre ha fatto: anteporre i gesti alle parole vane.
Renderà intenso il momento.
Uno è il linguaggio dell'amore...
Vive - in un balenio di luce e istante d'estasi - il volo gentile di un amor dilatato all'estremo, un paradossale, completo, appagante amore, in cui le voci e i silenzi s'incastonano nella libertà che tutto comprende per farsi gioia.
Gemme sul diadema della Creazione.
Francesco afferra le intese preziose e rare. Penetra nel mistero per leggere ciò che è chiaro, ma sembra non avere un alfabeto.
L'amore si parla esprimere a parole? No!
Ascolta Francesco, ascolta e aguzza l'orecchio: la simbiosi della su' alma co' tucto è tale, appassionata e naufraga, che riesce a tradurre il vento.
La brezza leggera de Deo, come scrisse 'l profeta Elia.
La nocte sovrana spadroneggia, le fenestre d'Assisi si rimpiccioliscono in puntini di candele e candelabri in lontananza, man mano che Francesco s'addentra nella vegetazione intricata del Subasio. Non rientrerà. Non stasera. Si preoccuperanno? Manderanno qualcheduno a cercarlo? Pazienza.
Non se la sente. Deve meditare. Deve sigillarsi nel silenzio della preghiera.
Confessarsi co' l suo Signore e sommo Re.
Il buio frastorna e confonde, occulta le strade e distorce le sicurezze dello iorno. La foresta appare sì diversa rispetto a prima. Insidiosa, perigliosa.
Francesco non ha paura. Dio l'è Dio anco de la nocte.
Candelaio de li astri nel cosmo.
Incede intra lo bosco, rami e rovi lo artigliano, ma si ostina a proseguire. Anela alla vicinanza di Dio e alla lontananza dalli homini como un assetato anela a un pozzo e una brocca d'acqua. Perché non 'ntendono lo linguaggio d'amore?
Perché?
«Dio, Dio del silenzioso divenire, Padre mio Onnipotente et Eterno, Dio che fai avvertire i mutamenti della natura anche al fluire del mi' sangue e leghi onne cosa all'altra con 'n invisibile abbraccio, ti amo.»
E gli altri? Gli altri lo amano come lui? È arroganza cogitarlo? Pretendono smaniosi regole e chiarimenti e si arrogano diritti como d'impartire lezioni, d'istruire i novellini con severità e disciplina e rigore, di comannare e tradire lo voto de povertade!
Che fine ha fatto l'amore materno? L'ammonimento di Francesco a curarsi del prossimo nelle vesti dolci d'una madre? Frati madri e frati figli. Aiudati, soccorsi, amati, amati, amati poiché 'na mamma ama! Ama co' le viscere e lo core e più de lo core! Co' trasporto e sentimento e... e... plenitude!
Sdolcinatezze melense pe' i novi.
«Signore.» mugugna Francesco nella selva, dimentico del tempo, della possibilità, seppur remota, d'un agguato di banditi. «Signore dei poveri, sapientia de li humili, altare di paglie e legno e pane e carne. Signore avente 'na mamma...»
Un pigolio lo distrae.
A terra, tra le radici nodose d'una quercia, l'è caduto un pulcino di corvo. Spennacchiato, roseo e raggrinzito, il beccuccio appuntito e le alucce moncherini impreparati al volo. La pietade lo branca. Sarà scivolato dal nido.
Fruga co' lo sguardo e... eccolo, il nido, nella biforcazione di due rami. Francesco salta, arrampicandosi sulla quercia, il piccolino nel cappuccio.
Lo ricolloca vicino alla su' mammina, nera e arcuata, gracchiante di gratitudo. Osserva i nidi. Gli movono tanta tenerezza quelle culle imbottite di piume e ramoscelli e canne sfilacciate e secche. Gli fanno tenerezza quei batuffoli di mamme ferme a trasmettere il loro calore alle minuscole uova.
«Dio, Dio che racchiudi in un guscio un'eternità di ali e voli. Ti amo.»
Non s'era accorto che fosse già l'alba.
Un tremulo drappo rosato dissolve le stelle e il loro luccichio argentino, fendendo caldo e femmineo le cupole delli arboli.
Francesco non ha dormito. Non ne sente la necessità, quanto meno fisica. La nocte è la raccolta di pensieri. Ha tentato di accalappiarli, distillandorli, di ammansirli, lobi oscuri ringhianti nella su' mente, ma non ci riesce. I misteri crescono, le domanne bussano co' forza, irrompono e non sloggiano finché non le considera.
A molte d'esse non tiene risposta.
Continua a vagare in lungo e in largo pe' 'l Subasio, tenendosi alla larga da presenze umane, anco li lebbrosi o i mendicanti amatissimi. Solo 'l Segnore, lui e li animali. Il silenzio e il brusio della natura forniranno le risposte che cerca.
Vero?
La mattina si trascina a una sorgente silvestre, il rombo lento della corrente, le cascatelle baldanzose e scroscianti, nel cuore della foresta. Francesco beve, mani a coppa. Nell'acqua, a sorpresa, scorge il riflesso d'un... d'un cervo?
«Benvenuto Fratello Cervo!»
Sulla sponda opposta il monarca del bosco ostenta il su' maestoso palco de corna, le pupille nere e lucide, lo vello brillante di bona salute. Francesco s'accosta discreto, l'ungulato non scappa, anci, tira 'n fori la lingua e raspa colli zoccoli, inumidendo le dita di Francesco, che lo accarezza sul muso vellutato.
«Te disseti maiestade de le bestie?»
Il cervo bramisce, uno sbuffo di frogie nel palmo.
Il pomeriggio l'è longo quanto la mattinata l'è stata corta. Francesco ignora i crampi della fame, lo stomaco brontolante. Non magna da ieri pomeriggio. Allo scoccare del mezzodì le campane d'Assisi rintoccano in un concerto mistico, squarciando la quiete, echi lontani, nella vallata verdeggiante, feconda e sancta, un fragore d'ali nelle piazzette e nelle terrazze, se lo figura, stormi 'n cielo.
Fratello Asino burlone!
La deve pianta' co' 'sti scherzi e le burle! Mangiare non è vitale, non adesso. Pigrone e scansafatiche il suo corpo, sempre illanguidito nel torpore delle febbri, sempre ad ammalarsi, como si lo facesse apposta, truffando, riversando la caritade che andrebbe devoluta ad altri su di sé! Se po' esse' cusì egocentrici e vanesi? Deve finirla d'ammalarsi e inculcarsi nella capoccia il mantra, il motto.
S'avanza. Costantemente. Predicare e sostentare è la missione che il Signore gli ha affidato e Francesco predicherà.
Fino al collasso, fino al logoramento totale. Non si prendono pause con Dio.
Ammette d'avvertire però una... una certa spossatezza. Leggera però! Si ferma all'ombra d'un olmo. Una famiglia di leprotti gli balzella incontro. Francesco li accarezza sui nasini frementi, le orecchiette soffici.
«Gradireste canta' meco le laudi del bon Signore fratellini?»
I leprotti non palesano segno di voler sloggiare. Contento, Francesco raccatta due bastoni, legando alle estremità d'uno un filo d'erba. Un archetto e la viola, musicanti note invisibili, de vento e spirto.
«Ave, vergene gaudente, madre de l'Onnipotente.» cantarella, suonando, un panegirico alla Donna Vestita di Sole, all'Arca della Nova Alleanza, Maria Sanctissima. «Lo Signore per maraveglade te feice madre figlia, rosa biamch e vermegla sovr'ogn'altro fiore aulente. Eravamo 'n perdimento per lo nostro fallimento: tu se' via de salvamento, chiara stella d'oriente. Stella se' sovra la luna, più resplende ke neuna: in te Cristo, virgo pura, incarnòe Dio vivente...»
Attratte, delle volpi escono dalle tane. Lobi, 'ncuriositi, discendono dai pendii, s'accucciano a li pedi de Francesco, docili como belve domestiche. Augelli s'appollaiano sui rami, rapiti, d'onne piumaggio e ispecie.
«Beata, ke credesti al messagio ke vedesti, lo saluto retinesti colla gratia fervente. Fosti l'eska et Cristo l'amo, per cui fo difiso Adamo; perké Eva prese el camo del freno ke fo talliente, si dignò per noi venire Iesù Cristo, nostro sire: volle morte sofferire per recomparar la gente...»
Francesco sfrega l'archetto d'erba sull'istromento de legno, evocando 'na musica immaginaria, colmando il silenzio solo col canto. Le note s'odono nella mente, prodotte dall'amore. Fratelli animali stanno attenti, sentono e custodiscono.
Como i pueri.
Scorda la fame, la stanchezza, soccombe alla melodia, trascinato lontano.
Perché solo gli adulti s'assordano per non capire?
La Regola definitiva non gli garba.
Al secondo - o terzo? - giorno di vagabondaggio, Assisi che, tra confratelli e pie donne - probabilmente serà 'n subbuglio per la su' sparitione, Francesco pondera su quella spina incastrata nel fianco, il suo cruccio maiore.
La Regola Bollata, la versione approvata dalla Curia.
Scevra della maternità, della caritade, dell'amore, delle virtude cardini d'un fraticello minore. Dello spirito originario, il motore di tucto.
Francesco sbadiglia, la lattiginosa striscia dell'aurora orlante il profilo degradante dei monti, e ci pensa, superstite da nottatacce di tormenti e pensieri como frecce acuminate. Sembra fatta di rami spogli, la novella Regola. È fredda come un campo d'inverno. In essa campeggia la volontà dura, aspra, d'ingozzarsi di realtà.
Tracannare la realtà cruda e mogia.
La Regola primera l'era un nido per passeri gioiosi, un rifugio per le allodole di Santa Maria degli Angeli cinguettanti orationi. Effondeva luce, propagava calore, vibrava entusiasmo, emanava estro e libertà e fanciullesca felicitas, respirava lo Cielo, godeva la rugiada perlacea dei pensieri, viveva la profonda humiltà, porgeva 'l sorriso che dà la sperantia, narrava il completo abbandono in Dio.
Quando l'ha compilata, dettandola, nell'eremo di Fonte Colombo, Leone suo scrivano, la vita era tutta in lui, lo attraversava, incendiandogli 'l core. Viveva 'l canto che consegna la libertà, mentre incatena dolcemente alle armonie de lo Cielo e della terra madre nostra. Non conosceva l'affanno, perché intra su' core palpitava amore puro, genuino, estatico. Annava pe' mille mila strade a predica' la Parola dell'Evangelo, il Signore gli stringeva la mano e lo proteggeva e gli donava la felicità ebbra.
Poi qualcosa s'è rotto, la letizia s'è offuscata, la serenità incrinata.
Le complicanze dello mondu so' 'ntrate nel loro, inquinandolo.
Hanno voluto... normalizzarsi.
Normalizzarsi in quest'anormale scelta de vita.
E Francesco ha dovuto scendere alla loro voluntade. Il suo ideale o scissioni interne, separazioni, proteste su proteste su proteste. Stroncare un sogno pe' sopravvivere. Concretizzarlo smorzando la severità.
Una pace comprata al posto d'una guerra.
Una pace in disaccordo coi tempi primeri. Una pace di agi e muratura e mollezze e sorveglianza e distacco dalle tribolationi dell'umanità.
Ai gorgoglii allo stomaco si susseguono fitte dolorose, accoltellanti il ventre. Non è il richiamo della fame, Fratello Asino a digiuno da giorni. È Sora 'nfirmitade, soggiogante anco la milza e 'l fegatu. Francesco s'engenocchia a respirare, un rivolo di sudore rigante la fronte. Corpo lamentoso, corpo ingordo! Se hanno fallito, 'nsieme, 'sto connubio di carne e spirto, la culpa l'è loro!
Loro, loro, tucta loro!
«Voi magna' dopo le nostre malefatte?» lo recrimina. «Seriamente?»
La nocte è un inferno de voci, Sora Luna percorrente archi sopra li oculi sbarrati e insonni di Francesco. Sussurri e ghigni di fallimento, di rovina, d'incapacità.
Hai fallito, fallito, fallito... si accapiglieranno sulle tu' spoglie, si sbraneranno e azzanneranno l'un l'altro como bracchi perché non ti sei saputo imporre...
Chi si impone sta' a comanna'! Francesco è... un novellus pazzus, como ama definirsi, l'ultimo, misero, esecrabile, zozzo pazzo della terra! Sbeffeggiato da omnes et omnes se ne burlano e lo prendono a sassate e...
... e lo osannano Sanctarello de la ciudade, lustro d'Assisi.
È stato matto, fratello, maestro, padre, figlio e adesso de novo matto. Troppo matto, ancorato al passato, pe' capire i cambiamenti in corso.
«Signore...» geme, piegandosi sulla terra e la polvere co' cui l'è 'mpastato su' corpicino, le fitte aumentanti, un sentore acre di nausea nel palato. «Signore, me so' speso in quel sacrificio per amore della pace, della concordia, volevo distendere le acrimonie tra i miei figlioli... m-ma perché l'è 'na pace cusì amara?»
Il vento non porta risposta.
I suoi fratelli d'allora, dell'inizio, avevano per modello Gesù. Essi - poveri, puri, umili, lieti - andavano 'ncontro a coloro che soffrivano ogni sorta de disagi e si facevano parola e gesto d'Amore. Non temevano nulla. Di nulla avevano bisogno. Si lasciavano condurre dallo Spirito. Vivevano l'ineffabile compiutezza che dona la grazia.
Si trascina sotto 'n ulivo, la sensazione di nausea montante in un conato che rigetta sull'erba smeraldina. Nubi s'ammassano, cariche di pioggia. I su' fratelli lo cercheranno anche sotto l'acquazzone? Fratello Acquazzone, il nubilo che scurisce lo cielo e rinfresca i raccolti, benedicendo la campagna! Comincia a bioiccica', a piovigginare, perline gocciolanti sulle foglioline d'ulivo.
Francesco corre sotto la pioggia, si monda del tanfo de vomito, ridacchiando al suo solletico, le lacrime mescolate ai rigagnoli, infradiciandosi il saio penzolante.
«T-Tu non hai bisogno d'una R-Regola...»
Oggi la Regola definitiva lo fa sentire vecchio, superato. Antiquato. È plena di parole che infieriscono brividi al su' core. Quasi nulla è rimasto in essa della primavera fiorita dei li suoi pensieri. Dove sono la sincerità, lo slancio, la passione dell'alma?
Le su' convinzioni sembrano essersi frantumate. Accusa sete de Dio, Francesco, como il terreno ha sete della pioggia. Ha sete della su' alma. Un vento impetuoso gli agita i pensieri per scolpirlo in angoscia, flagellandolo co' lembi del saio. S'incammina sotto il diluvio, canticchiando melodie nostalgiche. Cammina e non s'arresta nemmeno quanno l'acqua cessa e la nocte s'imbacucca di brume.
Le piante nude s'infangano, impronte nella melma limacciosa. Fratello Fango. Una scossa di brividi lo trapassa, se retrova a battere li denti.
Non è febbre, non può trattarsi di febbre.
Ma il prurito al naso e la gola 'nfiammata e...
«Etciù!»
S'asciuga il moccio sfruttando l'avambraccio, poco elegante, il cardinale Ugolino inorridirebbe disgustato. Ugolino. Benefattore di quell'abitazione dei frati a Bologna che, in una replica incresciosa della sfuriata d'Assisi, Francesco stava pe' demolire scagliando tegole, in preda alla collera nera.
Ugolino amico o nemico? M-Ma... come osa s-sfiorarlo lo malevolo pensiero? Si è prodigato pe' aiutarli, como ha aiutato Domenico a li tempi suoi, requiem aeternam dona ei Domine, patrono della loro comunità...
Però la comunella co' Elia, sodali pappa e ciccia...
È già spuntato Frate Sole, radiante et iocondo? No, perché sta cuocendo dal caldo, alternato a brividi raggelanti. Si riscalda strofinandosi le braccia.
Non è febbre! Non è assolutamente febbre!
«Etciù! Fradello Asino... pure quesda... etciù!»
Li oculi gli pizzicano, un bruciore intollerante alla luce. Tutti trucchetti dello su' corpo baro. Francesco se li sfrega e quelli gli paiono più gonfi, irritati.
Occhi che leggono a malapena, distinguendo con difficoltà le lettere, motivi sfocati e caotici, anco del manoscritto della Regola.
Questa Regola, il suo calvario.
Perché il Signore gli ha fatto vergare qualcosa in cui non crede?!
Improvvisamente lo coglie una paura 'ntensa, profonda. I contorni della vegetazione si disperdono, vaghi, imprecisi. Il bosco è un labirinto. Dovunque si volti, spasmodico, nervoso, Francesco si scontra con impenetrabili pareti d'arbusti.
«D-Dove sono?...»
Si è perso. Ha perso la rotta, quaggiù e nella realtà. Gli arboli si tendono como mostri terrificanti, scheletrici, ossa di legno scarnificate.
Ululano le polemiche, le voci dei suoi confratelli s'assommano, scalzandosi, sciuérte, disordinate, stridule, roche...
«No se pote pratica' l'Evangelo alla lettera!»
«Vuoi farci vivere como dei pezzenti?!»
«Semo 'n ordine religioso e riconosciuto! Non 'na cricca di malviventi!»
«Non sai di cosa parli!»
Francesco ha dato loro quello che volevano! Per la pace! La stabilità agognata, questa stabilità di fiele! Non ha fondato 'nstituzione, ma l'è diventata.
Un Ordo, una Religio.
Un'istituzione.
«M-Mi disbiace...» soffia su col naso, afflosciandosi al suolo, un derelitto sconfitto. «M-Mi...»
Vorrebbe annullare la sua ansia. Ma più ce cogita e più torna alle partenze, sempre a lui e alla sua pena. Nun riesce a riascoltarsi nella pace, all'interno un baccano, tempestosi turbamenti. Si consuma nel dolore Francesco.
«Dio, Dio de... li miei passi... e d-delle m-mi' domanne.» biascica roco, vertigini alla testa, la vista traballante. «P-Perdonami, resta con me.» lo supplica, contrito ai primi aneliti d'alba. «L-liberami da... questa n-nocte... che m'artiglia.... te priego...»
La su' poesia sfavillante piange in 'sto buio.
«D-Dio del perdono... perdonami!»
«F-Francesco?» Dio? È Lui che lo nomina stupito? Dio se stupisce? «Francesco! L'ho trovato! Venite! L'ho trovato! È qui! Qui!»
Non crede di reggere 'nco' pe' molto, la vista s'appanna, lo stomaco infligge fitte.
Il proprietario della voce nun se riconduce a Dio, bensì... a Leone?
Il viso bono et dolze della Pecorella del Signore s'avventa a raccoglierlo tra le braccia, gracile como 'n pizzulittu de legno. I ciocchi nel camino, un camino acceso...
'Gni sera Papa quando rvene a casa, se 'rporta un pizzulittu pe' scallasse...
«Va tucto bene Francesco.» lo rassicura Leone, mentre altri accorrono, visi annebbiati, ma contagiati dall'euforia de' su' ritrovamentu. «Va tucto bene, ci siamo noi ora. Nun sei solo.»
Loro. I suoi primi compagni.
«M-Ma io sto b-bene...»
Annega nel buio, perdendo cognoscenza.
È autunno.
Un sole pallido pennella con delicatezza onne cosa. Le ultime foglie so' tinte di quiete, di fascino. Francesco si solazza, tracannando vino, a zonzo pei vicoli d'Assisi con gli amici e le giulive bande.
All'improvviso scorge 'na ragazza.
L'è vestita de stracci, volto diafano, passo 'ncerto. Sembra vivere, tra folate di vento, l'agonia della stagione. Sta a piagne. Paiono lagrime spese pe' 'na sofferenza antica quanto lu mondu. Li sorpassa. Forse non bada neppure alla iuventude briosa.
Neppure i suoi amici la scorgono.
Francesco sì.
Francesco l'ha veduta.
E se n'è infatuato.
La scintilla è scoccata.
La ragazza non chiede nulla mentre procede spedita e decisa verso il nulla. Per 'n attimo Francesco vive la su'vita, respira 'l su respiro. È una vita che si snoda sui sentieri della morte. Solo lo vento l' accompagna, premuroso, con la pena nella voce.
Vorrebbe rincorrere la fanciulla, giovanissima angiola, donna gloriosa, per stringerla tra le braccia e darle, con il conforto della parola, la moneta per comprarse 'l pane. Vorrebbe essere per lei una presenza d'amore, d'amore che non delude, non 'ntristisce, non sfiorisce, ma pulsa cum vigore.
Mentre rimugina questi pensieri, la ragazza è già scomparsa.
«C-Cosa... dove? Madonna P-Povertà...»
Madonna Povertade alloggia intra queste dimesse e sobrie pareti nell'infermeria di San Damiano, ma Francesco la sta intravedendo nella persona sbagliata.
La febbre gioca brutti scherzi, tira le conclusioni Chiara, strizzando la pezzuola bagnata e tamponando il volto madido dell'amico allettato.
Se poi ci includiamo nel calcolo una sparizione tenente sulle spine la ciudade 'ntera, con le pie madonne e galline regine del pettegolezze minaccianti di esplodere in piagnistei isterici pe' la sorte del loro Sanctarello, e ci addizioniamo un Francesco ch'ha adottato la balzara trovata di ciondolare in giro sotto un diluvio allucinante ciò che ne esce l'è un ritratto d'apprensione collettiva.
Anni prima, quando la pazzia giustificava, nell'opinione pubblica, le sconsiderate scelleratezze di Francesco più della sanctitate, nessuno avrebbe mosso un mignolo per aiutarlo, lassandolo al proprio destino.
Como mutano li tempi!
Applicando tocchi lievi, gentili, Chiara si curva su di lui, cereo da incuter paura.
«Non mi chiamo Povertà.»
Ma poera è l'infermeria al primo piano del convento, direttamente comunicante col chiostro. Un ambiente di sollievo e conforto impregnato del tanfo degli intrugli e pozioni, bende e medicamenti, erbe tritate e appesse a essiccare.
«C-Chiara?» Il torpore abbandona progressivamente Francesco. «C-Co...»
«Sei a San Damiano, stai tranquillo.»
Tranquillo. Non rintraccia corrispondenza nel vocabolario del suo amico. Francesco, ostinato, si tira su co' l'ausilio de li gomiti.
«D-D-Devo... no... d-devo...»
Deve un beneamato nulla. Si è già buscato abbastanza guai, vuole ficcarsi ulteriormente nei pasticci? «Stai giù!» Lo blocca, premendogli 'na mano sul petto. «E vedi di non farci più ammattire così! Ti abbiamo cercato in lungo e in largo, tutti, e non ti trovavamo da niuna parte!»
Tre giorni.
Tre angosciosi, tremendi, eterni giorni senza uno stralcio di notizia, un rumorino, un indizio. Niente. Vuoto totale. Affacciata a quel vuoto Chiara si è piagata le genocchia a furia d'orare, priegando ininterrottamente innanço al crocifisso, sperando che Francesco si facesse vivo, che non gli fosse capitato niente di grave, che i banditi nun l'avessero catturato e pestato, dimenticandolo agonizzante como una volta, agli inizi del suo viaggio novello, era successo.
La notizia de su' ritrovamento nei boschi, Deo gratias, le ha tolto una spina dallo core. Leggermente meno apprendere delle condizioni di Francesco: febbricitante, stremato, un corpicino deteriorato dalla scarsa cura.
«E-Ero... e-e-er... e... s-sto rabbrividendo!» I suoi occhi, ora completamente sbarrati, guizzano impazziti sui contorni dell'ambiente, como se le orbite fossero troppo piccole pe' contenerne la furia. Agguanta le coperte. «Gelo! G-Gelo!»
Il sudore gli striscia sulla fronte, imperlandola. Francesco rivolta la testa all'indietro, i brividi s'impossessano de su' corpo.... e improvvisamente si pietrifica. Una statua. Immobile. Inarcato, concentrato sulle... sul viluppo di crepe nel muro? Chiara gli appone il palmo a contatto co' la guancia. Lo ritira de scatto, sconcertata dal calore bollente. Scotta peggio delle piazze desolate d'Assisi al solleone.
«È la febbre, statte calmo.»
Francesco riporta l'attenzione su di lei, un lento spostamento di pupille nella sclera liquida, scintillante di febbre. Apre la bocca, la distorce in una smorfia. Sembra prendere tempo, stare valutando, considerando. Cosa?
«TOGLIMELI!» sbraita, scagliando i cuscini su cui l'hanno posato e che ha realizzato solo ora fungergli da morbido supporto. Li afferra, li lancia senza rimorsi o esitazioni alcune. Le imbottiture esplodono in scoppi di piume svolazzanti. Si scalcia via la pesante coperta di lana dalle gambe, fremente di repulsione, manco fosse immerso nella fogna e nello sterco. Probabilmente gradirebbe di più un bagno nello sterco. «LEVAMELI DE DOSSO! VIA! VIA! LIBERATENE!» Non l'ha mai visto dare in escandescenze cusì convulse, agitate. «NON TERRÒ 'L DIAVOLO SOTTO LA TESTA MIA! VIA!» Scopre la coperta stesa sopra il pagliericcio e la strappa immantinente, appallottolandola e buttandola. «TOGLILI!»
Chiara non ha idea di come agire davanti a questa scena.
«Francesco-»
«Demonio.» ringhia - Francesco ringhia - sgomberando il suo letto anco dallo ultimo dei perfidi cuscini. «Istrumento et tentatione d-d-del... de lo... d-dem-demonio...»
È la febbre, si persuade Chiara. Cerca di persuadersi. La febbre, la stanchezza, l'esasperazione di questo periodo buio. Tucta 'na combinazione. Francesco chiama omnia criatura, tranne li soldi e le ricchezze, fratello o sorella. Il cuscino non può venire accolto como 'n fratello?
Corre a raccoglierli, il pavimento è disseminato di piume. Guarda che disastro. «Francesco, ti servono, devi riposare!»
«No! No! No!»
Approfittando dell'alzata di Chiara tenta la fuga, tradito ben presto dalle gambe deboli e prive di forze. Ruzzola sul pavimento, trascinandosi fino all'ingresso dell'infermeria, sugli scalini immettenti nel chiostro e lì, floscio, sostenendosi al legno tarlato dei battenti, scoppia in quello che mai Chiara avrebbe sognato di veder manifestarsi in lui, epitome della iocondità, della felicitas, del gaudio.
Piagne.
Lo iullare piagne.
«Francesco?»
S'appiglia alla porta, graffiandola con le unghie, un peso morto, pestando la fronte cum la ripetitività meccanica d'un penitente. «Madonna Povertà tradita e oppressa... l-la più soave delle s-spose... lei... me lo sento sussurrare ogni n-notte Chiara... ogni notte n-nell'insonnia...» Fissa in lontananza un punto indefinito, tremante alla stregua d'un pulcino intirizzito, il gemito che s'affievolisce a un filo. «Hai fallito Francesco, l'hai tradita, la tua sposa, il g-gregge è disperso...»
Accovacciandosi al suo fianco lo scolla dal colpirsi contro il legno. Si ferirà. Francesco crolla dentro di lei, nel suo abbraccio, scomposto como si fosse 'n bambolotto de bambagia, scrutando l'orizzonte, il chiostro, i vasi grementi, il pozzo e i suoi catenacci, con le palpebre gonfie dal pianto e una malinconia silente.
«È la disperazione a sussurrartelo, a trarti in inganno.» Il respiro si cheta, Chiara lo accarezza e la tensione si allenta. «Non ascoltarla.»
«S-Sta lì tutte le notti... a-acquattata in un c-c-can-cantuccio... e rumina 'ste parole... sempre, costantemente... h-hai fallito... fallito...»
Deve confortare colui che l'ha confortata lungo tucta la su' vita? Francesco si schianta nel suo abbraccio, annegandoci completamente, alla deriva più assoluta, un corpo molle e insensibile. Chiara lo stringe, gli imprime un bacio nei capelli, effondendoci un caldo sbotto di fiato, un sospiro.
Oh Francesco...
I dubbi e le insicurezze possono magnare vivo 'n homo?
«Devi dormi'.» gli suggerisce, raddrizzandosi un poco. «Segui lo mio consiglio.»
Francesco non la segue. Non la guarda. È perso.
«La risento quando incrocio gli sguardi rudi d-de li novi confratelli... altri figli d-di Povertà che m-mai la conosceranno...»
Ha capito. A letto non ci ritornerà tanto presto. Chiara gli copre li oculi, apponendoci sopra la mano, e co' l'indice dell'altra gli massaggia la sommità della radice del naso, l'incrocio tra fronte, sopracciglia e narici. Che basti questo minimo.
«Chiudi gli occhi Francesco, te lo imploro, chiudili, riposa e tutto questo passerà.»
Lui se raccoglie le genocchia contro 'l torace, lo capo molle e ciondolante.
«E l'ho uccisa i-io co' la Regola... io...» singhiozza. «N-Non merito n-nulla!»
Monta bizze colossali e se ne inventa de onne per non filare a dormire - Chiara non me lo merito, sto bene, sto bene, è Fratello Asino che fa 'l birichino, ma sto bene, devo sta' bene pe' predica', n-non posso dormi', almeno predicare d-devo! Almeno quello! Cosa me rimane sennò? Cosa a isto servo 'nfedele? - ma alla fine il connubio di palpebre cascanti e febbre prevale, cogliendo Francesco pe' sfinimento.
S'appisola sul pavimento nudo, neanche il pagliericcio. Troppo ricercato, in assonanza a como s'è addormentato molto spesso. Sul pavimento, sul terreno, nei prati. Nelle case in cui l'hanno ospitato Francesco ha siempre prediletto la dura pavimentazione delli ambienti infimi e sporchi. Aiutata da Bona, Chiara lo spinge, facendolo rotolare, sul lettino preparato appositamente per lui.
Coi cuscini, che impari a conviverci.
«Allora?»
Elia, in qualità di capo dirigente de tucta la baracca, non ha perso temporum a irrompere a San Damiano appeno gli hanno comunicato del ritrovo di Francesco. S'è messo comodo sulle panche nel refettorio ad aspettarla.
«Ha la febbre alta.» Chiara sistema la bacinella d'acqua e le pezzuole sul tavolo, disdegnando il suo sguardo. «Sta riposando.»
Deve avere picchiato la terracotta con eccessiva furia, poiché Elia decifra subito il suo atteggiamento, discorde con la solita pacatezza.
«Senti, lo so che sei arrabbiata, ma-»
Arrabbiata.
Che parolone. Il Ministro Generale dopotutto ama i paroloni, specie quelli densi di significato e pregnanti de simbologia. Qual'è la simbologia d'una donna arrabbiata, no, infuriata nera, no, inferocita e scocciata al contempo? Una bella Medea sul suo cocchio di draghi? Una furia? Del vasellame spaccato dritto sulla zucca?
«Non sono arrabbiata.» replica atona, affaccendandosi a ricollocare i suppellettili al loro posto negli armadietti e nelle nicchie a mezzaluna.
«Chiara... non me conta' frottole.» Capisce qualcosa, miracolo! «Ce l'hai con me, lo comprendo.»
«Avercela con te sarebbe come avercela con l'interu Ordine.» sibila gelida. «Non posso covare risentimento verso i nostri fratelli.»
Elia si stringe nelle spalle, scostante. È un uomo impegnato lui. «Se desideri dirmi qualcosa fallo ora. Non ho tempo per 'ste manfrine.»
Manfrine? Manfrine le chiama?! Il suo amico - può ancora definirlo amico dopo i danni e i turbamenti che ha cagionato a Francesco? - reputa indegni di alta considerazione i suoi crucci, bollandoli como manfrine.
Al limite della sopportazione, Chiara sbatte volontariamente lo sportello d'un vano, il fragore del legno rimbombante nel refettorio deserto, salvo lei ed Elia.
«E per tormentare Francesco con l'insistenza per una Regola che s'adegui ai dettami di voi immensi visionari ce l'hai vero?» sbotta esasperata, piazzandosi davanti all'illustre superiore, braccia lungo i fianchi e pugni contratti. «Per spremerlo e poi accantonarlo in disparte, logorato e sfinito, espropriato del suo sogno!»
Elia scuote lo capo, elevando li occhi al cielo.
«È colpa mia se se cura poco?» bercia nel tono smielato di un adulto spiegante a una bambina l'evidenza. «Se rifiuta di sottoporsi alle visite? Se preferisce continuare indefesso in quello stile di vita spartano e austero?»
Lo fa apposta a riservarle isto trattamento? Una marmocchia da rabbonire, ingenua e sciocca. Chiara è allibita, ma diversamente dal signorino suo interlocutore, rammenta il precetto fondamentale della dottrina di Francesco. Perfetta letizia. Il dolore e il disprezzo concimano la gioia, nutrono il campo pe' lo Reame de li Cieli. Non ripagherà Elia con lo su' medesimo obolo d'acredine.
Inspira, se placa. Perfetta letizia.
«Lo stile di quando iniziammo, quando ci affidavamo completamente al disegno della Provvidenza. Lo ricordi?» Evidentemente poco, il saio lindo del Ministro Generale conta 'n altra historia. «O le lusinghe del potere t'hanno occluso le orecchie?»
«E come farebbe la Provvidenza a provvedere a migliaia, a milioni? A sfamarli? Dissetarli? Coprirli? A saziare la loro fame di sapere?» Elia picchietta l'indice sul piano traforato dai tarli co' fare 'mpaziente. «So' curioso.»
Sta iscritto en l'Evangelio. «Esattamente como se cura dei passeri del cielo.»
Insufficiente pe' Elia.
«Siamo uccellini paffuti cag-» S'interrompe pria de cascare in una figuraccia, schiarendose la gola. «Defecanti a palline adesso?»
I passeri, quanto meno, non s'ingarbugliano in dibattiti e accuse feroci, frammentandosi in stormi parteggianti pe' ista o l'altra opinione.
«Ce abbandoniamo a Dio, allo suo volere.» Una visione che anco lui aveva amato e adottato! Pare averlo eroso. Elia Buonbarone, il promettente e laborioso erede d'un'impresa trafficante materassi, laureato a Bologna e magistro de ripetitione agli scolari d'Assisi per arrotondare le entrate, rinunciante ai sentieri radiosi del su' avvenire per battere quello che se snodava tortuoso inaugurato dal babbeo de paese, in un rigoglio di papaveri e aureo ondeggiar d'oceani de grano, acque limpide e tappeti opulenti di fiori. «Questo l'è 'l concetto di fede Elia! Abbandono fiducioso nell'abbraccio del Padre, camminanti lieti sul percorso che ha tracciato per noi, aggrappati alla su' mano, da cui niuno mai ce separerà.»
Sospira sconsolato alla sua opposizione. «La Chiesa si propone di trattarci così Chiara, ma per farlo-»
«Francesco è dovuto sottostare alle sue direttive, lo so.» Sottostare a discapito del sogno che avea 'n core, a discapito della sua visione. «Non sto rinnegando la maternità premurosa della Chiesa come surrogato dell'amore dell'Altissimo.»
«Quindi perché te la stai a prende' tanto?!»
«Perché lo sogno di vita che il Signore ci ha infuso è stato calpestato, alternato, dirottato! Ridotto a un'utopia. Lo vivevamo Elia, lo respiravamo.»
«Allo sbando, sanza regolamenti.» Si stropiccia li oculi, innervosito. Non avea previsto un battibecco. «Chiunque era accolto.»
Calca sul chiunque como si fosse biasimevole.
«Chiunque accoglie il Padre Nostro, benvenuto nell'amore.»
Elia non regge più. Batte la mano sul tavolo, sporgendosi innanço. Chiara sussulta. «Vacillavamo sul ciglio dell'eresia, te rendi conto? Riesci a elaborarlo Chiara o hai la testa ancora farcita di quelle smancerie carine e vezzose?» Non attende la su' replica, marciando avanti e 'ndietro nella sala, sbocchi de luce che se rovesciano dalle finestrelle disposte longo la parete. «Io ve ho salvati, ce ho salvati, la riedizione della Regola aderente alle direttive de Roma ce ha salvati. Se manca 'l controllo si degenera nell'anarchia e l'anarchia conduce alla perdizione.»
«Persi?» Quanno dipendono da Dio? Quanno s'affidano alla divina bontate e alla certezza ch'un padre non abbandonerebbe mai i suoi figlioli a stramazzare di stenti? «Noi? Elia te senti como parli?!»
«Como uno che trae godimento dal controllo...»
'Na sagoma in penombra, all'entrata, se delinea, arrancando claudicante. Prima spunta un consunto, rabberciato straccio tenuto a mo' di burattino delle fiere da guitti, dopodiché il braccio e, infine, Francesco.
«Francesco?» Chiara si dovrebbe meravigliare poco. «Che ce fai fori dal letto?»
A Elia 'mporta piuttosto dell'accusa. «Stai insinuando qualcosa per grazia?»
«So' messer Volpino da Morbidosa.» s'esprime il cencio, simulando un falsetto, la mano di Francesco a mover la presunta bocca. «E sto solo a rimarca' l'evidenza.»
«E quale sarebbe?»
«Francesco non ppoe' risponne.» gli comunica la volpe. «So' io 'l su' portavoce.»
Elia non ha pazienza per 'sti trastulli da pueri e scemi. «Sei uno scampolo di pelliccia conciata da buttar via!»
«Sono una vispa volpe silvana. Gimo, spicciati e parlami.»
Il superiore occhieggia Chiara in tralice, como a dimannarle la cagione della stranezza de Francesco, poi riporta lo sguardo sul pupazzo e sospira. «A quale evidenza stai alludendo volpe?»
«Messer Volpino.» gli puntualizza pignola la volpe.
«Come te pare, basta che rispondi!»
La volpe accartoccia il muso, storcendolo con ripugnanza, e il braccio che le funge da corpo s'abbassa. Francesco prende parola, un ghigno s'arriccia all'angolo delle labbra. Francesco che ghigna dopo Francesco che ringhia.
Per Chiara è già abbastanza preoccupante.
«Di quanto te ne sia piaciuto approfittarne eh Elia?» afferma mellifluo.
«Approfittare de che?» Elia non ci ha capito 'na fava. «Francesco, per la miseria, parla chiaro!»
Non dovrebbe parla' 'nfatti. O ghignare. O ringhiare. O eruttare di collera all'individuare cuscini e coperte sul su' giaciglio. Francesco, araldo del bon Dio, iullare e più accanito seguace del riso, della laetitia, dell'effervescente allegrezza e leggerezza dell'essere, amati e per questo chiamati a diffondere amore, non si è mai avvicinato, ma manco lontanamente, a cacciarsi 'n situazioni dove regna la rabbia, il furore, la beffa sardonica co' 'na punta di cattiveria.
Francesco rideva e cantava su spumeggianti prati fioriti e s'incantava allo sboccio delle gemme ingioiellanti li arboli a primavera.
Non ha mai infierito, mai provocato.
Che c'ha?!
«Perdonalo, sta poco bene.» Chiara lo afferra per il braccio, spronandolo a fa' marcia 'ndietro. «Dovrebbe tornarsene a letto.»
È como si nun avesse favellato.
L'amico si svincola, fronteggiando Elia. Le avvisaglie d'uno scontro titanico, ecco cosa Chiara avverte crepitare nell'aere. «Dello stato travagliato, delle polemiche, delle liti, delle discussioni. Ti ho proposto quale candidato successore di Pietro - issu, requiescat in pace, sta in lôco de veritate, io de bucia, mica so' stato io a dije a Pietro de morì - ti hanno eletto e da lì in poi hai ottenuto quello che volevi, vero?» Lôco de veritate, lôco de bugia. È la convocazione a testimone di un defunto che si trova nell'aldilà, luogo di verità, contro la parola di un vivente ancora esposto ai difetti del mondo terreno, un detto popolare. «Oppure no? So' confuso.»
Elia l'è poco propenso a contraccare, ponendosi sulla difensiva.
«Hai il cervello soffritto, ecco cos'hai! Come ti permetti d'insinuare-»
Anco Chiara è pronta a difendere. Difendere Francesco. «Non prendertela, sii ragionevole. È... è malato...»
Malato e stanco su ambo li piani dell'esistenza, una combinazione letale.
«Sono più sano e lucido ora di quanto lo sia mai stato mia pianticella.» Oh, quanto meno s'è accorto della sua presenza. «Vedo distintamente... ma devo ancora raccapezzarmi. Hai sempre puntato alla scrittura di quella Regola Elia?» Francesco imita il timbro innocente d'un bimbo, il labbro superiore esibito in un broncio. «Insieme al piccolo, poero citrullo di Francesco?»
«Per l'Ordine, per aiutarti a costruirlo stabilmente.»
«Mmh... e a cosa aspiri?»
«Prego?»
Francesco fessura le palpebre. «Potere? Riconoscimenti? Quali ambizioni?»
Paonazzo, il Ministro Generale s'inalbera. «M-Ma io sono propenso a dimentica' questa scemenza solamente perché al momento non sei in te.» balbetta sbigottito, strappandogli il cencio de mano. «E comportati con dignità na' buona volta!»
Francesco lo fulmina minaccioso. «Tu prima comportarti con humiltà.»
«Non me veni' a fa' la ramanzina tu, a predicarmi su come guidare questa barca in subbuglio! Se non fosse per me-»
«Lo spirito sarebbe ancora vivo!»
Chiara gli s'accozza, fermandolo per l'avambraccio. «Francesco, per favore-»
Elia risponne a tono. «Sto facendo di tutto per preservarlo!»
«Se vede.» ridacchia sarcastico Francesco. «I lebbrosi nun sono menzionati.»
«Mi vomiti addosso queste infamie...»
Se non ragiona uno, passabile per febbri e 'nfimidade e altro, almeno quello colto, posato e diplomatico imboccherà la strada de la ragione no? «Elia, sii ragionevole...»
«Oh io lo sono Chiara, molto più del qui presente ipocrita.»
Ipocrita?! Francesco?!
«Elia!» lo rimprovera aspra.
«Nel momento di massima disperazione, quando avevamo più bisogno del su' supporto, della su' guida, del su' consiglio cos'ha fatto?» De novo, su' vizio, non attende che li altri abbiano formulato risposta. «Ha dato le dimissioni, s'è ritirato, scomparendo.» Applaude derisorio. «Vigliacco in qualsiasi battaglia Francesco, non sei mai cambiato, i miei più sentiti complimenti.»
«Me so' fatto da parte perché non m'intendevo dei loro discorsi artificiosi e le loro massime ampollose, la loro eloquenza. Non possedevo la risposta alle loro pretese, ignorante e infimo verme che sono, ma tu, 'l buon Pietro e altri ne vantavate l-le competenze, eravate istruiti, preparati!»
«Il conforto non si regge sul grado d'istruzione Francesco.» Elia 'nscena illumatione. «Oh! Te spaventavano le critiche e le accuse mosse? T'infastidivano? O contava solo il tuo impossibile disegno d'Ordine amministrato secondo il tu' modello?»
Era presente anco lui in quei momenti, a quelle riunioni. Ha dibattuto anco lui, appoggiando la parte meno intransigente, instabile, meritandosi il loro rispetto e la stima e amicizia da parte de Ugolino, loro patrono. Elia ha visto coi su' occhi il clima incandescente, il delicato assetto, su cui Francesco camminava, un acrobata in precario equilibrio sulla fune tesa sopra un precipizio.
Como può recriminargli queste insensatezze?
«Elia, non tollero quest'asprezza nei confronti di Francesco.» Chiara gli si para davanti, scudo a Francesco. «Ha tentato in tutti i modi d'intavolare un dialogo con i nuovi venuti. Si sono sturati le orecchie? No. Non puoi imputarglielo! E non ha voluto-»
«Non ho mai obbligato nessuno a seguire le mie orme, mai!» Appunto. «Tu, piuttosto...»
«Io cosa? Sto lottando per quello in cui credo, diversamente da te!»
Francesco ha lottato, cosa farnetica? «Elia!»
«Hai bramato la tua Regola e ora mi rinfacci d'aver ceduto?» chiosa l'altro, mortalmente pallido. «Sei te che sbagli!»
«Francesco, non metterci anche tu...»
Bambini litigiosi. Ha a che trattare con dei bambini.
«Sbagliare?» ripete Elia, piccato nel su' amor proprio. «Io? Sto a salva' quest'Ordine da li tuoi errori!»
«I-I miei errori?! Sentilo! Ha parlato l'infallibile!»
Chiara non sa più che pesci piglia' pe' farli sta' boni. «Francesco, per favore, non dargli corda...»
«Svegliati Francesco e piantala de vivere nella tu' utopica fantasia.» lo ragguaglia Elia sanza pietade alcuna, glacile e inflessibile, additando alla fenestra. «Lo mondo là fuori è spietato, ingiusto, meschino, corrotto. Se vogliamo sopravvivere dobbiamo adeguarci alle regole o finiremmo divorati come ingenui tontoloni.»
Consumati dal mondo. No. Consumati pe' 'l mondo. Per i suoi peccati e le sue vicissitudini e i suoi paradossi, la congerie esuberante del mondo travasata dentro de loro, l'homo e li suoi drammi. Per gli altri che compongono questu mondu.
«N-Nostro Signore non s'adeguò...» biascica Francesco, il pallore crescente acuente il terrore intra Chiara.
Elia leva 'l mento, sprezzante, un dotto sovrastante 'n ignorante. «E quale destino incontrò?»
«La Resurrezione!» schiamazza Francesco, il volto inondato dal sudore. La febbre sta risalendo. Chiara si precipita a tenergli la mano, le pulsazioni nelle vene affrettate. «Se deviamo da Madonna Povertà cosa siamo? Cosa?! Come possiamo aiutare li poveri se non viviamo como loro?! Tucto o niente Elia, tucto o niente! Nostro Signore scelse d'abbracciare una vita di stenti, in miseria, scelse l'umiltà d'una famiglia di carpentieri in uno sperduto v-villaggio, sopportò la più ignominiosa e angariante delle morti! Sopportò lo supplizio della croce, i chiodi, le spine, le frustate, l'abbandono dei fedelissimi, una fine da c-c-criminale! Lui! Il Figlio di Dio!» lo scandisce, quasi che Elia dovesse inchiodarselo 'n mente. «Il nostro Salvatore patì tucto, tucto, tucto!» Agita le mani, vittime dei tremiti. «Nun possiamo accontentarci della metà, d'un pezzo, di pronunciare voti di povertà e poi inorgoglirci nel possedere libri e-e insuperbirci per le nostre conoscenze e-e-e...»
Minaccia un collasso se non si cheta!
«Francesco.» Chiara lo invoglia a guardarla, incorniciandogli lo viso intra i palmi. È 'n tremito unico. «Calmati ti prego, rischi di sentirti male.»
Lo spettro d'un sorriso aleggia. Il suo amico le carezza 'na mano, baciandola.
Una semente de speranzia pe' Chiara. Se calmerà?
Elia no di certo. «Se ti stonava così tanto potevi benissimo rifiutarti di scrivere quella Regola in partenza, ci saremmo risparmiati molti melodrammi.»
Ma 'nsomma! La vole fini'?«Basta Elia!»
«Boia.» gli scappa l'intercalare toscano della Cortona de su' parentado, accanendosi sempre su Francesco. «Se non te conoscessi come te conosco potrei travisare le tu' fiammanti parole per una ridda di accuse contro la nostra Sancta Madre Chiesa.» Sputa quasi quella parola repellente. «Lezzo d'eresia.»
«Io amo la C-Chiesa!» insiste Francesco. «È la roccia d-d-di Dio!»
«Perché non ti sei ribellato allora?»
Chiara anticipa l'amico. «Te l'ha già ripetuto Francesco: non ha mai imposto a nessuno d'imitarlo.»
«Sarebbe stato come ribellarsi al disegno di Nostro Signore! Ho giurato obbedienza ai miei superiori e costoro-»
Elia lo ignora. «Anch'io presto ligia osservanza a quei voti e guarda dove so' giunto.»
«A un passo dalla bocca de lo inferno.»
Ha sentito bene? Le su' orecchie nun han travisato?
Inferno.
C'è qualcosa d'inquietante e anomalo, selvatico, in Francesco e nel suo sguardo iniettato di sangue, la sclera arrossata e le palpebre irritate, tumefatte, le occhiaie solcanti, la capigliatura sparante onne dove peggio d'un nido d'augello, il colorito spettrale, le guance smunte e il saio che gli spenzola addosso, lacero e largo, zuppo anco' d'acqua. Ma soprattutto in quel sorriso.
Francesco sorride con malignità.
Lui.
Elia è basito quanto Chiara. «Come scusa?!»
Chiara, per contro, l'è tanto basita quanto preoccupata. Tira Francesco per la manica, il biancore innaturale di lui la spaventa.
«La febbre ti porta a sragionare, torniamo de là, coraggio.»
Non se schioda d'un millimetro. Inclina lo capo, il sorriso s'allarga, conturbante. «La superbia conduce dritta alla fornace. Se continui così la condanna l'è certa...»
«Che scempiaggini vai dicendo?!» ruggisce Elia. «Sei... sei matto!»
«E tu presuntuoso.»
«Francesco ha la febbre molto alta Elia, te l'ho detto, non intendeva offenderti.»
La prende como si avesse irrorato d'olio 'n falò. «Lo 'ntendeva Chiara, lo 'ntendeva eccome.»
Francesco s'incupisce de botto, detergendosi la fronte appiccicaticcia di sudore con il lembo della manica.
«La strada per lo inferno è lastricata di buone intenzioni.»
Chiara gli comprime dolcemente il viso tra le mani, obbligandolo a incrociare il suo sguardo, sfiorandogli coi pollici le mezzelune delle occhiaie. Da Francesco traspare 'na stanchezza immensa.
«Non dormi da giorni, non sai quello che dici. Te supplico, torna de là, stenditi. Passerà, vedrai.»
Appoggia la fronte contro la sua, un contatto infintesimale, una scheggia di secondi naufragata nel mare rocambolesco dello tempo. Francesco abbozza un sorriso sghembo, stremato e, a su' modo, adorabile. Chiara lo interpreta como 'n bono augurio, la certezza che abbia raffreddato i bollenti spirti.
Si sbaglia. Mantenendo la stretta de mani, ma rivolgendo a Elia 'na occhiataccia truce, Francesco affonda lo coltello intra la piaga.
«Non finché lo segnor Vicario continuerà a veni' accecato dalla propria arroganza.»
Elia non se lassa più gabbare. «È il meglio che sai sparare?» sghignazza sguaiato, soppesando il confratello co' supponenza. «Guarda como te sei ridotto: a frigna' debole e insicuro attaccato alle sottane d'una donna con più grinta di te.»
Non avrebbe dovuto dirlo. Francesco, provocato, s'avventa in avanti. Chiara lo frena, arpionandolo pria che i toni accesi possano degenerare.
«Lei è m-metà della mia anima! N-Non osare...»
«L'altra metà dove l'hai persa?» lo irride Elia, pretendendo una folgorazione immediata. «Ah, giusto! Non l'hai mai posseduta.»
Adesso basta. Chiara non ha mai fatto valere la su' auctoritade de badessa de lo convento, però sta attaccando e ferendo un confratello intro mura de su' spettanza, sottoposte alla su' tutela. «Elia, ho la pazienza corta! Adesso dacce 'n taglio!»
Crack!
Il tonfo di vasellame 'n frantumi sulle piastrelle ruvide li porta a voltarse 'n contemporanea. Una ciotola de terracotta subisce la medesima tragica sorte, brandita dall'isteria de Francesco e scaraventata a terra. Uno sgabello è 'l prossimo bersaglio, sfasciato in mille pezzi, distructe le gambe, sfondato il piano, sbattuto via come un vecchio scarto, 'na immondizia infesta e dimenticabile.
Boccheggiando, un'aere spettrale, le spalle sussultanti, Francesco ammira l'operato della su' furia rovinosa.
Francesco, rispettante e amante 'l Creato, che devasta.
Ufficiale: non sta bene.
«Ma che- Icché tu fai?!» Sobilla 'l toscano in Elia. «Un fare i' grullo!»
«Francesco!» lo riprende Chiara, spiazzata. «Cosa fai?!»
«Lancillotto s'è forse arreso?» urla, lagrimando cocenti lapilli de dolore. «La vergogna delle disfatte ha forse prevalso? No! Ha continuato e proseguito e ha trionfato! Ha trionfato! Madonna Povertà vaga, io non la lascerò veduva 'na secunda volta! Lei ce richiama a li nostri doveri, ce ricorda l'umanità disperata e oltraggiata, ce ricorda c-che quell'umanità potremmo e-e-essere noi! Chiunque! Che vive s-s-sostentata dalla pochezza che M-Madre T-Terra le dona, grata a Dio N-Nostro Signore, perché le ricchezze dividono! Separano! C-Creano classi e le classi creano privilegi e i p-privilegi fomentano l'orgoglio!» Allarga le braccia, com a indicare la misura de ista separatione. «Lo mondo n-non deve cambia', semo noi a dove' cambia' pe' p-poterlo cambia'! Noi!» Si batte contro la cassa toracica, a enumerare sè per primero nella categoria. «Noi pe' primeri! Con le n-nostre azioni coerenti! Coerenti! Coerenti! Coerenti! Gesù c'indicò la strada, se ce professiamo su' discepoli dovemo s-seguirla alla lettera! Sanza commento! Sanza scervellarci 'n voli pindarici! Semplice! Semplice e-et humile!» Pesta lo pede sudicio e nerastro de fanghiglia. «Se ci b-barrichiamo lontani e r-remoti como ascolteremo lo linguaggio universale de lo amore?! E de li homini?! Como? Come Elia? Come?!» Si caccia le mani intra li capelli, un invasato. Chiara ha paura. «Me so' rimesso alla Chiesa, alla volontà de Dio e Dio sa che Madonna Povertà non s'arrenderà mai a t-trafiggere cuori! Lei... Lancillotto...»
«Sta bene?» pone Elia, rifugiandosi dietro Chiara.
Niente affatto.
«Delira.»
«... n-non mi stancherò mai de difendere la mi' sposa!» urla Francesco, spormonandose. «MAI E POI MAI!»
Barcolla 'n avanti, sbiancando tutt'ad un tracto, e accasciandosi 'n terra svenuto.
«Francesco!»
Chiara si precipita a sollevarlo. La su' scenata ha echeggiato pe' tucto lo convento, attirando un piccolo affollamento de consorelle all'entrata. Chiara scivola sulla ruvida pietra, un'abrasione de genocchia, l'impatto de seguro più morbido rispetto alla brusca caduta di Francesco. Lo prende, gli depone la nuca sul suo grembo, lui molle, cadaverico, lentamente riacquistante cognoscenza.
«M-Mad-Madonna Povertà... lei... C-Chiara...»
«Ssh...» gli intima dolcemente, avvistando Sorella Bona approssimarsi 'n soccorso. «Bono, bono, so' qui adesso.»
«Fallo stendere.» le suggerisce l'amica e compagna. «Tucto.»
Sul pavimento scomodo e duro?! Chiara gli palpa 'na gota. «Scotta da morire.»
Elia, paralizzato sullo sfondo, tossicchia, il disagio palpabile, distogliendo lo sguardo pe' imbarazzo. Lo scombussola contempla' a quale disturbato malessere ha condannato Francesco co' le su' pressioni?
«F-Forse è meglio che vada.»
«Sì, sì lo è.» 'Na scelta assennata.
«Non che rimanga molto di interessante da vedere.»
Se non fosse uscito immantinente, dopo quest'affermatio, Chiara l'avrebbe strangolato de seguro sanza esitazione o pentimento alcuno.
Francesco, rinvenuto, 'ntanto scote lo capo, incredulo dalla su' rabbia.
«Chiara... ho sbagliato... C-Chiara... la... la perfetta letizia... la perfetta letizia Chiara... ho c-calp-calpestato... pure... lei...»
Ha reagito inverso al su' solito, ma comprensibile, comprensibilissimo. «No Francesco no, la pazienza la perdono anche i santi. È umano.»
«L'amore è... è... s-sovrumano. P-Perché mi sono arrabbiato? Perché?»
«Hai bisogno di dormire, fidati di me.»
«N-No... no, no, no!» Si rizza 'n pedi, ritto como 'n fuso, inciampando goffamente, impigliandosi nell'orlo del saio. «No!» geme straziato, graffiandosi il contorno delli oculi, quasi desiderasse cavarseli. «Non posso! N-Non posso dormi' fino a quando n-non avrò chiesto p-perdono pe' lo m-mio peccato...»
E, pe' la secunda volta hodie, Chiara lo vede piagnere, raggomitolarsi su se medesimo e cedere a li singulti.
Francesco, l'homo del gaudio, diviene l'homo della mestizia.
«Francesco.» Si china su di lui, togliendogli le mani dalla faccia, il volto 'na strage di sale e lamenti e moccio impiastricciato. «Fallo per me.»
«Devo chiedere p-perdono Chiara...» mormora, seppellendo 'l viso nelle pieghe del su' saio, perso 'n lei. Chiara lo trae a sè. «Elia... oh mamma... Elia...»
Elia gli ha già procurato guai a palate. Non è 'l benvenuto, al momento, ne li pensieri di Chiara. S'incunea Francesco al fianco, issandoselo ben bene, la testa de lui ballonzolante contro la su' spalla.
«'Namo a letto, forza. Ce penseremo più tardi.»
Elia intra en la su cella, nella minuscola abitazione eretta in muratura addossata alla Porziuncola - quella casupola da cui Francesco avea divelto le tegole in uno sfogo de collera inaudito, credendolo 'n affronto alla sua fantomatica Madonna Povertade - sbattendo la porta. 'No sferragliare de catenacci e serrature non bloccate risona nell'angusto corridoio. Se ne frega, non è il momento.
Alla malora! Alla malora la testardaggine bambinesca di Francesco!
Proprio non voe capi' che cerca d'aiutarlo? Di risollevare quest'Ordine dalla fanghiglia in cui la su' inesperienza e la sua stringata oppositione l'hanno fatto sprofonda'? No? Non c'arriva l'amato Sanctarello di paese?
Elia l'è sempre stato 'n homo incline all'ordine, a rispettare le file e non strabordare oltre li confini stabiliti. Onne cosa sta in quel posto perché cusì ha decretato la sapientia divina. La natura medesima, la natura tanto glorificata e cara a Francesco, funziona como... como un'università. Sul lato de piani s'intende. A Bologna, como 'n onne focolaio de cognoscenza, c'erano gli scansafatiche e i diligenti ed Elia, con magno plauso dei suoi docenti, e senza lesina' sulla modestia, rientrava nel novero dei diligenti. Ma comunque l'assetto regnava e niuno se sarebbe mai sognato di scompaginarlo. A onne criatura 'l su' gradino nella scala.
Pe' Francesco no. Pe' Francesco la caritade va elargita a chiunque, a chiunque va dimostrato 'n volto cordiale e amichevole, un abbraccio aperto e sprigionante amore a bizzeffe. Anco a li ladroni, ai ciarlatani, agli imbrogliani, ai briganti.
Anco ai lebbrosi!
Elia li ha curati e li amati a su' tempo, non mente, ma li tempi mo' so' cambiati! I novi venuti d'hodie non rinunciano a ingenti eredità e rosei avvenire pe' tuffarsi nell'insecuritade, pe' dormi' all'adiaccio e sanza sape' quanno racimoleranno 'n boccone da addentare! Potea funzionare anni fa, ma adesso...
«Como sta messo Francesco?»
Si pente de non aver chiuso la porta. Dallo spiraglio incautamente lassato aperto Leone, Rufino, Angelo Tancredi, Masseo, Bernardo e Ginepro fanno capolino.
«Indisposto.» Elia non l'è in vena di ciance. S'abbandona su 'na seggiola circondata da i suoi volumi.
Scarsa risposta pe' Leone. «'N che senso?»
«Nel senso che sta riposando presso Chiara, a San Damiano.» borbotta, sfogliando distrattamente alcune pagine. Che quel cojon-tonto e 'ngenuo, Francesco è dannatamente ingenuo e cocciuto, se ne rimanga presso le Povere Dame quanto gli garba. «Sarebbe opportuno che non lo disturbaste.»
«Perché?» Ginepro, il loro candido, bonaccione e imprudente Ginepro, il più iovane e il più bischero della comitiva originale. «Che c'hai fatto Elia?»
«Non c'è bisogno alcuno che ve scaldiate. È solo prudente che se ne stia lì adesso.»
«Nun lu voi tra li pedi?» monta Bernardo, scalzando li altri.
«Non ho detto questo!» Ma hodie l'è lo iorno delle letihate co' tucti? «Non imboccatemi di menzogne!»
«Un orto lo voi però.» lo incalza Leone, corrucciato, 'ndicando il fazzoletto de terra ove alcuni novizi stanno a zappa'. «Te fa comodo.»
Alcune novitade vanno 'ntrodotte pria o poi e isto, honestamente, non gli pare un peccato mortale.
Elia scrolla le spallucce. «Ce coltiveremo gli ortaggi da distribuire a li poveri.»
«A li poveri distribuiamo il ricavato delle nostre elemosine.»
«Le Povere Dame a San Damiano dispongono di un orto.» La su' pazienza è a tanto cusì dal sgretolarsi definitivamente. «Cosa ve turba tanto nel replicarne uno qui?!»
«Chiara non se move dal convento e li poveri vengono da lei.» gli fa notare Rufino, cugino della suddetta. «È diverso!»
E che s'adattino. Elia oppone loro le spalle, concentrandosi sul volume. «Fatevelo piace'. È stato piantato e lì rimarrà.»
«E dopo cosa vorrai?» mugugna Leone irritato.« 'Na basilica? Un monastero? Mura?»
Angelo Tancredi dissente, intristito. «Francesco non ne sarà contento.»
Francesco, Francesco, Francesco! Solo a lui pensano?!
«Francesco l'è indisposto, ve lo ripeto.»
Sanza aggiunge' altro i fraticelli si defilano, socchiudendo la porta. Epperò qualcuno, 'n particolare Leone, non ha 'mparato a mutarse.
«Seddievòle domatina pijamo e 'namo dal Cesco a vede' como sta!»
Elia non è sordo! Possono pigliarlo pe' grullo, contrastare e boicottare la sua dirigenza, dissentire co' su' auctoritade, ma sordo no!
Si slancia fori, ragguagliandoli sulla soglia.
«Vo' sentito!»
Bernardo se la ride. «Magari sentissi anco Domine Deo!»
Non dorme 'nco' quanno ritorna da lui. Ha accettato a malincuore cuscini, giaciglio e coperte, raggomitolandosi 'n fagotto informe co' la schiena fronteggiante l'entrata dell'infermeria. Chiara sa che non riposa, lo conosce.
«Francesco...»
Silenzio, infranto solo dal monotono saliscendi del respiro.
«Francesco, t'ho preparato del brodo.» Gli mostra la scodella fumante, rimescolandola col cucchiaio. Ci ha sminuzzato dentro qualche fogliolina di camomilla e 'n pizzico de valeriana pe' concigliarlo il sonno. «Senti com'è saporitu!»
Sforzi sprecati. Nun genere reazione alcuna.
Francesco, il solare, ridente Francesco, naviga nell'apatia.
Chiara s'arrende. «Francesco, suvvia...»
Smove qualcosa. Francesco si gira, il saio un macello di buchi e strappi. Si distinguono i segni del cilicio, l'intreccio tagliente della grossolana cinghia 'n crine e setole di maiale mortificante la su' humanitade. Simile a quello, più minuto, indossato da Chiara pe' martoriarsi, graffiante e ruvido.
Gli occhi, i suoi infetti, suppuranti, devastati occhi, i suoi occhi spalancati sulle maraviglie del Creato, spillano lagrime.
Le suscita 'no struggimento indescrivibile.
«Chiara, credi ch'io sia 'n codardo?» mugola sommesso, un cucciolo uggiolante. «Un debole? Vittimista, egoista e malleabile?»
Chiara lo colpisce sulla crapa col cucchiaio.
«Ahia!» Francesco si massaggia il futuro bernoccolo. «Ehi-»
«Rimangiati subito 'ste fandonie!» Va bene la febbre, ma qui sta a ammatti' seriamente o cosa? Lui ha osato. Ha avuto 'l coraggio di rompere col passato, di ribellarsi alle convenzioni a cui tucti loro erano stati edotti fin da piccini. Un debole non avrebbe mai ardito tanto. «Non conosco persona più coraggiosa, altruista, buona, testarda, caparbia e generosa de te. Grazie alla forza dirompente del tuo esempio ho intravisto la mi' vera vocazione, 'na strada nascosta da 'na nebbia che tu, spogliandoti, hai diramato. All'inspiegabile che m' ardeva in petto tu c'hai posto nome amore.» C'era una ragazza sfrecciante a perdifiato tra il grano e i fiori, i suoi capelli una massa d'oro ondulata e preziosa como 'n gioiello. C'era una ragazza che annunciava al suo migliore amico la su' scelta definitiva. Vivere como lui, seguendo il suo esempio. «Hai risvegliato il mio impeto, sconvolto la mi' anima, stravolto l'esistenza mia e de moltissimi altri che altrimenti non sarebbero vinuti dalle latitudini estreme de lu munnu per incontrarti. Il nostro modello di vita è stato ammorbidito, vero, ma hai lottato fino all'ultimo perché almeno una particella dell'origine permeasse il manoscritto.» Anco a costo di tegole frantumate. «Hai illustrato continuamente la luminosa verità a quei ciechi. Le vie del Signore so' infinite. Anco questo tuo sacrificio ha uno scopo, ne serve uno che solo Egli sa. Arrendiamoci alla sua volontade como abbiamo sempre fatto Francesco.»
Lui pare rifletterci. Trae un profondo sospiro e annuisce.
«È quello che ce riesce meglio.»
Chiara sorride. Gl'entrata intra lo cranio ora? «Il dovere di figlioli.»
Francesco si fionda su di lei, allacciandole le braccia al collo. Un abbraccio a cui non s'era preparata, ma che ricambia volentieri.
«Ha ricolmato lo iullare de stupidera e innaffiato la pianticella de saggezza.» scherza Francesco.
Scherza. Non ringhia. Non minaccia. Scherza. Il cuore di Chiara n'è vibrante di gioia. Strozzerebbe ancora Elia a mani nude - benché sappia che commetterebbe peccato e benché, in fondo in fondo, gli voglia bene - ma il caos de pria va scemando.
Francesco uscirà dalla sua fitta e oscura selva.
«Merito suo.» Gli porge il cucchiaio. Un buon brodo caldo allevia i sintomi dell'influenza, un convalescente riesce a deglutirlo. «Adesso bono e magna!»
Più tardi, tramontato 'l sole e calata la nocte trapunta di solemni e maestose stelle, l'argento lunare lambisce San Damiano e il sonno viene a reclamare Francesco, che non pote più reprimere le insofferenze del suo corpo.
«Non d-dormo...» sbadiglia, appisolandosi contro la su' spalla in 'n involto de coperte. Chiara lo infagotta al caldo, felice che le erbe sortiscano il loro magico effetto. «Non sto dormendo Chiara...»
«Certo che no.»
«Non p-posso... devo priegare...»
«Oreremo 'nsieme Cesco.»
Cesco. Cescolino. Franceschino. Fra. France'. Franci. Francino. Frate. Figlio. Fratello. Padre. Madre. Sancto. Sanctarello. In quanti spropositati modi l'hanno chiamato?
Sempre e solo Francesco.
Il disarticolato suono del suo russare, un gorgoglio nasale, dato il raffreddore che s'è buscato, le segnala che è fatta. Francesco dorme profondamente, gravando sulla sua spalla. Finalmente. La febbre sta scendendo e l'indomani il sole sorgerà de novo, vigoroso e 'narrestabile, redimendo lu mondu co' su' luce potente.
Un altro giorno.
Avanti nel gioco della vita, co' su paradossi e difetti e lazzi.
E se non ci sarà Elia allora ci penserà Chiara a Francesco.
«Per te Signore.»
E anco pe' lui.
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