Assisi

Assisi.

Asisium.

Ascesi.

Assisi dalle radici etrusche, soggetta a Roma, avamposto dei Goti, assembramento e bottino dei Longobardi.

Si giunge qui dopo una salita, la strada che si dipana, gli strati di terra, ripidi, irti di boschi, folti di arbusti, impregnati di mistici, densi silenzi, che si accavallano, uno sopra l'altro, zigzagando. Si sale. Una gamba dopo l'altra. Un piede anteposto all'altro. Scalci pietruzze, sposti ciottoli. Percorri sentieri. Sali.

Voli.

Intraprendi il viaggio.

In questo giardino di storie, un recinto inestausto e rigoglioso di vita, di sangue, risa e pianti e strazi del cuore e capriole e salti. Assalti il Subasio con i tuoi piedi. Le mani sfiorano rocce secolari, capitelli della natura. Ti inebri del brusio del bosco, del rullio delle acque, del fermento della schiuma. Ti immergi nel Creato. Il Creato voluto dal Creatore. Il Creatore amato e lodato da Francesco.

Cerchi Francesco se vieni in questa città.

Cerchi il suo viso, la sua identità.

O la tua?

Assisi, piantata sul versante assolato del Subasio. Assisi, dai mille vicoli segreti, che s'irradiano, s'incrociano, s'annodano, sovrapponendosi, sciogliendosi, ritrovandosi e perdendosi. Come avviene nella vita. Assisi, dalle nervature perlacee, il tenero, incontaminato, fanciullesco rosa dell'alba. Dei tramonti. Il rosa dolce che tinteggia la Basilica di Chiara al tramonto ardente, una furibonda, superba combustione di nubi sciolte nell'oro fuso. Il rosa flemmatico, possente, che si abbatte sul rosone ricamato in pietra di San Rufino. Quel rosa pastello, delicato, che dilaga sui mattoni sbiaditi dal sole della Fonte Marcella, dove gatti si assopiscono poltroni.

E la Chiesa Nuova, custodia dei giorni fugaci e ribelli della giovinezza. L'Oratorio di San Francesco Piccolino, chicca preziosa e inestimabile. La Rocca Maggiore, solitaria, ermetica, che veglia e governa. Il Tempio di Minerva, la dea della saggezza, il flagello dei pagani, il cui nome rappresentava una frusta schioccante sui primi vescovi, martiri nelle torture, nei supplizi efferati e negli stridori di catene, di questa città. Il cristianesimo fu una frattura per Assisi. Una rivoluzione.

Non si può dimenticare la tua Basilica Francesco.

La supremazia del colore.

Assisi. Ascesi. Un tragitto verticale, uno slancio, un volo spiccato per caso, un moto gravitazionale verso l'alto, a strappare l'uomo dall'immanente paesaggio umbro rarefatto di brume e foschie e colline ondulate e appezzamenti di campi, e scagliarlo nella quiete vertiginosa del cielo. Un tragitto che inizia nella confusione del mito, con lo sbandamento, il cervello frullato, il passo maldestro e goffo dei bambini, e si conclude nel trionfo vero, celeste, lento. Uno straripamento, traboccante di luce, tutta la piena, matura, pura, purissima, verginale luce del mondo che deve nascere, preannunciata, anelata, a spaccare questa città e sancirne il due il destino segnato dal nome e compiuto in ogni suo punto da un singolo evento.

Luce tangibile.

Un tuono, all'improvviso, un sole.

Si può toccare il sole?

Si può guardare dentro il sole e rimirarci il tuo stesso viso e poi, con l'affanno dell'umano, sottrarne un filo, un ricciolo di sole, rubarlo, conservarlo, furfante che tu sei, e amarlo, amarlo infinitamente e trasportarlo sulla terra?

Tutti ti chiameranno pazzo.

Non hanno mai visto il sole, loro.

L'hanno ammirato da lontano.

Con la cautela e l'attenzione e la diffidenza dei paurosi.

Non ti spaventava la paura, Francesco.

Non più.

La paura è l'inverno dell'anima, l'aridità, il deserto, il groviglio di rovi. L'uomo scappa per paura. Sogna, ma abortisce i suoi sogni, avvelenandoli con la paura. Li imprigiona dietro il lucchetto dell'impossibile. Ma nulla è impossibile.

Basta danzare con la vita, Francesco, riallinearsi nel vortice primordiale.

Il vento spennellante di Dio qualunque cosa, il vento che è un nastro collegante ogni cosa, congiunge, concatenante. Il vento che sospinge, invita caldamente a riconciliarsi con Dio. Grazie a te è rinato quel vento.

Rinnovasti il ritmo di quella danza.

Qui, ad Assisi, nella città della scalata al cielo.

Il cielo. Un azzurro sparso di nubi. Una lastra azzurra sigillante questa città nella sua immutabile, ineffabile leggerezza. Ti liberi della zavorra. Quale? Il nauseante lezzo del possesso? La paura corrobora il possesso. La paura condiziona il possesso. Da quel giorno lontano. Da quell'interruttore spento. Era successo qualcosa e il Medioevo sapeva di non poter curare quella ferita, di non poter guarire il mondo, ma si attaccava più alla malattia che al medico che, milleduecento anni prima, era venuto per diagnosticarla e operare l'umanità miserabile. S'incolpava del peccato, il Medioevo, e retribuiva Cristo con inflessibile, severa, frigida moralità.

Maschere e illusioni di moralità, naturalmente.

Tu non ti adeguasti al ricettacolo delle falsità, Francesco.

Oh, lo sapevi, uomo inserito nella tua epoca ma proiettato all'Eternità, lo sapevi, quale giogo strangolasse l'uomo, il cappio della colpa che il Diavolo, confortevole nel buio e nell'acredine, restringeva e restringeva, intrappolando l'anima. Il collare del peccato. Un antico schianto, tra le cui macerie il mondo proliferava, pullulando di sogni e santificando le memorie e dove i confini avanzavano all'infinito, sempre più in là, nuovi, fucine di leggende e storie. Le certezze si erano sgretolate il giorno in cui l'uomo aveva disobbedito, marchiato dal peccato, dal disonore, dalla bruciante colpa. Aveva interferito, l'uomo, mandando il perno del cosmo fuori asse, sghangherando i calcoli e le equazioni, disequilibrando le orbite che sussistono inalterabili, le schiere celesti.

Ci era voluto Cristo ad assestare di nuovo, dritta, quella strada, mentre sfilavano in processione i secoli insicuri, tetri, flagellati dal vento impetuoso del dubbio.

Dominati dalla paura.

Ma tu, tu Francesco, tu non hai dimostrato paura.

L'amore incendia la paura.

L'amore arde.

Ti sei incamminato nel mondo, tra campi e monti e valli. Ti sei infilato, discreto, timido, diseredato, dapprima. Ma poi sei precipitato, nel mondo. Una caduta, dall'alto al basso. Se Lucifero cadde per superbia tu cadesti, volontariamente, per umiltà, scivolando nell'istante. Nel presente che si estende, come le infinità di grano, come quando nasce un bambino e lui respira quell'eterno presente, incessante, caldo, alieno eppure amico. Scompare l'inaudita potenza della nascita, l'inaudito pericolo insanguinato e bestiale del parto. Conta solo la sua discesa nell'universo, la sua ascesa nella vita, dove debutta strillando, sferrando calci, dibattendosi.

Litigioso pizzico del Tutto calato nel niente.

Sei stato come un tralcio fiammeggiante, Francesco, spirante dal cielo, simile a certe miniature del tuo tempo. Ghirigori d'oro e arabeschi d'argento, mare di lapislazzuli tritati che tutto avvince, che tutto ammorba, diluito. Briciole di nero fumo disgregate con una soluzione di gomma arabica e miscele vegetali. Un viticcio d'una miniatura che s'arricciola, s'insinua, radicandosi, familiarizzando nella caverna del cuore.

Sei stato come un papavero selvatico, sbocciante spontaneamente ai bordi delle strade. Quel rosso vivo, sanguigno, quel rosso passionale e ardimentoso, esuberante e buffo che canta l'estate e la sua libertà.

Sei stato in cammino, sempre, costantemente, calzando l'aria e il pulviscolo, con l'arsura della polvere e del caldo a lacerarti la gola, con l'azzurro stracciato di nubi a fungere da tetto e cappello. Accanto a un covone. Sotto l'ombra d'un ulivo diluviante baluginii e scintille d'argento. Nell'ecatombe catastrofica delle crociate. Mentre Dio scende come un'ombra d'oro sul tuo mondo e tu ti ammanti non delle stoffe cangianti di tuo padre, non dei lacci dei soldi, non delle trappole del potere.

Ti ammanti di notti e stelle e di questo mantello di cielo.

Hai costeggiato le rive dei fiumi, i fiumi e i mari di onde maestose e cavalloni orlati d'argento, e carezzato morbide superfici d'erba, e picconato l'oro dei ranuncoli, cogliendoli dai prati, e raccolto l'uomo dal suo fango. L'uomo, emarginato nel suo guscio di paura.

La paura dell'altro.

L'hai scortato lungo la via e l'hai amato, senza distinzioni, senza preferenze, abbracciando, consolando, tendendo la mano. L'uomo che è torrente dilaniante la Storia, scolpente il Tempo, oppure rigagnolo invisibile, ma dissetante la campagna, oppure goccia di rugiada rinfrescante, sfavillante sull'erba.

Gli uomini altro non sono che affluenti della Storia che divergono dalla foce. Dio.

Nel tuo Medioevo, Francesco, erano brandelli di presente rubati a un'eternità che si cibava di tutto, ingorda, famelica, scontenta e inappagabile. Ma pullulava di santi, il tuo contraddittorio, effervescente, spiritato Medioevo. I santi che erano come particole di divino sbriciolate e diffuse per il mondo a respingere il Male. Bruscolini del Pane della Vita, Cristo a cui tutto faceva riferimento e da cui tutto si allontanava, dilatandosi in un presente sconfinato, senza misura né fine, dove si poteva tentare di esistere. Di esistere. Non di vivere.

È più facile esistere. È più comodo.

Esisti seguendo le convenzioni, non disconoscendo la sicurezza del vecchio, ma conformandoti al vecchio. Perché ha retto finora. Perché è andato bene finora.

Se è andata così che senso ha ribellarti?

Ha senso.

Il senso di vivere.

È stato un inizio il tuo Francesco. Il mondo ha sussultato, esterrefatto. Gli inizi non lo sono mai davvero. Li avvolge il sogno. Sono violenti. Circonfusi dal mistero. Di cosa? Dell'avventura che sta per cominciare. La nebbia del mistero.

Il bello degli inizi, connaturati a ciò che saranno.

Gli inizi misteriosi.

È un mistero parlare a un lupo.

Eppure nel Medioevo succedeva.

Se parlavi a un lupo lui ti capiva.

Difficile spiegarlo adesso con il nostro linguaggio.

I poeti si affannano a risolvere questo mistero Francesco?

Tu, poeta della terra, che come tutti i poeti nobilitasti il fango e lo tramutasti magicamente in marmo abbagliante. Tu, cantico di una creatura che all'inizio si ricongiunge, scarcerata. Addormentato in un letto di grano, cullato da un soffio di vento, dall'eco delle campane, sotto questo azzurro, in questa stanza d'azzurro umbro, un azzurro che violenta la vista. Un lembo di cielo che a momenti potrebbe venire squarciato, rivelando il brulichio del paradiso. In un ronzio di pensieri, in uno sciame di immagini.

I poeti, asceti dell'anima, eremiti dello spirito, veggenti della Storia, scalpellini di bellezza. La notte è la madre dei poeti e tu, Francesco, ti sei seduto qui, a questo bivio d'eternità, correndole incontro nudo, un giorno lontano eppure sancito dal destino, lontano eppure in imperitura ripercussione, tonante, sbalordente.

Come Chiara, che ti corre incontro, giù per i colli, immessa nei filari di cipressi, nelle vastità del grano, tra i bagordi ondeggianti dei papaveri e gli acrocori di casolari e le vestigia di roccaforti in malora alla deriva nella campagna assolata. Corre Chiara, ignorando l'acconciatura disfatta, l'orlo imbrattato, le scarpine consumate. Corre per proclamare a te, a tuoi seguaci, ai tuoi amici, che la decisione è presa, inequivocabile, che si unirà a te, a voi, alla libertà di Cristo.

E tu, Francesco, la prendi per mano, sboccia un sorriso e ti rispecchi nei suoi occhi - azzurro, azzurro, l'azzurro degli angeli - e sai che marcerete insieme sulle rotte transitorie e sulle latitudini impazzite dell'Amore, agognanti l'Eternità.

Quel barlume.

Avvinti, i vostri sguardi si fondono, nel tepore del sole.

Per l'Eternità

In qualunque parte essa si trovi. In qualsiasi direzione si debba andare per incontrarla.

Forse proprio qui ad Assisi.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top