Capitolo 3 - Lacrime di Whisky

Le lacrime non sono
espresse dal dolore,
ma dalla sua storia.
-Italo Svevo

Osservava l'ambiente attorno a sé, le pareti bianco perla, adornate da alcuni quadri impressionisti. Quelle tende bianche e blu, talmente lunghe da arrivare fino al pavimento in legno. E per finire quel soffitto, caratterizzato dal moderno lampadario centrale, in contrasto con tutto il resto dell'arredamento classico.

«Ehi, tutto bene?» la voce di Carter la riportò alla realtà. Il ragazzo, che si trovava su quel morbido letto matrimoniale, sopra di lei, aveva smesso di baciarle il collo, notando che la sua attenzione fosse da tutt'altra parte.

«Sì... no... credo di aver fumato troppo» ammise confusa, scostandosi da lui e tirandosi a sedere. Si portò le mani alle tempie, cercando di alleviare il mal di testa che quasi le impediva di pensare.

«Hai fatto solo due tiri» puntualizzò lui, aggrottando le sopracciglia, sapendo che era solita fumare erba, anche in quantità maggiori. «Comunque, se non ti senti bene ti riporto al campus» aggiunse premuroso, avvicinandosi a lei e poggiandole una mano sulla spalla scoperta.

Ember sfuggì subito a quel tocco, lasciandolo con un'espressione ferita dipinta in volto, che però cercò di mascherare subito. Così come lei stava cercando di mascherare le preoccupazioni che la divoravano dall'interno, impedendole di godersi appieno quella serata in compagnia.

Si alzò da quel letto, lanciando un'occhiata veloce fuori dalla finestra. Osservando il buio di quella calma notte e la pioggerellina, fine ma incessante, che sbatteva contro i vetri. Portò poi lo sguardo verso il comodino, fissando il suo cellulare, poggiato sopra la borsetta. «Mi ha chiamata mio padre oggi pomeriggio» era una frase che voleva solo pensare, ma che, senza nemmeno rendersene conto, pronunciò in un sussurro.

Il ragazzo aprì la bocca in modo sorpreso. «Come?» domandò, volendo essere certo di aver sentito bene quel bisbiglio. Sapeva quanto l'argomento genitori fosse un nervo scoperto per lei, un campo minato in cui a lui non piaceva muoversi, perché la maggior parte delle volte finivano sempre per litigare pesantemente. 

«Vuole che torni a casa questo weekend» ammise lei. Ormai il danno era fatto, tanto valeva provare a parlarne. Si lasciò andare ad un lungo sospiro, continuando a tenere il suo sguardo su quel cellulare.

La verità era che Ember non tornava a casa da quando si era diplomata ed era partita per l'università. E non vedeva i suoi genitori ormai da tre anni. Non le mancavano. Non le mancava quel loro non essere mai presenti e riuscire comunque a risultare oppressivi e severi.

Ember aveva sempre pensato che i suoi genitori avessero un talento naturale nel riuscire a rovinarle la vita. Erano quel tipo di persone a cui chiunque avrebbe sconsigliato di avere figli ed effettivamente nemmeno loro ne volevano. Ma lei era capitata, era stata un errore fatto durante una vacanza a Cabo, il troppo alcol aveva giocato un brutto scherzo nel ricordarsi di prendere il preservativo.

Scoperta poi la gravidanza, inaspettata e indesiderata, i genitori avevano comunque deciso di tenerla, perché sua nonna -scomparsa poco dopo la sua nascita- li aveva minacciati di privarli di tutti i fondi che mandavano avanti la loro multinazionale, che si occupava di acquisire e rivendere le piccole compagnie.

E così era stata messa al mondo. Nata in una famiglia troppo impegnata a preoccuparsi del lavoro e della carriera per badare alla loro stessa figlia. Una famiglia che pretendeva sempre il meglio, che non accettava una sconfitta, niente secondi posti.

Due genitori che passavano più di metà del loro tempo in giro per lavoro, ma che esigevano il massimo da lei. Ember doveva essere la migliore in ogni cosa che faceva. La migliore della classe, la migliore nello sport e in qualsiasi altra attività extra scolastica.

Un po' era stata facilità dalla sua grande intelligenza e un po' dal suo carattere forte. Quindi sì, aveva sempre ottenuto tutto ciò che voleva, nulla di materiale le era mai venuto meno. Ma aveva comunque vissuto senza sapere cosa significasse avere l'amore genuino di due genitori. Senza sapere come fosse ricevere una carezza o un abbraccio dalle persone che dovrebbero amarti più di chiunque altro.

Non c'era spazio per quel tipo di sentimenti in casa sua e lei era cresciuta diventando una donna dal carattere freddo, distaccato ed estremamente determinato. Non aveva paura di ingannare e raggirare per arrivare ad ottenere i suoi scopi. Non aveva paura di poter ferire qualcuno o di distruggere i sogni di qualcun altro.

Eppure, nonostante sembrasse di ghiaccio, rimaneva in lei sempre un punto debole: i sentimenti e le mancanze.

«E tu cosa pensi di fare?» le domandò Carter, spezzando il silenzio che si era andato a creare. Ember si voltò appena verso di lui, assottigliando lo sguardo e fissandolo severa. Odiava le domande scontate e odiava quelle situazioni. Ma soprattutto odiava la compassione che il ragazzo le rivolgeva ogni volta che si parlava dei suoi genitori.

«Secondo te se sapessi cosa fare sarei qui a tormentarmi?!» esclamò, con un tono fin troppo acido. L'ultima cosa che voleva era essere cattiva con lui, con una delle pochissime persone che si era sempre preoccupato e preso cura di lei. Ma la rabbia che stava cercando di sopprimere, ormai da troppo tempo, ogni tanto tendeva a prendere il sopravvento e fuoriuscire, creando malintesi e litigi. Cambiando repentinamente il suo umore.

«Era solo una domanda, non c'è bisogno di fare la stronza» puntualizzò Carter, alzandosi anche lui da quel letto e passandosi una mano sopra i capelli corti.

Ember fissò la figura di quel ragazzo, alta e dal fisico statuario, come se fosse stato scolpito direttamente nel marmo più raffinato. Le spalle larghe e la schiena muscolosa, che risaltava perfettamente anche coperta dal tessuto di quella maglietta nera.

Nulla a che vedere con il fisico snello e asciutto del suo nuovo professore.

Aggrottò le sopracciglia, domandandosi il perché fosse finita a pensare proprio a quell'uomo mentre osservava la schiena di Carter. Non le era mai capitato prima di fare paragoni tra lui e altri ragazzi che l'attraevano fisicamente. Anche perché lui, fino a quel momento, batteva chiunque le si fosse mai parato davanti agli occhi.

Ma la sua mente, dopo quella telefonata, le stava giocando brutti scherzi. Perciò attribuì quei pensieri allo stress che aveva accumulato durante la giornata.

Scosse la testa, muovendo qualche passo e raggiungendo Carter nel centro di quella stanza. Avvolse le sue braccia attorno alla vita del ragazzo, abbracciandolo da dietro e sentendo ogni suo muscolo distendersi sotto il suo tocco inaspettato.

Sembrava così piccola in confronto a lui. E anche lei stessa si sentiva piccola, ogni volta che gli stava vicino. Ancora doveva capire se quella sensazione le piacesse per davvero o l'affascinasse solo per la fiabesca poeticità di avere accanto un ragazzo che aveva tutta l'aria di essere una specie di eroe.

«Sai che questo è un argomento del quale non mi piace parlare» disse, nel momento in cui lui si girò, fissandola dall'alto. Ember fece presto scivolare la mano sul cavallo dei pantaloni di Carter, stringendolo dolcemente e facendogli schiudere le labbra.

Non era per niente brava a sistemare e aggiustare le cose dopo aver provocato il danno. L'unico modo che conosceva per mettere tutto a posto era il sesso e non perdeva mai occasione per utilizzarlo a suo vantaggio.

E chiunque, ogni volta, ci cascava.

Carter la prese velocemente in braccio, afferrandola dal sedere sodo e facendo allacciare le gambe di lei attorno alla sua vita. Iniziarono a baciarsi con foga, mentre la frangia di Ember gli solleticava la fronte.

Il rossetto rosso sulla bocca della ragazza era ormai sbavato, ma a nessuno dei due importava. Caddero nuovamente su quel letto matrimoniale e presto il corto vestito nero della ragazza fu lanciato sul pavimento e la maglietta di Carter lo seguì a ruota.

Ember accarezzò quegli addominali scolpiti, distraendosi dalle sue labbra per qualche secondo. «Cerchiamo di non incasinare troppo la stanza» disse lui, mentre armeggiava con la cintura dei pantaloni. «Non ho voglia di sentire l'ennesima ramanzina di Kaden» aggiunse poi, sfilandosi quei jeans, diventati ormai di troppo.

Lei ribaltò la situazione, facendolo stendere con la schiena sul materasso e mettendosi a cavalcioni su di lui. Le piaceva stare sopra. Perché amava avere il controllo, vedere il modo in cui lui gemeva dal piacere, mentre era lei quella che dettava il ritmo. E amava quando lui cambiava posizioni, diventando più autorevole, più rude. Prendendole i capelli o cingendole il collo con una mano, facendola diventare subito mansueta.

Ma soprattutto, quel modo di fare sesso, le permetteva di mantenere sempre il distacco che le serviva. Perché per lei il sesso era solo piacere proibito, che esplodeva dal basso ventre e irradiava tutto il resto del corpo, lasciandoti senza fiato e con la mente svuotata. Il sesso era questo per lei. Niente sentimenti, per quelli non c'era spazio nella sua testa già troppo incasinata, nel suo animo deluso.

«Se dovesse accorgersi che l'abbiamo fatto nella camera dei suoi genitori, di nuovo, ci penserò io» lo rassicurò, sapendo che con lei, Kaden, non sarebbe mai riuscito ad arrabbiarsi più di tanto.

Lei e il ragazzo erano amici da anni ormai. Era stata la prima persona che aveva conosciuto nell'esatto momento in cui aveva messo piede dentro il campus di Harvard. Kaden era cresciuto in un ricco quartiere residenziale di Boston. Figlio unico, arrivato per miracolo, in una piccola famiglia che aveva bisogno di donare tutto il loro amore ad una nuova, preziosa, creatura.

Aveva sempre avuto un rapporto stupendo con i suoi facoltosi genitori, un neurochirurgo rinomato in tutta l'America e una biologa marina che lavorava all'MIT. Perciò, dopo il diploma, non aveva mai desiderato allontanarsi da loro, scegliendo Harvard, che si trovava solo a poco più di mezz'ora da casa sua.

Kaden era forse l'unico a non essersi preso una cotta per lei, perché la conosceva fin troppo bene per farsi intortare dal magnetismo del primo impatto. Sapeva quanto potesse essere spietata e disfunzionale. Ogni tanto gli metteva anche un po' paura, quando non riusciva a capire se certe cose le dicesse con sarcasmo o le pensasse davvero. O magari era perché studiava psicologia, perciò era in grado di riconoscere i disturbi comportamentali della ragazza.

Ma le voleva bene. Nonostante tutti i suoi difetti e quei pregi quasi intimidatori, era una persona piacevole con cui passare del tempo. Se riuscivi a guadagnarti la sua fiducia, era una ragazza preziosa da avere accanto, con la quale potersi confidare, uscire, fare festa, piangere e creare indelebili ricordi di vita.

E poi sapeva meglio di chiunque altro ciò che aveva passato durante la sua infanzia e nella sua adolescenza. Era l'unico, oltre a lei, a conoscenza di ogni singolo dettaglio. Per questo un po' capiva il suo carattere e i suoi modi di fare, dopotutto nessuno le aveva mai insegnato diversamente.

Mentre Carter la faceva stendere a pancia in sotto su quel materasso, scivolando nuovamente dentro di lei ed emettendo un gemito gutturale quando la ragazza strinse istintivamente le gambe, facendo contrarre ogni suo muscolo. Il ragazzo iniziò a muoversi ad un ritmo sostenuto e ogni pensiero sembrò svanire dalla testa di Ember.

Il sesso era sempre stata la sua medicina preferita, per curare ogni cosa.
Infallibile, o almeno sul momento.

«Io giuro che vi ammazzo!» la voce di Kaden, assieme alla mano che batteva insistentemente sulla superficie della porta, arrivò dritta alle loro orecchie, interrompendo i gemiti e le spinte.

La ragazza girò la testa, guardando Carter negli occhi. I due scoppiarono successivamente a ridere, come due ragazzini che scappavano dopo una bravata. Adoravano infastidire e fare arrabbiare Kaden, lo trovavano divertente quando assumeva quell'espressione seria e cercava di fare il vocione.

«I miei ci dormono in quel letto! Possibile che non riusciate a trovare un altro posto per accoppiarvi come conigli?!» domandò retoricamente, alzando gli occhi al cielo e convincendosi sempre di più di quanto fosse stata un'ottima idea quella di chiudere camera sua a chiave ogni volta che loro erano nei paraggi.

In effetti, però, per i due ragazzi, trovare un posto dove fare sesso in santa pace risultava più difficile del previsto. Nei dormitori dell'università lo avevano fatto parecchie volte, ma bisognava sempre aspettare che i vari compagni di stanza fossero impegnati da qualche parte e soprattutto accertarsi che non ci fossero supervisori in giro.

Una volta avevano provato anche nella macchina di Carter, ma oltre ad essere alquanto scomoda, perché era un modello sportivo e non un suv, stavano anche per essere scoperti dalla polizia.

Sarebbe servita una casa, ma quella di Ember era fuori discussione, oltre che essere a Seattle, quindi sulla costa opposta. Mentre quella di Carter, che distava solo due ore di macchina, era comunque off-limits, perché la ragazza non avrebbe mai e poi mai voluto rischiare di incontrare i genitori di lui. Già non andava d'accordo con i suoi, di certo non le interessava conoscere parenti altrui.

Quindi la loro unica opzione sicura restava sempre l'abitazione di Kaden, quando quest'ultimo organizzava qualche festa per la loro compagnia.

«Merda...» disse il ragazzo, lasciandosi ricadere al suo fianco dopo essere venuto. Poggiò una mano sul sedere nudo della ragazza, mentre entrambi cercavano di riprendere fiato.

E poi Ember si alzò velocemente da quel letto, avvertendo subito il bisogno di fare pipì. Carter la seguì, buttandosi sotto la doccia. Qualche secondo dopo, mentre rifletteva se entrare o meno con lui, la sua mente riprese a pensare e il suo umore cambiò in modo veloce, inaspettato.

Era corsa in camera, avvertendo tutta quella situazione di intimità iniziare a starle stretta, a soffocarla.

«Torniamo di sotto dagli altri?» e la voce di Carter, che arrivava alle sue orecchie, seguita dalla sua figura, le aveva dato il colpo di grazia.

«Io credo che andrò al campus» disse atona, infilandosi la biancheria e recuperando il vestito. Il ragazzo si mise la maglietta, aggrottando le sopracciglia, confuso da quell'affermazione. Solitamente Ember era sempre l'ultima a lasciare una festa.

«Vuoi che ti accompagni?» chiese, ma lei aveva già smesso di ascoltarlo, uscendo da quella camera con le scarpe tra le mani.

Il carattere di Ember tendeva ad essere molto lunatico. E in quel momento aveva solo voglia di andare via da lì e starsene da sola. Improvvisamente non sopportava avere vicino il ragazzo e tutte le sue premure. Non sopportava la musica che proveniva dal piano inferiore e quell'odore di erba che ormai impregnava tutta la casa.

Eppure, fino a qualche minuto prima, nulla di tutto ciò le aveva arrecato un qualsiasi tipo di fastidio.

«Ember! Dove vai?» sentì perfettamente la voce di Kaden, ma decise di ignorarla. E mentre quest'ultimo si era alzato dal divano di scatto, abbandonando la ragazza che si stava strusciando su di lui, per seguirla, Carter stava scendendo velocemente le scale, ancora intento ad allacciarsi i pantaloni.

Ma quando entrambi raggiunsero la soglia della porta, la ragazza era già lontana. Era uscita, buttandosi sotto la pioggia scrosciante, che aveva segnato l'effettiva fine dell'estate.

«Avete litigato?» domandò Kaden, alzando un sopracciglio e tenendo lo sguardo puntato verso la figura di Ember, che si allontanava sempre di più.

«No, di punto in bianco ha deciso di andarsene. Ha fatto tutto da sola» spiegò Carter, scuotendo la testa e voltandosi. «Sai meglio di me quanto può essere lunatica» aggiunse poi, prima di tornare nel salotto.

I passi di Ember si erano presto trasformati in una corsa sostenuta, voleva arrivare al dormitorio il prima possibile. Non sapeva spiegare nemmeno lei quei suoi improvvisi cambi d'umore, si diceva che forse tutte le emozioni che aveva sempre represso, ogni tanto lottavano tra loro per uscire e una, di solito quella sbagliata, prevaleva sull'altra.

La considerava una teoria stupida, anche un po' infantile, ma le bastava per non auto additarsi come pazza.

Talmente assorta nei suoi pensieri, non si era nemmeno preoccupata di comandare le sue gambe, che continuavano a muoversi, facendola camminare. E camminò, per chilometri e chilometri, senza nemmeno accorgersi di quello che aveva intorno.

Si lasciò alle spalle quei quartieri residenziali, attraversò il Longfellow Bridge e poi continuò diritta. Non le importava che la pioggia continuasse a sbattere sul suo corpo infreddolito, non le importava che i suoi piedi bruciassero per i troppi passi fatti. Aveva bisogno di schiarirsi le idee e lasciare semplicemente che i pensieri nella sua testa fluissero, liberi, grazie alla solitudine di quella notte che la circondava.

E poi, improvvisamente, come se si fosse destata dal suo stato di trance, si rese conto che la torre dell'università di Harvard stanziava davanti a lei.
Aveva camminato per più di un'ora, senza neanche rendersene conto. E quella era solo l'ennesima conferma di quanto la sua mente fosse in grado di tenerla prigioniera.

Aggirò l'edificio principale, proseguendo ancora per qualche metro, ritrovandosi poi finalmente davanti allo stabile che ospitava la sua camera. Osservò quei mattoni rossi, impilati perfettamente gli uni sugli altri, il buio dominava ogni cosa e l'unica luce proveniva dalle finestre di alcune camere.

Un flebile suono attirò la sua attenzione. Era il suo cellulare, che vibrava nella piccola pochette a mano. Rimase ferma, ancora per qualche secondo, indecisa sul da farsi. Da una parte avrebbe voluto ignorarlo, entrare, dirigersi nella sua stanza e dormire. Ma dall'altra, la curiosità di vedere chi le avesse scritto, sembrava prevalere.

Recuperò il telefono, toccando lo schermo e facendolo illuminare.

"Sarebbe meglio se arrivassi venerdì in mattinata, perché poi io e tua madre abbiamo un impegno di lavoro."

Lesse e rilesse quel messaggio, inviato da suo padre, con la mandibola serrata e uno sguardo incredulo. I suoi genitori le avevano stranamente chiesto di tornare a casa, perché sicuramente necessitavano di qualcosa. E oltre a ciò, si sentivano anche liberi, dopo tre anni in cui non si vedevano, di imporle il giorno e l'orario di arrivo, perché, come sempre, il lavoro era più importante.

Presa da un impeto di rabbia, voltò mezzo busto, lanciando poi il cellulare, che finì per schiantarsi contro il tronco duro di un albero. Ricadde a terra, diviso in più pezzi, sotto il suo sguardo colmo d'ira. Prese un profondo respiro, scuotendo la testa e imponendo alle sue emozioni di andare a richiudersi dentro i cassetti della sua mente.

Come se nulla fosse successo, iniziò a camminare verso l'entrata di quei dormitori, decidendo di non voler più pensare a quella situazione. Sapeva che non ne valeva la pena rovinarsi le giornate per colpa dei suoi genitori, loro non si erano mai dati pensiero per lei, non vedeva perché doveva essere il contrario.

Ferma, davanti alla porta della sua camera, osservava lo spiraglio tra essa e il pavimento in piastrellato. Nessuna luce sembrava provenire dall'interno, segno che Jodi, la sua compagna di stanza, doveva già essere a dormire o che semplicemente non fosse lì.

Dopo un giro di chiave, abbassò la maniglia, cercando di fare meno rumore possibile. Diede un'occhiata veloce, prima di entrare, notando che la ragazza dai lunghi capelli tinti di platino, se ne stava rannicchiata sotto le coperte.

Si richiuse la porta alle spalle, poggiando la borsa sulla scrivania e togliendosi le scarpe. La camera era avvolta dal buio, solo la luce della luna, che filtrava dalle tende chiare, illuminava una parte del suo letto singolo.

Ancora fradicia dalla testa ai piedi, decise di togliersi quel vestito, afferrando poi un'asciugamano e avvolgendoselo attorno al corpo. Camminò piano, verso la sua scrivania, aprendo l'armadietto che vi era posto sotto, quello che usava per nascondere gli alcolici.

Afferrò una bottiglia di whisky, già aperta e si lasciò ricadere sul pavimento. Con la schiena poggiata alla parete, bevve un primo sorso, cercando di sfuggire ai suoi pensieri deleteri.

«Cosa stai facendo?» la voce di Jodi la riportò alla realtà. La ragazza se ne stava seduta sul letto, con parte dei capelli arruffati che le ricadevano davanti al viso e una voce impastata dal sonno.

«Mi ubriaco» rispose Ember, alzando la bottiglia, con un sorrisetto ironico dipinto sulle labbra. L'altra scosse la testa, alzandosi e raggiungendola accanto a quella scrivania. Prese posto vicino a lei, appena in tempo per notare una singola lacrima solcarle la guancia sinistra.

«I genitori fanno schifo» ammise la mora, prendendo un altro, abbondante, sorso di quel liquido alcolico.

«Lo so» rispose semplicemente Jodi, togliendole la bottiglia dalle mani e facendole poggiare la testa sulla sua spalla.

🌟🌟🌟

Non dimenticatevi di lasciare una stellina🙏🏻

Ehi ehi ehi, eccomi qui con il nuovo capitolo!

Ho lasciato da parte Damian, concentrandomi solo su Ember, così da potervela introdurre al meglio.
Ci sono ancora tante cose da scoprire su di lei e sul suo passato, ma per ora cosa ne pensate della nostra protagonista?

Vi ho introdotto, in parte, anche Carter (che già avevate conosciuto nel primo capitolo) e Kaden (anche lui incontrato in piccola parte nel primo capitolo), come vi sembrano questi due personaggi?

Sì è appurato anche che Ember ha un rapporto complicato con i suoi genitori e un carattere difficile. Credete che ciò porterà problemi nel corso della storia?

Per scoprire la risposta a questa domanda e per scoprire tutti i futuri drammi, non dovrete far altro che continuare a leggere😈

Commentate facendomi sapere cosa ne pensate e per qualsiasi cosa non esitate a scrivermi.

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XOXO, Allison💕

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