Deus mihi dixit

«(..) nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l'ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.»
Dante Alighieri - Paradiso - Canto XI

«Io ho in Toscana uno monte divotissimo il quale si chiama monte della Vernia, lo quale è molto solitario e salvatico ed è troppo bene atto a chi volesse fare penitenza, in luogo rimosso dalle gente, o a chi desidera fare vita solitaria. S'egli ti piacesse, volentieri Io ti donerei a te e a' tuoi compagni per salute dell'anima mia.»
Conte Orlando Catani di Chiusi della Verna, nell'atto di donarla a San Francesco nel 1213



C'è una strana atmosfera sopra il monte della Verna.

Forse tracima dal cielo. La colpa è da imputare a lui. Questo strano cielo incolore, d'un rosa albeggiante che non è del tutto rosa e non si comprende bene quale sfumatura indefinita sia. Non si è mai visto, a memoria d'uomo, nei racconti locali o nelle leggende tramandate intorno al focolare domestico, un cielo simile.

Un cielo saturo di nuvole soffici, percorso da venature d'un carminio assomigliante a quelle fantasiose combinazioni di colori che fuoriescono dai mortai, quando triti erbe e sostanze e radici e l'intruglio ricavato lo adopererai per tingere le stoffe nei calderoni della tua conceria. Un cielo sanguinante. Qualcuno ha ferito l'etere, ha divelto il coperchio del suo scrigno prezioso di stelle e ingemmato di piogge e l'ha spogliato, lasciando soltanto una vuota immensità senza colore o vitalità.

Il cielo è un libro.

Il cielo è ambivalente.

Si legge in due modi indistinti, il cielo. Il primo è il modo dell'attesa. Attendi i fenomeni profetizzati, le congiunzioni astrali e il guerreggiare bellicoso e furibondo di tempeste e tifoni. Attendi che lo stormo si libri in questa o in quell'altra direzione. Attendi che, sul vello di cirri, sulla pagina intonsa del cielo, Dio scriva i suoi segreti con l'inchiostro della preveggenza e delle interpretazioni. L'altra lettura possibile ai segnali celesti è tramite la rivelazione. Il cielo ha già svelato i suoi indizi custoditi da tempo, già trapelano nelle piogge di meteore o nei cerchi concentrici delle sfere.

Bisogna essere bravi a coglierli, questi sussurri delle stelle e delle nubi.

Oggi, il cielo incombente sopra gli speroni massicci e i baratri della Verna sembra una puerpera in procinto di partorire. Il sole, opaco, febbricitante, un malato sole dei primordi d'autunno, è schermato da una guarnigione di nuvolaglia bigia. Incolore come il cielo. Spettrale, si direbbe. La bruma fluttua sulla vallata, una vestaglia eterea e vaporosa, casacca di fate e folletti e umidità, con cui si imperla l'erba.

Lattiginosa bruma. Lattiginoso, misterioso cielo.

Tiepido, pigro autunno d'un pastrano di foglie ingiallite e bronzee e alberi scheletrici. Autunno impregnante le vesti di gelo e spifferi.

Quale prodigio sta per verificarsi?

La Verna, questo monte ripido, una belva irsuta di boschi, inselvatichita di rovi e sterpaglie, crepata di burroni, dai fianchi scoscesi e cime scheggiate, svetta nella valle, scura, scura come le sue profonde gole, come le sue scarpate.

È una montagna impervia, la Verna. Il suo nome allude alla dea pagana il cui tempio, caduto in rovina, sorgeva proprio in questi antri boschosi. Laverna. Dea dei briganti, dei ladri, depredanti i viandanti di passaggio e latitanti tra questi anfratti, tra queste caverne orrende e mefitiche. Con l'avvento del cristianesimo il suo culto è stato usurpato dalla leggenda delle spaccature tra le sue rocce. Anche la montagna ha pianto, sostengono i contadini, quando Nostro Signore ha subito l'ignominia della croce. E il suo pianto s'è espresso con un terribile terremoto, sfogandosi su se stessa, tremando al punto da squarciare in due la terra, sfaldare la pietra.

Il labirinto di cavità naturali e insenature e burroni degradanti a picco è stato provocato dal sisma della morte di Cristo, raccontano i villici.

Se ne vantano.

La Verna, per loro, è un piccolo Golgota.

Francesco concorda.

Sosta da giorni sul Masso Spicco, vegliando in preghiera, angosciato d'un cratere al cuore, d'un turbamento, impossibile da placare.

S'è fatto costruire una celletta più appartata, in prossimità d'una grotta, un'orrida spelonca. Fango e rami intrecciati. Il suo stomaco reclama cibo, ma Francesco digiuna. Un digiuno di quaranta giorni in preparazione della festa di San Michele Arcangelo, il Principe delle Milizie Celesti.

Quassù, affacciato sullo strapiombo, in questo sperone di roccia incuneato tra le pareti affrescate di muschio e tappezzate di foglie, quassù, su questa scogliera affacciata su un mare di nebbia, urla la sua disperazione latente.

Urla al suo Dio.

Urla affinché il mutismo ostinato del Signore gli urli di rimando.

Deve urlare. Deve liberarsi del morbo che lo sta corrompendo.

Francesco ha paura.

D'aver fallito, d'aver deviato dal giusto cammino, d'aver offeso il suo Dio.

Necessita risposte. Risposte immediate.

Deve sintonizzarsi nuovamente con le alte frequenze.

Le radici si compenetrano nella terra, ingarbugliandosi in imbrogli biancastri e fitti. Il suolo è un polmone palpitante. Il suo respiro puro filtra attraverso l'humus nero e corposo e grasso, che si sgretola in zolle tra le mani. Le fronde s'innervano, iniziano a indorarsi, a imbellettarsi per l'autunno, a emanciparsi dal fusto e a volteggiare, secche, placidamente a terra, rimboccandola con coltri rattoppate di vivaci colori.

Francesco inala una boccata d'aria.

Respira in contemporanea con il mondo.

«Mio Signore...» supplica, stremato, al limite. Dopo tanto patire cosa gli resta da vivere se non l'esaltazione stessa dell'uomo? La crocifissione. «Fa' che io sperimenti almeno un'oncia della tua Passione! Ormai non ti domando nient'altro.»

E il mondo, d'improvviso, si pietrifica.

Cristallizzato. Sospeso. Il vento si ammutolisce. Gli uccelli tacciono. Immobile, nella reverenziale attesa di un evento dalle ripercussioni mastodontiche. Epocali.

La natura percepisce quando sono in arrivo i miracoli.

Quanto a Francesco, nulla gli appare fuori dall'ordinario.

Vive da molto due tempi contrapposti eppure paralleli. Due forme differenti che contemporaneamente lo attraversano e mai, esattamente, le vive appieno. Non sa come spiegarlo. C'è e non c'è in nessuno dei due. Uno corrisponde al tempo quotidiano, effimero, che presto rifulge e presto incanutisce. Il tempo del barlume. Passeggero, in transito come l'uomo. Un tempo che subito muore e, al massimo, ne permane una spoglia, un residuo, le vestigia della memoria. E poi si dissolve.

L'altro tempo, gemello, si riassume nell'intero flusso di un istante. Ancora: concetti difficili da spiegare. Ma lo vive, Francesco, lo vive insieme all'altro. Un rapimento. Un'estasi. Il tragitto interiore di ogni cosa, il suo tendere, in spasmi d'emozioni, il suo convergere allo stesso destino. Un destino ch'è l'universo intero e l'universo altro non è che una scaglia d'eternità nella mente di Dio.

Un istante esploso per troppo amore, un eccesso d'amore.

Un delirio d'amore.

Indigestione d'amore. Dio soffre d'indigestione? O è scaturito dai suoi piani ineffabili?

Un amore immenso sparso in infiniti frammenti.

Ricomposto altrove.

Altrove dove c'è tutto.

Dove tutto è unità.

Dove tutto è amore.

Tutto è adesso.

Il presente, traboccante d'adesso.

Il cielo sta ardendo.

Le nuvole sono montagne di fuoco, le stelle sbiadite nell'aurora sono faville trapuntanti le fiamme sprizzanti. Il cielo è una fornace.

Francesco intravede il Serafino avvicinarsi.

I Serafini, la gerarchia angelica più prossima al trono di Dio. Ne proclamano ininterrottamente la magnificenza, la potenza, la maestosità. Hanno sei ali, sei ali infuocate, costellate di occhi. Occhi sondanti gli universi infiniti e gli ingranaggi dei tempi e scrutanti negli orizzonti dei secoli. Occhi abbaglianti d'eterno. Compiono una rivoluzione perenne, i Serafini, orbitando intorno all'Altissimo, decatandone le lodi, bruciando per Lui. Il Serafino è un'entità d'ardore inestinguibile, fiammeggiante fino ai più bui e reconditi fondali dell'esistenza per assimilare e purificare, con il loro calore intenso, anche il più perso e solo dei malandrini.

Il Serafino è fuoco.

Un essere di fuoco.

S'innalza verso l'alto, seguendo il movimento della fiamma. Verso Dio.

Francesco intravede il Serafino e lo stupore lo paralizza.

Si delineano le fattezze d'un volto, nel Serafino. Un uomo crocifisso. Due ali, occhi incastonati simili a raffinati gioielli, si distendono nell'aria sovrastante. Il Serafino pare nuotare nell'aria. Altre due gli velano il corpo, sprigionanti lingue di fuoco e scintille, un piumaggio crepitante. Le ultime, appendici, le usa per levitare nell'etere, fendendo l'aria con lame fiammanti, d'un bagliore ultraterreno.

L'uomo crocifisso emana dolcezza, una dolcezza sovrumana.

Francesco non sa cosa dire. Cosa fare.

Fissa il messo celeste e si rende conto d'aver già incrociato quel volto.

Nella chiesetta di San Damiano, appeso sopra l'altare.

Il crocifisso...

Predispone le mani in un abbraccio, allargandole. Eccolo. Strumento nelle mani del Signore. L'uomo racchiuso in quella mandorla d'ali e membra avvampa. I suoi capelli avvampano, sinuose ciocche di fiamma. La sua barba avvampa. È d'una bellezza ineguagliabile. Maestosa. Divina. Cesellato di splendore aureo.

Sembra scolpito nell'aria e nella luce, circonfuso d'una regalità sovrumana instillante riverenza e incutente timore. Il suo capo è circonfuso d'un'aureola luminenescente, contendente al sole il primato di bagliore.

Baluginano fiammelle, intorno al suo capo.

Francesco si rende conto che lo attendeva. Lo attendeva da sempre.

Fin da quando ha iniziato l'esodo della sua vita, rinunciando a ogni cosa per una forza suprema che ne contiene tutte. L'abbraccio al lebbroso, l'abbraccio da cui è scattato tutto, innescante il processo, il mutamento, altro non era che un presagio di quest'abbraccio ultimo. Abbracciare l'ultimo per abbracciare il primo. Cristo incarnato nell'escluso. Abbracciando Cristo nel fratello l'ha riammesso nella sua vita e, adesso, all'epilogo della sua vita, lo abbraccerà per davvero.

Gli abbracci nella vita sono stati tappe contrassegnanti il tragitto fino alla meta.

Questa è la meta.

La Passione. La Morte. La Resurrezione.

La spirito tramutato in carne.

L'astratto in concreto.

L'amore tradotto... come si traduce l'amore?

Si svincola, l'amore, da tutto. Libera. È la chiave con cui sganciare le catene imprigionanti le nostre reali essenze. È un anatema potente, l'amore.

Un'arma.

Francesco anela di più, assetato d'amore. Di più. L'estremo. Il vertice. N'è assuefatto. Di più, di più, di più! Il dolore intenso, la sofferenza della Passione.

È divorato dalla stessa sublime potenza che concatena tra di loro le creature, la collana dei respiri e delle avventure e delle imprese. La potenza che vibra nei pampini d'uva e nei bruchi e nelle volpi pullulanti le selve e nelle spiagge e nei pini intrappolanti le opalescenti foschie mattutine. La potenza palpabile nel bottone nero al centro del papavero, in un cespuglio di lamponi, in un lupo intonante ululati alla luna, in un sorriso abbozzato e impacciato. Nel pane appena cotto. Nel sole lambente le foglie. Nel gioco di ombre e luci. Nei sorrisi. Nelle lacrime. Nella torcia spizzicante la notte di fiamme e nella notte ornata di costellazioni. Nel mosto acido e nel lebbroso virulento e nelle sfaccettature di un diamante e nell'imperfezione della perla.

Trasfigurato dall'estasi, Francesco si sente crocifisso nell'aria. Il Serafino irradia una cascata di luce, un contorno di luce calda e rigeneratrice e raggi divampano da quel pistillo eccelso, da quel fiore di virtù. L'animo di Francesco s'incendia. Violentemente, quasi strattonato per i capelli da un molestatore invisibile, inarca il collo all'indietro, in tensione come sul punto di decollare. Sbarra gli occhi di colpo. I raggi gli si conficcano nei palmi. I suoi palmi sanguinano. Francesco urla e il dolore del mondo rimbomba dentro di lui. Uno schiocco di membrane, un frastuono. Un fragore di tuoni e il cielo trasuda sangue e il dolore affonda, affonda, scava, incede, incandescente.

La sublime veemenza del divino. Ha trasfuso in lui la sua energia, lo pervade.

Ha acceso in lui una lucerna d'amore.

Un'onda d'urto che qualunque vita intacca e travolge...

L'energia della croce, comunione di cielo e terra. Un braccio verticale. Uno orizzontale. Un abbraccio. La croce è un abbraccio.

L'abbraccio di Dio.

E Francesco è stato affisso in croce. Dopo aver scontato la condanna della Regola, essersi inerpicato sull'impervio calvario delle critiche, del silenzio atroce di Dio...

Il cielo l'ha premiato.

L'acuto dolore - i palmi e i piedi come trafitti - non si attenua. Pulsano.

Cantano.

Un corpo ardente, febbricitante d'amore, che canta.

Era solo amore che si strugge. Era solo amore che s'è accanito su di lui.

Un freddo corpo di marmo impreziosito da rubini sanguinanti...

Si accascia esanime, collassando nel nevischio infarinante il Masso Spicco. Il Serafino arretra, si rimpicciolisce, le sue ali sfavillanti sventranti di barbagli l'aria immobile, richiamato all'unione con Dio. Svanisce.

Francesco non riesce a gemere. Non riesce a muoversi. A strisciare via. L'ardore dell'angelo è penetrato - fervido, eccitante, incontenibile, esuberante fino allo sconvolgimento - dentro, nelle sue viscere, nella sua mente, nella sua anima. Ardore d'amore. Fuoco inestinguibile d'amore.

Il cielo è un sudario, un lenzuolo funebre di fuoco, lo ammanterà...

Il trambusto del mondo lo investe. Il sibilo dello zefiro tra le foglie. Il ciarlare degli uccelli. Il pulviscolo dei pollini. Il gorgoglio del ruscello.

Lo zampettare diffidente di Fratello Lupo, guaente di terrore, il suo tartufo bagnato, la sua lingua ruvida e rasposa mentre tenta di rianimarlo.

Francesco ha amato talmente tanto da trasmutarsi nella copia vivente dell'amato.

Metamorfosi d'amore.

È stato appena una particella d'istante nei pensieri di Dio.

Un istante e tutto si è compiuto.




Avvista Francesco disteso, sulla sommità aspersa di brina del Masso Spicco, il capo rivolto verso la terra, completamente immobile, piantato come un crocifisso cascato a pancia in giù nella neve. Leone non perde tempo. Arranca tra il fogliame scrocchiante, annaspa un poco nel nevischio. Deve raggiungerlo.

Che è capitato?

L'incendio intravisto da alcuni fattori a valle, questa notte. Leone si pente d'aver acconsentito a lasciare Francesco da solo in meditazione. Sconsiderato!

Eppure... eppure la natura ostenta il decadimento opulente dell'autunno. Scarlatti. Ocra. Marroni. Non scorge un ramoscello annerito o un tronco carbonizzato. L'erba è tutto meno che incenerita e gli odori dolciastri, zuccherini, di more e castagne borbottanti sulle braci a grigliare fanno sovvenire l'acquolina in bocca. Filari di vigne saccheggiate dai fattori, pronte alla vendemmia, arricciano turgide sui colli.

La foresta è indenne.

La neve non si è sciolta.

Francesco...

«Francesco!» si sgola Leone.

Nessuna risposta. Non un cenno di movimento.

«Francesco!» ritenta Leone.

S'affretta verso di lui, avanzando nella neve alta intorno al Masso Spicco, come una congregazione di fedeli radunati intorno al pulpito. S'apre un varco a fatica, inoltrandosi a bracciate, saltando sulla protuberanza rocciosa e protendendo un braccio a sfiorare l'incosciente amico.

«Francesco.»

Silenzio.

Nessun segnale di vita.

Leone è combattuto tra un brivido di paura e di commozione estrema.

Appena gli si para davanti, inginocchiato, le dita bluastre e intirizzite dal gelo della quota, lo ghermisce per le spalle, scrollandolo, e, digrignando per lo sforzo, lo rivolta per rimetterlo a pancia all'aria. Francesco pesa quanto una formica. Leggerissimo. Un gomitolo ossuto di nervi e muscoli, scarnito dai venti sferzanti e dalle privazioni. Da tempo consuma appena il necessario per sostentarsi.

Una maschera mortuaria sprizzerebbe maggiore vitalità di lui: cadaverico, emaciato, esanime, il battito flebile, praticamente inesistente, i bulbi oculari infossati e gonfi. Si rammola, scomposto, in grembo a Leone. Una Pietà profana. Leone se lo raccoglie sulle ginocchia, assesta colpetti sulle tempie di Francesco per rianimarlo. Dev'essere colpa dei digiuni e delle veglie. Troppi. Uno incalzante l'altro.

La devozione di Francesco non è mai degenerata nel fanatismo bieco, ma adesso Leone decide di porci un freno.

Il suo benessere fisico consiste in una priorità.

L'odore metallico e acre del sangue gli ammorba le narici.

Leone, spaesato, si osserva attorno. Fratello Lupo ha forse catturato una preda e la sta maciullando non poco distante?

No.

È il sangue di Francesco.

Ne ha le mani lorde. Cola copioso dai palmi in rivoli scarlatti imporporanti la neve, contaminanti il candore immacolato.

S-Sangue? Leone non controlla più il singhiozzo. Quale brigante l'ha ferito, lasciandolo agonizzante? Quale fiera ha tentato di sbranarlo?

Francesco... oh Francesco...

Un sussulto.

«L-Leone...»

Ma Francesco non è morto.

Struscia la testa contro il suo saio. Alita, una sbuffo di fiato. Debole, quasi moribondo, ma vivo. Mulinelli di foglie flosce turbinano nella radura, altre si sbriciolano, le raffiche pizzicano le gote. Sapori soporiferi d'autunno alle porte.

Francesco brilla, sorride, un sorriso spettacolare, delirante, eccitato al limite dell'eccitazione, come se traboccasse di gioia.

Come trasfigurato.

Ma vivo.

Vivo.

«L-Lui m-mi ha parlato Leone...» biascica, la voce poco più che un bisbiglio.

Il sangue sgorga, insozza il nevischio. Gli imbeve le vesti. Leone allenta il cordone e, in uno strappo, gli sbircia il fianco, così da valutare la gravità della situazione.

Forse Francesco, in un momento di meditazione, è scivolato in un dirupo e si è poi lentamente trascinato a carponi fino al Sasso Spicco. Ipotesi scricchiolante. Leone stesso ha faticato a issarsi sulla roccia. Oppure è inciampato su un tronco, su una pietra insidiosa affiorante dal terreno, causandosi queste contusioni. Ma si discostano da normali lividi. Ricordano escrescenze carnose. Capocchie di chiodo grumose di sangue rappresso. Come se avessero sviscerato le vene da Francesco e, con quelle, picchiandole e battendole, l'avessero infilzato e crocefisso.

Il tempo è stato strano oggi e Francesco rasenta ormai la cecità totale.

Ma appena Leone vede il petto del suo compagno e maestro, nota che la ferita è bizzarra. Particolare. Qualcosa di mai visto prima. Più un segno sanguinante che una ferita. Una cicatrice mai rimarginata, slabbrata, frastagliata di sangue secco. Una linea grondante sangue. Lacrime di sangue, vino essudato dal corpo ebbro di Francesco. Sgomento, in un timore reverenziale, Leone osa appena carezzare coi suoi polpastrelli indegni e peccaminosi il costato di Francesco.

L'altro oscilla tra veglia e indolenza, estenuato.

«L-Lui mi ha...»

«Ssh Francesco, buono. Ti... ti riporto nella tua capanna, quella vicino alla grotta, e là potrai riposare al calduccio...»

«S-Sto b-bene.» insiste il derelitto, il cui sorriso non si cancella. Inquietante. Misteriosamente e dolcemente inquietante.

Francesco lo guarda con uno straniante sguardo lieto e questo lo irrita assai.

Leone si risparmia il sarcasmo in un momento d'una gravità simile.

Non sembrerebbe che tu stia bene.

Perché quelle ferite... l'entità di quelle piaghe...

Non sa esattamente come recepire il tutto. Metabolizzarlo. Come razionalizzarlo. Forse è impossibile razionalizzarlo. Troppo arzigogolato e impensabile. Non hanno provenienza razionale, quelle ferite. Non sono state inferte da mano umana.

Leone cova però la certezza che un evento simile non si è mai verificato nei millenni dalla fondazione della Santa Madre Chiesa. Mai. Non ne sono stati benedetti i profeti, non i patriarchi, non gli apostoli. Nessuno.

È capitato a Francesco. A Francesco. Negli imperscrutabili e mistici disegni di Dio, lungo i secoli allineati nell'abaco del tempo, Francesco è stato reputato meritevole di conformarsi all'immagine straziata e contorta del Salvatore. Lui. Francesco.

Questo piccolo, gracile, minuto, sgraziato omino d'Assisi,

Alla progenie d'un avaro mercante.

Incredibili le mirabolanti giravolte della Provvidenza.

«Giuramelo Leone... g-giurami che... manterrai il segreto...»

«Lo giuro Francesco.»

Andrebbe annunciato a squarciagola nelle chiese, dai balconi, dai tetti! La portata di un miracolo simile. Francesco ha raggiunto le più elevate vette dell'estasi. Al di sopra del normale frate. Gradi e gradi al di sopra dei normali frati!

Leone fila a prendere dell'acqua per asciugare la ferita di Francesco. Avverte Fratello Lupo di vigilarlo. Tornerà in un battibaleno. Immerge un panno nella vecchia brocca in terracotta che Francesco custodisce nella grotta e, spillando gocce qua e là - è un'emergenza dopotutto! Potrebbe morire dissanguato! - lo porta all'amico e glielo applica, pigiando delicatamente, sopra il costato. Assorbe il sangue, il saio è ormai imbrattato, e indovina più distintamente che non zampilla da alcuna ferita: essuda dal livido sul costato, una specie di squarcio, di bocca propagata lungo il fianco.

«Andiamo Francesco.» lo invita. L'amico è ormai caduto nell'oblio d'uno sonno esausto. Se lo carica, illanguidito e molle, sulle spalle. «Ti soccorro io, adesso.»




Si materializza e svanisce in un lampo, navigante nel mare nero dell'incoscienza come sta ora, il bel viso di Chiara.

Chiara... perché sta sognando Chiara?

Sta sognando? Il Serafino? L'ha sognato? Era una visione? Un ratto? Dio l'aveva estrapolato dalla realtà senziente per immergerlo in un'altra, più intima e raccolta, lo strato segreto sotto la scorza delle cose sensibili? Ma no, non può essere. Il suo stomaco brontola, attanagliandolo coi crampi della fame da giorni, ma l'angelo soave non può essere frutto della sua immaginazione, no!

Era vero. Tangibile. Scatenava l'inferno tra le cime aguzze delle Verna, un fenomeno... innaturale in quel paesaggio silvestre e isolato.

Francesco è pronto a giurarlo! Era vero!

Quel momento contratto nel tempo, nell'eternità. Un soffio di paradiso, un raggio, un brivido, un marchio di fuoco. Il Signore l'ha marchiato, l'ha rivendicato come...

... come...

... Chiara...

Giovane e disarmante, la fluente chioma che le capitola sulle spalle, l'incarnato niveo e perfetto, la fronte una lastra d'alabastro, l'ovale simmetrico del viso, le palpebre trinate d'oro celanti l'oceano di zaffiro dei suoi occhi. Ride, Chiara, nel sogno. Ride e saltella e, nella radura soleggiata, danza. La sua veste ariosa e leggera vortica, lo acchiappa per il polso e lo trascina nella mischia, invitandolo a unirsi a lei. Il suo riso trilla. Un suono argentino, melodioso, il tintinnio di sonagli d'argento.

Chiara...

Il Signore...




Un panno sulla fronte. Gli stanno sfregando un panno sulla fronte.

Francesco rantola un verso incoerente e disarticolato, il braccio intorpidito. Vorrebbe alzarlo e allontanare l'impiccio del panno. È ruvido. Graffia. Gli procura fastidio.

Il panno gocciola. È freddo, un ammasso strizzato. Qualcuno deve averlo intriso d'acqua. Acqua. Il bisogno di bere sgomina qualsiasi altro pensiero razionale. Acqua. Sta morendo di sete. Ha le labbra screpolate, aride.

Chiunque sia il misterioso benefattore che gli sta tamponando la fronte, gli bagni le labbra con un po' d'acqua, per l'amor di Dio...

«Acq-...»

«Francesco!» squilla la voce, sollevata. «Finalmente ti sei svegliato!»

Leone? Una valanga di ricordi lo sommerge, frastornato dal risveglio. Leone che lo rinviene privo di sensi nel nevischio. Leone incredulo davanti alle sue piaghe, alla loro fattura non riconducibile a giustificazioni umane. Il giuramento estorto da lui di non divulgare questo segreto a nessuno. A nessuno. L'ultima volontà di Francesco è quella di alimentare clamore. È stato argomento di pettegolezzi fin troppo succulenti nella sua vita, grazie tante. Fomentare ulteriore pandemonio?

No.

«L-Leone...»

«Buono Francesco.» gli intima teneramente l'amico e confessore.

Mamma chioccia. Ognuno sia madre dell'altro. Strali di luce s'intrufolano tra le frasche. Leone l'ha trasportato nella sua casupola in fango e rami, adagiandolo sulla nuda terra fungente da giaciglio. I suoi polpastrelli tastano paglia. Cespi di paglia. Ha ammucchiato della paglia per farlo stare maggiormente comodo? Francesco vorrebbe opporsi, ma si sente così debole da riuscire a sollevare a malapena il collo.

Il suo guanciale è la pietra! Non la paglia! Anzi, il suo cuscino prediletto è il niente. Si sosta nelle veglie, in questi tempi. Sta digiunando quaranta giorni in preparazione alla festa dell'Arcangelo Michele. Non può interrompersi o ammettere scivoloni...

«A-Acqua...» pigola fioco.

Leone gli mantiene dritto il capo mentre tracanna l'acqua dal mestolo. Mestolo e secchio colmo d'acqua, s'appunta Francesco, la vista ottenebrata dal glaucoma, ma ancora funzionante. Mestolo e secchio e paglia nella sua cella.

E una coperta, frusciante sulle sue ginocchia.

Si dimena alla stregua d'un posseduto, scalciandola via. Una coperta.

«No! Toglimela!»

Leone si avventa a calmarlo, recuperando l'inestimabile coltre. «Francesco, niente lamentele. Stavi congelando. Nel tuo stato è vitale coprirti.»

Nel... suo stato?

Appone lo sguardo sulle mani, fasciate da bende rudimentali, molto probabilmente laceri stracci raccatati da Leone. Una chiazza scura s'allarga. Allora aveva ragione. Reca realmente impresse le ferite di Cristo condannato in croce.

I piedi non sono da meno. Un piede è già avvoltolato negli scampoli, l'altro, grazie alla meticolosa attenzione di Leone, applicante un panno intorno, presto lo imiterà. L'escrescenza grumosa d'una capocchia di chiodo battuta e ribattuta gli sporge dal dorso del piede. Francesco grida come se lo stessero scorticando quando il lembo di tessuto aderisce, incollandosi, alla piaga aperta e spurgante sangue fresco.

Leone ha conservato la colazione di stamattina. Il solito, frugale pasto di pane e latte. Travasa il latte in una ciotola - da dove viene? Quanto ha mendicato in giro mentre lui dormiva? - e sminuzza il pane in tozzetti, ammorbidendoli a mollo.

Pesca un tozzetto dalla mollica pregna e gocciolante e glielo appone davanti alla bocca. Serio. Leone serio è un Leone al quale si deve ubbidire.

«Mangia

Respingere sarebbe la sua mossa più ovvia. Ma Francesco è affaticato, affaticato come mai s'è percepito prima d'ora in vita sua. Accetta, sbocconcellando il pane, rannicchiato sotto la coperta. Un bambino malato.

Un bambino piagnucolante.

«Perché piangi Francesco?»

Piange di commozione. D'euforia. Di appagamento. Piange perché finalmente il suo Signore s'è manifestato, insignendolo dei suoi rossi e crostosi speroni da cavaliere. Unto cavaliere con il fuoco dell'amore. Ha ricevuto il sigillo.

Il sigillo del suo Signore.

«L-Lui mi ha p-parlato Leone...» Piangere è una liberazione, piange e ride, infervorato, un folle, uno snaturato insano. Un giullare. «M-Mi ha p-parlato! Deus mihi dixit!»

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