Capitolo 7 - Messaggi Velati
Il segreto della felicità non
è di far sempre ciò che si vuole,
ma di voler sempre ciò che si fa.
-Lev Tolstoj
Dopo aver cliccato sul tasto blu, che recitava la scritta: conferma prenotazione, Damian chiuse il portatile e si massaggiò le tempie.
Il bicchiere d'asporto era ancora pieno di quel tè fumante e il toast al formaggio ancora intatto dentro quella busta di carta. Il suo stomaco si era chiuso dal momento in cui aveva finito di parlare al telefono con sua moglie.
Guardò quel cibo, riuscendo solo ad avvertire un forte senso di nausea. Dopo quella chiamata, aveva subito aperto il suo computer, prenotando un biglietto aereo per Londra. Alla fine era stato costretto ad accettare quell'invito di compleanno, perché il padre di Adelaide aveva provveduto a chiamare il rettore di Harvard, facendogli conquistare, senza alcun problema, quel permesso di cinque giorni.
Era esattamente questo che gli aveva detto, quella sera di qualche giorno prima, quando aveva fatto squillare il suo cellulare, riportandolo alla realtà e impedendogli di compiere un passo che gli avrebbe fatto oltrepassare il confine delle sue certezze.
Damian non avrebbe voluto assentarsi, ma, così come negli altri ambiti della sua vita, non aveva avuto scelta, perché la famiglia di sua moglie aveva deciso per lui.
Aveva appena iniziato quel suo nuovo lavoro, non gli andava di prendersi già una vacanza, di lasciare quegli alunni con i quali stava iniziando a stringere un bel rapporto. E poi, ad essere sincero con se stesso, non aveva alcuna voglia di tornare a casa.
Inevitabilmente, si chiese se le cose sarebbero andate sempre così. Se anche trovandosi dall'altra parte dell'oceano sua moglie sarebbe riuscita comunque a controllare la sua vita. E l'unica risposta che il suo cervello gli suggeriva, era positiva.
E allora si trovava a domandarsi che senso aveva avuto trasferirsi lì. Che senso aveva avuto abbandonare la sua cattedra ad Oxford e la sua amata Londra, con la speranza di cercare una nuova via, una via d'uscita, se tanto quella fede al dito non gli lasciava alcuna libera scelta.
La solitudine di quell'aula e i suoi opprimenti pensieri vennero interrotti da alcune voci, seguite da risate divertite. In pochi secondi le porte furono aperte e fecero il loro ingresso tre persone.
«Buongiorno, Professore!» esclamò una sua studentessa. Damian si stava sforzando per ricordare il suo nome, mentre le osservava il volto dai lineamenti dolci, gli occhi marroni e le folte sopracciglia.
«Ci scusi, siamo un po' in anticipo, ma il Professor Kaplan voleva vedere com'era venuta la ristrutturazione di quest'aula» l'uomo spostò lo sguardo verso quella seconda voce, riconoscendo immediatamente la ragazza dai capelli a caschetto.
Era la prima volta che vedeva Ember dopo quella sera passata in camera sua. C'era stato quel lungo weekend di mezzo, in cui lui aveva sfruttato la sua solitudine per organizzare le prossime lezioni e comprare qualche arredo più personale per l'appartamento. E soprattutto per tenersi impegnato, evitando di pensare alle sensazioni che aveva provato quando era con lei.
Mentre Ember, anche lei completamente sola, non era uscita molto dalla sua camera, passando le giornate tra libri e serie tv. Fino a che Kaden aveva deciso di tornare un giorno prima dalla piccola vacanza con la sua famiglia e andare a farle compagnia. I due avevano passato il pomeriggio a guardare reality scadenti, sul divano di casa Johnson, mangiando schifezze di ogni tipo e cenando con una pizza d'asporto. Fino a quando lei si era addormentata e lui, non volendo svegliarla e non volendo nemmeno lasciarla da sola, si era steso dalla parte opposta del divano e aveva lasciato che Morfeo accogliesse anche lui tra le sue braccia.
Né Damian né Ember avevano ripensato a quel momento di bruciante tensione sessuale che c'era stato tra loro. Entrambi erano stati troppo occupati a fare altro, a distrarsi ed evitare di porsi domande riguardo ciò che avrebbero davvero voluto fare in quella situazione.
Ma quando lei aveva fatto il suo ingresso in aula, ogni singola sensazione viscerale lo colpì, spiazzandolo. Il modo in cui avrebbe voluto toccarla, sentirla addosso a lui, assaporare le sue labbra, avvertire i suoi fremiti di piacere. Ogni singola cosa riaffiorò nella sua mente. Ma anche quella volta, evitò di fare i conti con la verità, ignorando quella parte di se stesso che si domandava perché non riuscisse a farsi uscire quella ragazza dalla testa.
«Nessun problema» rispose, alzandosi e allungando il braccio verso quell'uomo, ingannando i suoi pensieri e convergendoli su qualcos'altro. «Sono Damian Turner, il nuovo professore di letteratura» si presentò, stringendogli vigorosamente la mano. Era poco più basso di lui, indossava un completo semplice, composto da camicia bianca e pantalone scuro. Gli occhi marroni avevano uno sguardo gentile e un sorriso genuino aleggiava sulle sue labbra sottili e contornate da un leggero alone di barba scura.
Aveva qualche anno in più di lui, ma la sua attitudine lo rendeva giovane come un ragazzino. Aiutato anche da quei capelli castani, dal taglio fresco e moderno.
«Direttamente da Oxford, nell'università non si faceva altro che parlare del nuovo arrivo inglese, erano tutti molto esaltati all'idea. Sa, la sua fama nel campo la precede» lo informò l'altro, sorridendogli gentilmente e mettendolo al corrente del fatto che la sua carriera lavorativa non era nota solo tra le facoltà inglesi, ma anche lì in America. «Comunque, io sono Gabriel Kaplan, insegno economia» si presentò poi, sciogliendo quella stretta.
Era la prima volta, da quando era arrivato ad Harvard in cui aveva avuto l'occasione di conoscere per davvero un suo collega. Nelle settimane precedenti non si era lasciato molto spazio per socializzare, a dire il vero era da tutta la vita che non si lasciava spazio per conoscere nuove persone. Ma si era ripromesso di apportare dei piccoli cambiamenti, ora che viveva in America, quindi, invece che chiudersi a riccio davanti a quella nuova occasione, decise di spronarsi a fare del suo meglio per apparire amichevole.
«Hanno fatto proprio un ottimo lavoro con le rifiniture del soffitto» commentò Kaplan, con lo sguardo puntato verso l'alto, che aveva una vera e propria passione per l'architettura. «L'anno scorso, dopo due intere settimane di pioggia ininterrotta e forte vento, il tetto aveva subito alcuni danni, perciò hanno dovuto rimetterlo a posto» gli spiegò poi, poggiando la sua ventiquattrore nera sulla cattedra.
«Abbiamo dovuto fare lezione nel teatro fino all'inizio delle vacanze estive» aggiunse l'amica di Ember, della quale Damian si stava ancora sforzando di ricordare il nome.
«Vi siete divertiti» rivelò Kaplan, sorridendo e scuotendo la testa mentre guardava il suo collega.
«Sì, soprattutto quando la Professoressa Gannerson è caduta dal palco mentre spiegava gli accordi per la cooperazione tra Stati Uniti ed Europa» disse Ember, ridendo e facendo ridere anche gli altri. Persino Damian lasciò che le sue labbra sottili si tirassero in un sorriso sincero.
«Shh» le riprese il professore di economia. «Se sa che ho riso anche io di questa cosa, per me sono guai poi» si ricompose, sistemandosi una manica della giacca in stoffa grigia. «Allora, come si sta trovando qui in America?» domandò poi, rivolgendosi al suo collega e costringendolo a portare la sua attenzione su di lui, mentre le due ragazze iniziavano una nuova conversazione per conto loro.
Gli occhi di Damian abbandonarono la figura di Ember. «Uhm... devo dire che mi sto ambientando bene, anche se i primi giorni è stato difficile» ammise sinceramente.
Ma non riuscì a mantenere la sua concentrazione su quell'uomo per molto tempo, perché, mentre gli parlava di come anche lui faticasse ad abituarsi alle nuove idee che sua moglie gli proponeva ogni giorno per passare il tempo, Damian si era perso ad ascoltare i discorsi di quelle due ragazze.
Non perché fosse curioso o perché volesse sapere cosa combinassero nella loro vita privata, ma perché, mentre Ember parlava con la sua amica dai lunghi capelli castani, non aveva smesso nemmeno per un attimo di fissarlo.
Teneva lo sguardo sulla sua figura alta, osservandolo con curiosità, come se lui fosse la preda e lei il cacciatore. Damian avrebbe dato qualsiasi cosa per scoprire cosa passasse dentro alla testa di quella ragazza. Una ragazza che probabilmente possedeva una delle menti più brillanti che avesse mai avuto il piacere di conoscere, che era padrona di una bellezza inaudita e di modi di fare talmente affascinanti da fargli perdere ogni sua certezza.
E mentre ricambiava il suo sguardo, era ormai certo che se quel telefono non li avesse interrotti, lui si sarebbe appropriato di quelle labbra carnose e invitanti. Avrebbe sperimentato quelle sensazioni, percepito quella pelle contro la sua. E poi? Poi sarebbe andato oltre, ne avrebbe avuto il coraggio? O la sua razionalità sarebbe tornata in tempo per farlo rinsavire?
Queste erano le domande alle quali, ancora, non trovava una risposta.
Ember continuava a tenere gli occhi puntati su di lui. Aveva notato come la barba ormai gli fosse ricresciuta, facendo tornare sul suo viso quell'aria d'altri tempi, più matura, più affasciante.
Gli accennò un sorriso furbo, prima di interrompere la sua amica, impedendole di finire la frase. «Andiamo allo Shay stasera!» esclamò, alzando di proposito il tono della voce, il tutto senza mai smettere di fissarlo.
Damian si chiese se l'avesse fatto apposta.
Era forse un modo velato per invitarlo a passare in quel pub?
Una frase in codice per dirgli: "Mi piacerebbe se ci fossi anche tu."
Non era bravo in quelle cose.
Non sapeva nulla dei modi in cui i giovani di quella generazione erano soliti corteggiarsi. Ai suoi tempi era diverso, nonostante non si scambiasse secoli di differenza con i suoi studenti, le cose erano comunque cambiate nella socializzazione di tutti i giorni.
O forse era semplicemente lui che era sempre stato diverso?
Dopotutto non aveva mai avuto molti amici, non era mai stato la prima scelta di nessuno dei suoi coetanei, anzi era sempre stato il ragazzino troppo magrolino, con il naso nei libri di letteratura e la testa infilata nel gabinetto dai suoi compagni. Quello proveniente dai quartieri poveri, che non c'entrava nulla in quella scuola privata, circondato dai figli delle personalità più importanti del paese. Poteva a malapena permettersela, perché i suoi genitori si spaccavano la schiena al lavoro, rinunciando a tutto, pur di pagargli gli studi e assicurargli la migliore istruzione possibile.
Lui non avrebbe voluto, aveva sempre detto che sarebbe andata bene una qualsiasi scuola pubblica. Ma sua madre gli ripeteva che le menti brillanti come la sua avevano bisogno del meglio possibile.
E lui era solito annuire semplicemente, davanti al viso stanco della donna che lo aveva messo al mondo, che gli teneva le mani strette tra le sue, mentre gli sorrideva con gli occhi colmi di lacrime. Per quanto lo desiderasse, non era mai stato in grado di esprimere tutto l'amore che provava nei confronti dei suoi genitori. Il suo carattere timido e schivo lo aveva sempre frenato, in tutto.
Ricordava bene quella promessa, fatta proprio alla sua mamma, il giorno prima che morisse. Lei gli aveva detto: "Non sprecare la tua intelligenza, non sprecare il tuo dono, non farlo mai." E Damian aveva sempre cercato di mantenere fede a quelle parole.
Dopotutto ci era anche riuscito, aveva ottenuto una cattedra fissa ad Oxford e ora stava insegnando ad Harvard.
Perciò no, non era mai stato bravo nel provarci con le ragazze in modo totalmente spudorato o nel captare i segnali. Non era bravo nel giocare a chi riesce a manipolare prima qualcuno, a persuadere le persone per portarle a fare ciò che lui voleva. Aveva un animo gentile e un'indole sensibile.
A differenza di Ember, che era una vera e propria professionista in quel campo. Con la sua incapacità di provare senso di colpa e il suo menefreghismo verso i sentimenti altrui.
«Ma ci siamo andate ieri sera» si lamentò l'amica, alzando gli occhi al cielo. «Non capisco perché non possiamo mai andare nei locali che piacciono a me» aggiunse con tono greve.
«Perché sono noiosi» le rispose per tanto Ember. Damian trattenne un sorriso, nel vedere l'espressione che si dipinse sul viso di quella ragazza, come una bambina arrabbiata.
«Le andrebbe di venire?» quella domanda, che gli era appena stata posta da Kaplan, lo riportò alla realtà.
«Come?» chiese di rimando, non avendo ascoltato per davvero nulla di tutto ciò che gli aveva detto fino a quel momento.
«Ho detto se ha voglia di venire alla mostra di Basquiat, questa sera. Io e altri colleghi ci siamo organizzati, ma poi uno ha disdetto all'ultimo e quindi ci avanza un biglietto» rispiegò pazientemente.
Damian si disse che quello era il momento perfetto da cogliere per adempiere a uno dei suoi buoni propositi. Sapeva che avrebbe dovuto accettare senza pensarci, ma una piccola parte di lui stava spingendo per rifiutare cortesemente, inventandosi una scusa e dirigersi in quel pub.
Per un attimo gli sembrò di non riconoscersi. Rinunciare ad un impegno culturale per recarsi in un locale e passare la serata tra alcolici e nuovi amici. E tutto solo per seguire il segnale che quella ragazza sembrava avergli mandato.
Ma prima che potesse rispondere al suo collega, sentì quella frase, pronunciata dall'amica di Ember. «E va bene, basta che non mi abbandoni perché sei andata a farti il tuo amichetto nei bagni» si era raccomandata.
"Cosa credevi di fare? È una ragazzina in confronto a te, ha ben altri interessi e tu dovresti comportarti da adulto, non perdere tempo fantasticando su scappatelle che accadono solo nei film."
Lo riprese la sua coscienza, facendolo tornare con i piedi per terra e scacciando via tutta la sua irrazionalità. «Sì, certo, molto volentieri» accettò quell'invito.
«Benissimo, allora ti passo a prendere io per le otto di questa sera» Kaplan si congedò, nell'esatto momento in cui altri studenti iniziarono ad affluire in quell'aula.
Quando Damian si voltò, notò che Ember aveva preso posto e tutta la sua attenzione era già concentrata sul monitor del suo portatile. Scosse la testa, riordinando i suoi pensieri, prima di rimettersi dietro la cattedra e iniziare quella lezione.
ꨄꨄꨄ
«Chiudi quei libri, secchioncella, stasera si esce» Ember fece il suo ingresso in camera, ritrovando Jodi seduta a gambe incrociate sul suo letto e il capo chino su un enorme manuale di diritto penale.
«Shh» la zittì la bionda, facendo aleggiare una mano.
«Chiudi. Questi. Libri» ripetè ancora, scandendo bene ogni parola, avvicinandosi a lei e piegando la testa, così da poterla osservare dal basso. Quando vide che la sua compagna di stanza non accennava alcun movimento, decise di procedere da sola. Le tolse il manuale dalle gambe e la fissò con un sopracciglio alzato.
«Lo sai che sei proprio una bulla ogni tanto» commentò Jodi, arricciando le labbra infastidita.
«Zitta, poi mi ringrazierai» rispose per tanto, poggiando quel libro sulla scrivania e voltandosi nuovamente verso di lei. «Andiamo allo Shay, c'è la partita di football, Patriots contro Vikings, ciò significa alcol e cibo a metà prezzo e noi non possiamo perdercelo» le spiegò poi.
«Ma è giovedì» constatò l'altra, cercando di farle notare che il giorno dopo avrebbero avuto lezione.
«Che è il nuovo venerdì» se c'era una cosa che caratterizzava Ember, era sicuramente l'avere sempre una risposta pronta per tutto.
«Senti, non usare queste battute ispirate al Diavolo veste Prada e ridammi il mio libro» le intimò, con tono serio. «Io non vado da nessuna parte, devo studiare» disse decisa, incrociando le braccia al petto e facendo comparire sul volto della mora un sorrisetto di sfida.
Era abituata a vincere, ad ottenere sempre ciò che voleva. Per questo ogni volta che qualcuno la contraddiva, lei finiva per vedere il tutto come una specie di partita da conquistare ad ogni costo.
E infatti, qualche ora, due shots di tequila e alcuni hamburger dopo, Ember, Jodi e Hailey si ritrovavano sedute al bancone dello Shay, il pub sportivo più famoso e frequentato della città. Lo stesso pub in cui Carter aveva portato Damian la prima sera e lo stesso locale in cui lui aveva visto la ragazza per la prima volta.
Alla fine, quella discussione, come sempre succedeva, l'aveva vinta Ember e la bionda era uscita con loro. Chiunque conoscesse la ragazza, sapeva che su una cosa non c'era alcun dubbio, lei era decisamente nata per fare politica.
Nessuno sapeva dirle di no, era in grado di convincere tutti, in un modo o nell'altro. E se voleva una cosa, la otteneva. Le sue amiche erano convinte che prima o poi l'avrebbero vista alla guida del Paese.
Il locale era abbastanza pieno di gente, tutti accorsi per vedere la partita in compagnia, accompagnandola con qualche birra a metà prezzo. Ember amava quel posto e amava lo sport, perciò non perdeva occasione per andarci, così come i suoi amici, che avevano appena fatto il loro ingresso.
«Ciao!» esclamò Kaden, avvicinandosi a loro con un gran sorriso. Quella sera indossava dei jeans larghi, dal colore chiaro, dentro ai quali vi era distrattamente infilata parte della camicia giallo pastello con alcuni piccoli rombi disegnati, coperta da una giacca di pelle marrone oversize. I capelli erano leggermente umidi e spettinati, segno che doveva essere uscito di fretta da casa, dopo una doccia veloce.
«Sei vestito meglio di me questa sera» commentò Hailey, osservando l'abbigliamento del ragazzo, mentre si scambiavano un bacio sulla guancia.
«Impossibile, principessa, ma faccio quel che posso» le rispose lui, facendole l'occhiolino e ordinandosi una birra media.
«Sappi che ti ruberò questa giacca» gli disse Ember, passando una mano su quel tessuto in pelle. Kaden si avvicinò al suo viso, solleticandole la fronte con i suoi ricciolini d'Angelo e guardandola divertito, attraverso quelle iridi di smeraldo.
«Dovrai passare sul mio cadavere» le mordicchiò gentilmente la punta del naso, facendola ridere, mentre lei gli tirava una pacca sulla spalla. Recuperato il suo calice di birra lui spostò l'attenzione sullo schermo del televisore.
Intanto, Jodi aveva iniziato a parlare con uno studente di medicina, che si era affiancato a lei per recuperare il suo ordine di patatine fritte. Così, Carter ne aveva approfittato per appropriarsi dell'attenzione di Ember, piazzandosi davanti a lei, ancora seduta su quello sgabello alto, poggiandole le mani sulle cosce.
«Ciao, bimba» la salutò, con tono tenero.
«Ehi» rispose distrattamente lei, mentre continuava a tenere gli occhi fissi sul mega schermo che stava proiettando la partita. La realtà era che il suo cervello era spaccato in tanti piccoli pezzi di pensieri e ciò le rendeva difficile concentrarsi anche sul ragazzo.
Stava pensando al fatto che i Vikings stessero vincendo, al suo stomaco che brontolava, -nonostante avesse già abbondantemente cenato- e alla giacca di Kaden.
Ma soprattuto, stava pensando a lui.
I suoi occhi guizzavano dallo schermo alla porta d'ingresso, ispezionando, di tanto in tanto, anche il resto del locale. Guardò l'orologio, notando che fossero appena le nove di sera e si rassicurò mentalmente, dicendosi che da un momento all'altro sarebbe potuto entrare.
Dall'altra parte del fiume, a Boston, in un quartiere altolocato, un gruppo di professori stava ammirando i quadri di quella mostra temporanea di Basquiat.
Gabriel Kaplan era passato a prenderlo in perfetto orario sotto casa sua. Ci erano voluti venticinque minuti di macchina per raggiungere il luogo in cui era stata allestita la mostra, una piccola galleria d'arte molto pittoresca, che era già piena di gente ben vestita e distinta.
«Grazie» disse Damian, cordialmente, prendendo un calice di champagne dal vassoio che quel cameriere gli stava offrendo.
«Preferisco gli impressionisti, ma devo dire che questi quadri sono davvero in grado di trasmettermi emozioni contrastanti» commentò Kaplan, indicando un dipinto che si trovava appeso sul muro di fronte a loro.
Lui si limitò ad annuire, perché la sua testa, in realtà, era da tutt'altra parte. Mentre fissava i colori che si amalgamavano così armonicamente su quella tela bianca, nel suo cervello frullava solo una domanda.
"Cosa starà facendo lei in questo momento?"
Sapeva di aver preso la scelta giusta, andando a quella mostra con il Professore Kaplan e altri suoi colleghi, ma una piccola parte di lui rimpiangeva il fatto di non essere in quel pub. Amava l'arte e amava poterla osservare da vicino, perciò non si capacitava di come ogni cellula della sua mente fosse proiettata su quella ragazza e non sul quadro che aveva davanti.
Fu quando si ritrovò a chiedersi se anche lei poteva, per caso, star pensando a lui o se anche a lei piacesse l'arte, che scosse la testa e buttò giù tutto quello champagne.
Ember era diventata il suo pensiero fisso ormai.
E non era un bene.
Aveva la certezza di non essere più in grado di riconoscere parte di se stesso. Aveva convissuto con la sua mente e il suo corpo per trentanove anni, quasi quaranta, credeva di conoscersi in tutto e per tutto ormai. E invece ora gli toccava scoprire che quella ragazza era stata in grado di stuzzicare quel suo lato nascosto, quel lato oscuro che dormiva dentro di lui e che aveva sempre cercato di reprimere.
Quello che Damian non sapeva, però, era che le risposte alle sue domande, erano tutte affermative. Perché, dentro quel pub, gli occhi della ragazza vagavano ancora in cerca della sua figura. E quando ormai la partita di football era terminata e il grosso orologio appeso al muro segnava la mezzanotte, lei si rassegnò all'idea che il professore non avrebbe mai fatto il suo ingresso da quella porta.
Perciò abbandonò il suo sgabello, dirigendosi decisa verso Carter, che aveva totalmente ignorato per tutta la sera. Lo afferrò per la maglietta azzurra che indossava e lo trascinò nei bagni di quel locale. Non dandogli nemmeno il tempo di ribattere. Non che ne avesse avuto bisogno, perché il ragazzo sapeva di non essere in grado di resisterle. Ember ne era al corrente e non si faceva scrupoli ad usare quella carta a suo favore.
Era arrabbiata.
Si arrabbiava sempre quando non otteneva ciò che voleva, quasi come se fosse il capriccio di una bambina. E la migliore medicina che conosceva, era proprio il sesso. Una medicina che usò anche quella volta, assieme a quel ragazzo.
E mentre Carter si spingeva avidamente dentro di lei, tenendola sollevata e con la schiena poggiata a quella parete, lo sguardo di Ember prendeva una nuova sfumatura. La sua medicina stava funzionando, ma la voglia di ottenere ciò che desiderava non sembrava placarsi, anzi, accresceva sempre di più.
Damian era il suo obbiettivo e non avrebbe accettato una sconfitta. Il fatto che non si fosse presentato, che ai suoi occhi fosse diventato qualcosa di ancora più irraggiungibile, aveva solo fatto sì che lei lo desiderasse maggiormente.
🌟🌟🌟
Non dimenticatevi di lasciare una stellina🙏🏻
Eccomi qui con un nuovo capitolo!
Allora è tutto molto più tranquillo rispetto a quello precedente. Siamo in un punto un po' di passaggio, in cui fa il suo ingresso un nuovo personaggio: il Professore Kaplan.
Credete che lui e Damian legheranno tanto da diventare amici?
E soprattutto, credete che lui potrebbe ostacolare e portare ulteriori problemi con la protagonista?
Nel frattempo il piccolo piano di Ember sembra non aver funzionato e lei non sembra averla presa proprio bene.
Quale sarà la sua prossima mossa adesso?
Per scoprirlo non dovrete fare altro che continuare a leggere 😈
Commentate facendomi sapere cosa ne pensate e per qualsiasi cosa non esitate a scrivermi.
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XOXO, Allison💕
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